L’oggetto in poesia – La debolezza degli oggetti – Poeti a confronto: Tomas Tranströmer, Iosif Brodskij, Francesca Lo Bue, Lucio Mayoor Tosi, Mauro Pierno, Raffaele Greco – L’ontologia del declino del soggetto e dell’oggetto a cura di Giorgio Linguaglossa 

 


Giorgio Linguaglossa
La noia è un’esperienza fondamentale dell’umanità e dell’Occidente

 

 

 

 Giorgio Linguaglossa

 

 

 

Giorgio Linguaglossa

 

A proposito della «noia» e del «vuoto» e dell’«oggetto»

 

«La noia è un’esperienza fondamentale dell’umanità e dell’Occidente. La parola tedesca è langweile: un lungo indugio, una piccola sosta protratta lungamente nel tempo. Il tempo che si caratterizza per una ripetizione infinita: non solo la mancanza della novità ma soprattutto la mancanza della speranza stessa che qualcosa di nuovo possa accadere. È l’esperienza del soffocare, che può aprire alla disperazione, questo è ovvio, ma anche al salto, religioso e filosofico. Senza questo senso di soffocare nel vuoto è impensabile anche solo pensare di uscirne. Quando giungi al limite in cui il passato ti sembra niente puoi immaginare un oltre. La noia direi, quindi, ha una duplice faccia: consuma il tempo passato, consuma il presente ma non è detto che si fermi lì, può portare ad una novitas, il tempo si è esaurito ma può esserci dell’altro.
Poi non citerei sempre lo straniero, citerei Leopardi, è un discorso tipicamente e completamente leopardiano, ma direi anche tipicamente italiano, anche del Tasso e di tutta la grande lirica italiana.» (da una intervista a Massimo Cacciari)

 

La debolezza degli oggetti

 

Con l’insorgere della noia gli oggetti si caricano di una forte emblematicità, assumono una grande carica simbolica. Il «lungo indugio» richiede che il punto di vista della noia si posi sugli «oggetti» per rivelarne  la loro intrinseca debolezza ontologica: l’oggetto diventa «debole», e anche il soggetto diventa «debole». Si va profilando la «ontologia del declino» degli oggetti e del soggetto di cui ci ha parlato Gianni Vattimo. La «debolezza degli oggetti» va di pari passo con la appercezione annoiata del mondo tipica della attuale fase della civiltà del capitalismo finanziario e globale; è la conformazione indebolita degli oggetti quella che appare alla epoché dello sguardo annoiato, ma, appunto, questo sguardo indebolito richiede una sintassi indebolita, e così le giunture razionalizzatrici della sintassi si indeboliscono, la direzione unilineare e unitemporale della sintassi diventa fragile e si disintegra; analogamente avviene con la appercezione dello spazio-tempo: lo spazio tempo, liberato dalla costrizione della sintassi, si moltiplica in una pluralità di spazi e di tempi, e arriviamo alla appercezione indebolita della «nuova poesia», cioè della «nuova ontologia estetica». È un movimento epocale che qui ha luogo, un movimento innervato nella «ontologia del declino» del soggetto e dell’oggetto.

 

Pensavo in questi giorni leggendo la poesia di Mauro Pierno e di Alfonso Cataldi che la poesia della nuova ontologia estetica dà molto credito alla noia. La noia è una ottima maestra dell’arte poietica; la disarmonia di cui parla Leopardi a proposito della musica (intuizione brillantissima), pone la musica alla stessa stregua della poesia, entrambe sono una interruzione della noia, della noia come rallentamento del tempo e dilatazione dello spazio; la musica questo lo sa da tempo immemorabile e la musica di Rossini e di Paganini ne è un esempio impareggiabile…

 

In tempi moderni la musica di Giacinto Scelsi mette in opera il principio della noia: gli «oggetti», i «suoni» della musica tradizionale scompaiono, per Scelsi la musica è interna al suono (ascolta Quattro pezzi su una nota sola, per orchestra da camera, del 1959), il musicista che abita davanti al Foro romano distingue la musica dei suoni dalla musica del suono, e la sua ricerca musicale si concentrerà sulla musica che scaturisce da un suono solo, un suono dominante che si può dilatare e temporalizzare all’infinito. Scelsi compone sempre più a rilento, spesso rielaborando opere precedenti, come nel caso di Anagamin (1965), Ohoi (1966) e Natura Renovatur (1967) generate, rispettivamente, dal Secondo, Terzo e Quarto Quartetto.

 

Analogamente, la noia per la orchestrazione sonora della tradizione poetica, sostanzialmente elegiaca e monocorde, spinge la «nuova poesia» che vuole essere inusitata e dissonante a ricercare nuove soluzioni di conflittualità e di dissonanza, ma tutto ciò all’interno di una tonalità dominante, non più entro il perimetro di un concetto di panlogismo zanzottiano e sanguinetiano che accosta parole-suoni diversi e differenti in un conglomerato unilineare e unitemporale, nella «nuova ontologia estetica» la differenza e la diversità si possono trovare soltanto all’interno di una metafora dominante o una tonalità emotiva dominante.

 

La «noia» è il vuoto che si apre, che apre spazi e spalanca tempi; soltanto la «noia».

 ti consente questa esperienza fondamentale… ti fa esperire il tempo e lo spazio attraverso le parole… e le parole vengono ad essere temporalizzate e spazializzate… Il punto e la spaziatura tra i singoli versi e le singole strofe sono balconi che si affacciano sul vuoto della pagina bianca… Il «vuoto», dunque, insieme alla «noia» sono esperienze costitutive della poesia della nuova ontologia estetica; per «vuoto» intendo qui qualcosa di affine alla «noia», qualcosa che consente la traslazione di essa nella pagina bianca, perché è la «noia» che può spalancare la impalcatura del «vuoto», solo la «noia» per la parola panlogistica.

 

 Due parole sull’oggetto

 

l’oggetto è tale grazie alla sua conformazione all’uso, altrimenti cesserebbe di essere oggetto; l’oggetto fonda l’oggettualità, la conformazione di più oggetti è tale per l’uso che noi ne facciamo, ma l’uso è il rapporto che intercorre tra di noi e gli oggetti e, se c’è «uso», c’è linguaggio. È il linguaggio che ci consente di esperire gli oggetti e la stessa esperienza del mondo. La «questità» è la forma che chiama in causa il positivo e il negativo, la possibilità del loro essere e la non-possibilità, cioè il loro non-esserci. Il mondo è un insieme mirabolante di «questità» misteriose, misteriose in quanto «ciò che appartiene all’essenza del mondo, il linguaggio non lo può esprimere»,1] proprio in quanto «gli oggetti formano la sostanza del mondo».2]

La percezione che noi abbiamo del mondo, la cosiddetta oggettualità della nostra esperienza, contiene una in-determinatezza implicita in oggi oggetto, anche di quello più semplice. Ogni determinazione predicativa contiene l’in-determinato.

 

Afferma Wittgenstein:

«A chi veda chiaro è manifesto che una proposizione come “Quest’orologio è posto sul tavolo” contiene una gran quantità d’indeterminatezza, quantunque esteriormente la sua forma appaia affatto costruita».3] –

 

La proposizione che dice la semplicità della propria determinazione (l’oggetto) – è la stessa che dice appunto la semplicità della propria in-determinazione. Può sembrare paradossale quanto andiamo dicendo ma è qui che si innerva, in questo punto, quella particolare conformazione d’uso del linguaggio poetico che ci mostra al più alto quoziente di significazione che ogni determinato è in sé in-determinato.

 

1] L. Wittgenstein, Osservazioni filosofiche, p. 41
2] Ibidem p. 39
2 Ibidem, p. 168

 

Giorgio Linguaglossa

Con l’insorgere della noia gli oggetti si caricano di una forte emblematicità

 

Francesca Lo Bue

 

18 maggio 2018 alle 18:40

 

Una parola e una poesia sull’oggetto “lampada”.

Nel nominare gli oggetti la loro “specifica ” oggettualità, o precisione è già implicita la loro vaghezza, perché comporta la “condanna del linguaggio”: il suo essere scarso, limitato, approssimativo. Ma pure paradossalmente, nominare gli oggetti è aprire con una “chiave” la infinita possibilità di dire, nominare in un altro modo. Come una lampada che gettando luce su gli oggetti li chiama alla visibilità, alla loro presenza ed uso.
La poesia è questo oggetto “lampada” che è capace di potenziare la nominazione, quindi arricchire la esistenza materiale e spirituale del mondo.

 

Cercare

 

Come fossi lo spirito della lampada
cerco il luogo del Nome e della cima innevata,
cerco nel gioco delle mani la scrittura fatale del tuo destino.

Visione..
Barbaglii di brace in desolato suono.
Mano che afferri
oltre pareti di ferro,
scarlatto che ammicchi una chiave di silenzio e presagio.

 

Buscar

 

Como si fuera el espíritu de la lámpara
busco el lugar del Nombre en la cima nevada,
busco en el juego de las manos la escritura fatal
de tu destino.

 

Visión,
destello que abrasa en desolado sonido.
Mano que aferras
más allá de las paredes de hierro.
guiñas una llave de silencio y presagio.

 

Lucio Mayoor Tosi

 

18 maggio 2018 alle 18.02

 

La maniglia argentata
di una vecchia macchina da scrivere.
Questo lento a capo.

 

Giorgio Linguaglossa
Man Ray, Lee Miller

 

Giorgio Linguaglossa

 

19 maggio alle 19.28 alle 18.02

 

Due poeti a confronto: Tomas Tranströmer e Iosif Brodskij – L’uso degli «oggetti»

Poesie di Tomas Tranströmer

 

Se leggiamo contemporaneamente una poesia di Tranströmer e di Brodskij salta in evidenza il diverso modo di nominare gli «oggetti». Nel primo gli oggetti si trovano nel presente e si sono, come dire, assolutizzati nel presente, e il poeta non fa altro che estorcere al presente la inusuale conformazione di essi (anche le persone sono oggetti e sono trattati da oggetti). L’approccio che ne deriva agli oggetti è quindi «frontale» ma non in accezione mimetica, quanto in accezione deduttiva. Tranströmer fa derivare gli oggetti dalla deduzione, argomenta utilizzando la verosimiglianza al reale e la inverosimiglianza, entrambe le strategie sono utilizzate per raggiungere una fotometria della profondità degli oggetti, cioè considera gli oggetti dal punto di vista dell’inconscio, rivelandone un diverso modo di essere. Rispetto alla poesia elegiaca di Brodskij, senza dubbio la poesia dello svedese è più «moderna», più vicina alla sensibilità di un contemporaneo: presenzializza il presente degli oggetti.

 

IV
Accanto al genero che è uomo del suo tempo Liszt è uno sciupato grandseigneur.
È un travestimento.
L’abisso che prova e respinge tante maschere ha scelto proprio quella per lui –
l’abisso che vuol far visita agli uomini senza mostrare il suo volto.

 

V
L’abate Liszt è abituato a portarsi da solo la valigia nel nevischio e sotto il sole
e quando un giorno morirà nessuno lo aspetterà alla stazione.
Una tiepida brezza d’un generoso cognac lo rapisce nel bel mezzo di
un compito.
Ha sempre dei compiti.
Duemila lettere all’anno!
Lo scolaro che scrive cento volte la parola sbagliata prima di poter andare a casa.
La gondola è gravata dal peso della vita, è semplice e nera.

 

VI
Di nuovo nel 1990
Ho sognato che avevo guidato per duecento chilometri inutilmente.
Poi tutto si fece grande. Passeri grossi come galline
cantavano in maniera assordante.
Ho sognato che avevo disegnato tasti di pianoforte
sul tavolo di cucina. Io ci suonavo sopra, erano muti.
I vicini venivano ad ascoltare.

 

(traduzione di Gianna Chiesa Isnardi, Sorgegondolen, La gondola a lutto, 1996 – Herrenhaus, 2003)

 

Giorgio LinguaglossaGiorgio Linguaglossa

 

Se leggiamo una poesia di Iosif Brodskij scritta nel 1997 (un anno dopo la pubblicazione delle poesie di Tranströmer). Ci accorgiamo che gli «oggetti» sono già nel passato e il poeta non fa altro che rievocarli e revocarli dal passato per renderli presenti. Utilizza cioè l’elegia, la rammemorazione. L’impostazione che ne segue sarà sostanzialmente di tipo elegiaco, il tono di voce e il contenuto emotivo, la Stimmung saranno la nostalgia e la poesia avrà un tono vagamente nostalgico di qualcosa che si è perduto e che non potrà più tornare. Il periodare avrà qualcosa di manieristico (del manierismo alto) e viene impiegato il «come» per unire i ponti delle metafore e delle proposizioni tra di loro, inoltre Brodskij fa amplissimo uso dell’enjambement in modo del tutto convenzionale e adotta la separazione in strofe di due versi per intervallare il tempo che passa e renderlo più evidente. Il soggetto in realtà è il tempo. Ecco una sua tipica poesia:

 

*

 

Tramonta il sole, ha chiuso il bar all’angolo.

 

Si accendono i lampioni come occhi d’attrice truccati
di violetto per ammaliare e insieme spaventare.

 

E il mal di testa scende con il paracadute sulla nuca
del nemico nel pastrano del ponte.

 

Sul frontone di Palazzo Minelli i piccioni
si accoppiano negli ultimi bagliori del tramonto

 

senza far caso, come nei tempi andati
i nostri cupi antenati in un preistorico

contesto, ai loro confratelli.

 

I rintocchi della torre campanaria

che affonda le radici nel cielo veneziano

 

sono frutti che cadono senza toccare

il suolo. Se esiste un’altra vita,

 

là qualcuno è intento alla raccolta di tutte

queste cose. Suppongo che tra poco

 

l’avrò chiaro. Qui, dove tanto sperma

si è versato, e anche vino

 

e lacrime estasiate, fermo di sera in un vicolo

dell’eliso terreno, assorbo

 

con la spugna consunta dei polmoni

l’aria pura dell’autunno-inverno

 

rosata dalle fughe di tegole sui tetti, aria

del luogo che mai si respira a sufficienza

 

– specie quando è prossimo il finale! -,

profumata di cellule ormai libere dai vincoli

 

del tempo. Sgualcita come una vecchia

banconota, l’onda lecca i gradini

 

del palazzo con il suo ceruleo taglio

e riceve in resto un mattone

 

scurito, soggetto a dermatite,

e una cariatide malferma

 

che ha issato sulle spalle l’organo

del linguaggio, sigaretta inclusa,

 

ed è immersa nella contemplazione

di quell’aviaria camera da letto

 

alla rovescia che si è liberata del pudore

e ricorda ora il calco di una palma,

 

ora un numero romano impazzito,

ora un verso manoscritto, con la rima di rito.

 

(Autunno 1995, Casa Marcello)

 

[da E così via, Adelphi, 1997 trad Matteo Campagnoli e Anna Raffetto p. 201-202]

 

Giorgio Linguaglossa

Probabilmente il sole. Disse Lei.

 

Giorgio Linguaglossa

 

19 maggio 2018 alle 9:05

 

E adesso un esempio di poesia della nuova ontologia estetica 

 

Qui è la fenomenologia delle categorie estetiche che è cambiata di sana pianta, che è stata ribaltata: innanzitutto, il tempo e lo spazio (anzi, gli spazi) rimbalzano di qua e di là; la verosimiglianza se ne è andata a farsi benedire ed è subentrato l’inconscio, il surreale, anzi, mi correggo, il sovrareale ultroneo, l’abnorme, l’abnormato; è stato abolito l’enjambement, l’a-capo si è liberato delle costrizioni di scuola e adesso è libero e assoluto; gli oggetti si sono liberati delle costrizioni dello spazio-tempo e adesso navigano liberi in un oceano di libertà, i protagonisti non sono le persone o l’«io» ma «due simil gatti», ci troviamo in una fiaba o in un sogno, insomma, ci troviamo in un sovrareale e poiché l’autore si è liberato di tutte le costrizioni di scuola, può spaziare liberamente seguendo il filo della sua fantasia. Questa poesia è, secondo me, un esercizio di libertà. Nell’originale era una colonna unica, io mi sono permesso di suddividerla in strofe con delle spaziature. Spero che Lucio mi perdonerà.

 

Lucio Mayoor Tosi

 

Lui e Lei avevano due simil gatti:
Andersen e l’altro Eckersberg. Entrambi maschi.
E castrati.

Andersen amava le camicie bianche
Eckersberg il contatto con la nudità.
“Fetente ma raffinato”, così recitava
la pubblicità.

 

Ma Lei aveva a cuore Andersen.
Se lo teneva in braccio o sulle spalle,
anche stando in piedi mentre cucinava:
sapori dell’India per loro e bianchi
ma finti spaghetti per Gatto Eckersberg
il nudista.

 

Lei stava morendo. Lo faceva ogni giorno.
Lui se non aveva da leggere svitava
e avvitava qualsiasi cosa.
John Lennon, Miles Davis, Natasha Thomas.
Lei quei pontili sospesi sul lago. Ma senza nebbia
e nemmeno dragoni. Solo cose per Andersen.
(Se la noia non vi assale, penso io
vuol dire che siete fumatori).

 

– Tutta l’Europa del sud è un canile.
A cominciare da Courbet. Non è vero, Eckersberg?
Quell’Origine del mondo, appena concepito
con furore. Quel leccarsi le dita…
Lei non rispondeva (stava morendo).
Contemplava le forme molli di un cubo
le bollicine dell’axterol, le lancette
dell’orologio sull’ora e i secondi.

 

– Probabilmente il sole. Disse Lei.

E non tornarono sull’argomento.
Tranne un giovedì, allorché Lei disse:
– Credo che ad Andersen farebbe bene
un piatto di trippa ogni tanto.
Il cargo dei viveri Okinawa era in ritardo
ormai di tre settimane (sei mesi terrestri).
Salgari sarebbe già partito in missione
con a bordo almeno tre robot ambasciatori
di marca tedesca.

 

Ma era stagione di polveri.
Difficile poter comunicare, inutile sprecare
Metafore. Si sarebbero perse nel vuoto
tra le lune. Quindi Lui e Lei si misero d’accordo
per spedire un messaggio criptato
al sovrintendente dei beni umani,
Ork il maligno; in realtà un povero cristo
circondato da macchine, alcune a vapore
(per via della pelle che nella stagione delle polveri
gli si seccava. Puntualmente e orribilmente).

 

“Aghi OrK”, così iniziava il messaggio
“Le bdhko di lk snmlir8jk! Andersen bd in vgeytz!
Si dia una mossa”.
La risposta non si fece attendere:
“Mi sono informato: niente trippa sul cargo Okinawa.
Ma posso mettervi da parte dei pomodori irlandesi”.
E in un secondo messaggio aggiunse:
“Per il gatto ho un Mickey Mouse del ’63.
Il mio l’ha già letto. Lo so, non è divertente”.

Le quattro linee del tramonto si stavano fondendo
nel sogno turco di Moon light.

 

Lui si tolse le spalline di cristallo, si strofinò gli occhi
e senza dire una parola volle intrattenersi ancora un po’
con Lei, che nel frattempo aveva terminato
di raddrizzare, così diceva, tutti i rametti del prezzemolo.
Fecero programmi. Il letto scandinavo ondeggiava
rumorosamente.

 

Vista dal giardino lenticolare, la casa sembrava
un traforo di merletti. Ork il maligno, come al solito
stava trasmettendo pensieri sconclusionati.
Lo chiamava Ozio dei poveri. Oppure
a seconda del momento, solo ‘Zio.

 

 Mauro Pierno

 

15 maggio 2018 alle 8.21

 

Nelle boutique del centro
l’attesa nella stesura del silenzio
ha complicato
il taglio. Visioni fantastiche
sublimano abiti di manichini
in serie.
In strada corrono scampoli inafferrate di parole.
L’abbandono delle mani,
pure esplicito, allinea file di soli sarti in regola.
Si odono
solo note di ininterrotte forbici.

 

Giorgio Linguaglossa

 

 caro Mauro Pierno,

 

non c’è dubbio, ma nutro dei dubbi su quel «non» che la tua sia una ricerca scriteriata di senso. Nella mancanza generale di senso dell’ordo rerum è ricco di senso il fatto di avere un senso scriteriato del senso. Quello che apprezzo nella tua collocazione del senso è che nella tua poesia non c’è nessuna esibizione del muscolo cardiaco e nessun esibizionismo del senso, del peccato, della disperazione etc. chi più ne ha più ne metta… forse è stato l’insegnamento di Totò e di Peppino, eterne maschere napoletane del non senso in un mondo privo di senso ad avere senso. La tua poesia fa le veci di un sabotatore che mostra il bidone della spazzatura nel mentre che gli altri poeti ispirati indicano a dito la luna, perché il senso della luna bella è proprio il bidone di cui discorreva Adorno nella Dialettica negativa nel 1966, e il mondo non è cambiato gran che da allora, solo che adesso va più veloce di allora, e allora la poesia che dir si voglia deve acquistare velocità e speditezza nella certezza che vada a schiantarsi contro la parete del nulla… Come scrive Adorno: «una vita che avesse senso non si porrebbe il problema del senso: esso sfugge alla questione».1]

 

1] Dialettica negativa, 1966, paragrafo ultimo ed. it. Einaudi, 1970 p. 340)

 

Giorgio Linguaglossa

 

 

Una poesia dell’ingegnere Raffaele Greco

 

Approfitto del fatto che non mi seguite in tanti per fare una confessione. Ora dirò la cosa più turpe che ho fatto nella mia vita matrimoniale. Un torto a mia moglie, solo per il mio piacere. Che bestia sono stato. Lo dico al prossimo tweet.

 

*

 

Ebbene abbiamo avuto un cane una volta, una femmina. Il nome l’ho scelto io. Indovinate come l’ho chiamata. Esatto, come una mia ex. Cioè manco una ex, una che mi piaceva un casino ma mi aveva dato il 2 di picche. Così sono fatto io.

 

Poi è durata poco, una decina di giorni.

 

L’abbiamo regalata, nonostante fosse solo una cagnolina non riuscivamo a gestirla. O forse mia moglie si era insospettita perché io andavo dicendo Lilli, Lilli vieni qui, baciamoci, e cose così.

 

Allora in seguito, dopo anni e anni, mi sono chiesto:
Ma cosa sarebbe stato del mio matrimonio se avessimo tenuto Lilli (la cagnolina)?
E cosa ne sarebbe stato se Lilli (la gnocca) mi avesse dato la patata?

E l’universo, come si sarebbe evoluto?

 

Dunque c’è questa teoria in cui si parla di mondi paralleli io cui io e Lilli (la cagnolina) conviviamo con mia moglie, e mondi in cui io e Lilli (la gnocca) conviviamo, con o senza mia moglie. C’è anche un caso in cui Lilli (la gnocca) convive con mia moglie. E io col cane.

 

Sono passato quindi a investigare questa storia dei mondi paralleli.
Vediamo quali sono i tipi possibili.

 

Prima di tutto l’universo stesso in cui viviamo. Senza tanti sforzi di fantasia, anche se l’universo non è infinito, è sicuramente più grande di 13.8 miliardi di anni luce (un anno luce è una misura di distanza).

E quindi tutto ciò che è più lontano da noi di 13,8 miliardi di anni luce, non può avere avuto alcun contatto con noi, non ci siamo mai potuti neanche vedere, perchè le rispettiva luci non si sono raggiunte, perciò a tutti gli effetti è un altro universo per noi.

 

Questo però non è proprio parallelo, più che altro è lontano. Non ci attizza molto.

 

Un’altra ipotesi abbastanza divertente è quella che riguarda l’universo inflazionario. Oh, l’universo inflazionario è una teoria ormai consolidata che dice che subito dopo il big bang …

 

… che subito dopo il big bang …

 

… c’è stata una espansione rapidissima (“inflazionaria”) che ha avuto un sacco di conseguenze.

 

Tra queste conseguenze c’è anche la possibilità che siano nati altri universi oltre al nostro. Quindi in qualche modo simili al nostro, ma irraggiungibili.

 

Come se noi e loro fossimo su pianeti diversi, costretti a muoverci, a vivere, a vedere solo sulla superficie del nostro pianeta. Sappiamo che possono esserci, ma che non interagiremo mai.

 

Poi c’è un’altra teoria, che parla di altre dimensioni. Se nel nostro universo noi riconosciamo 3 dimensioni spaziali (alto-basso, avanti-indietro, destra-sinistra), + il tempo, non è detto che non esistano anche 4 o più dimensioni.

 

In realtà già per il nostro mondo si parla di molte più dimensioni spaziali, quindi immaginarne più di 3 non è affatto strano. Ma insomma, se ce ne fossero 4, potrebbero esserci universi paralleli proprio accanto a noi.

 

Mi spiego meglio con un esempio.

 

Scaliamo di una dimensione.

 

Immaginiamo che il nostro universo sia un grande enorme foglio, una roba piatta insomma, in cui tutto è piatto e niente esce fuori dal foglio.

 

Un altro enorme foglio potrebbe essere a fianco del primo e nessuno di loro lo saprebbe.

 

Allo stesso modo potrebbero esserci, in uno spazio ipotetico multidimensionale, altri universi tridimensionali simili al nostro, e noi lo

non lo sapremmo.

 

Ovvero, le teorie più accreditate dicono che l’unica forza in grado di passare da un universo all’altro è la gravità.

 

Dunque, la gravità è un modo per “comunicare” con gli universi paralleli. Tutto molto bello, ma non sappiamo usare la gravità per comunicare. Ah, e c’è anche il fatto che per giustificare la mancanza di materia dell’universo si sono dovuti inventare la “materia oscura” …

 

Non vorrei incasinarmi.

 

In breve, nel nostro universo manca materia. Gli effetti gravitazionali presenti sono relativi a una massa complessiva pari a 10 volte quella osservata. Cioè manca all’appello il 90 % della massa. Questa parte mancante viene chiamata materia oscura.

 

Una possibile spiegazione di questa materia mancante, o meglio di questo effetto gravitazionale inspiegato, è che provenga dagli universi paralleli.

Insomma, apro un digressione parallela. Se volete seguirmi bene, se no comunque poi continuo con sliding doors.

 

La causa principale della diminuzione di una forza (tipo la gravità, o il campo elettrico) con la distanza, è che la forza con l’aumentare della distanza si espande in tre dimensioni.

 

Cioè se io mi allontano di un km dalla fonte della forza, quella stessa forza si è espansa …
in un km cubo, perciò perde molta della sua intensità per potermi raggiungere. Se si sviluppasse lungo una linea, come un singolo fotone, non perderebbe intensità.

 

Allora, ammettiamo per un momento che le dimensioni spaziali in realtà siano 4, ma ne vediamo 3.

 

La gravità, che è in grado di passare negli altri universi, e quindi “vede” 4 dimensioni, è più debole di quanto sarebbe in 3 dimensioni, perchè parte della sua intensità va negli altri universi.

 

Allo stesso modo, la gravità degli altri universi, si riversa anche sul nostro.
Bon. Non ne so molto di più. Torniamo all’ultima possibilità.
Infine c’è un’altra teoria, che deriva dalla meccanica quantistica.

Il multiverso.

 

L’interpretazione a molti mondi della meccanica quantistica porta alla formulazione della teoria del multiverso.

 

Ogni decisione, ogni misura, ogni possibilità porta ad un percorso diverso, un altro mondo che parte e si sviluppa da una scelta diversa da quella di questo mondo.

 

E così, la scelta di andare a quella festa, ha dato origine ad un mondo parallelo in cui non ci siete andati. E tutti questi infiniti mondi continuano contemporaneamente in un diverso continuum spazio-temporale.

 

Forse c’è anche un mondo in cui Lilli mi ha detto di sì.
In quel mondo, il mio alter ego non ha conosciuto Loredana, mia moglie.
Peggio per lui.