…quello che rimane da fare è il tragitto più lungo e tortuoso: appunto, uscire dal Novecento. Infrangere ciò che resta della riforma gradualistica del traliccio stilistico e linguistico sereniano ripristinando la linea centrale del modernismo europeo. È proprio questo il problema della poesia contemporanea, credo. Come sistemare nel secondo novecento pre-sperimentale un poeta urticante e stilisticamente incontrollabile come Alfredo de Palchi con La buia danza di scorpione (opera scritta dal 1945 al 1950 e pubblicata negli Stati Uniti nel 1997) e Sessioni con l’analista (1967)? Diciamo che il compito che la poesia contemporanea ha di fronte è: l’attraversamento del deserto di ghiaccio del secolo sperimentale per approdare ad una sorta di poesia sostanzialmente pre-sperimentale e post-sperimentale (una sorta di terra di nessuno?); ciò che appariva prossimo alla stagione manifatturiera dei «moderni» identificabile, grosso modo, con opere come il Montale di dopo La Bufera (1956) – (in verità, con Satura – 1971 – Montale opterà per lo scetticismo alto-borghese e uno stile intellettuale antidemotico, uno stile in diminuendo che avrà una lunghissima vita ma fantasmatica, uno stile da larva, da «ectoplasma» costretto a nuotare nella volgarità della nuova civiltà dei consumi).
Se consideriamo un grande poeta di stampo modernista come Angelo Maria Ripellino degli anni Settanta: da Non un giorno ma adesso (1960), all’ultima opera Autunnale barocco (1978), passando per le tre raccolte intermedie apparse con Einaudi Notizie dal diluvio (1969), Sinfonietta (1972) e Lo splendido violino verde (1976), dovremo ammettere che la linea centrale del secondo Novecento è costituita dai poeti modernisti. La poesia di Ripellino nasce in controtendenza, estranea ad un orizzonte di gusto caratterizzato da un’ottica ideologico-linguistica dell’oggetto poesia, e per di più, in una fase di decollo economico che in Italia vedrà l’egemonia della cultura dello sperimentalismo. Che cos’è il «modernismo»? Si può dire che il modernismo in Europa si configura come un atteggiamento verso il passato, una sensibilità di continuità verso la tradizione unite con un senso vivissimo della contemporaneità. La poesia modernista europea si configura come un vero e proprio dispositivo estetico: un campo di possibilità estetiche che trovano la propria energia da uno scambio, una cointeressenza, una convivenza tra le varie arti, una simbiosi di teatro e poesia e una interazione tra i vari generi. Di fatto, però, nella poesia italiana del primo e secondo Novecento risulta assente un movimento «modernista» come quello che si è verificato in altri paesi europei durante la prima parte del secolo (Eliot e Pound, Pessoa, Halas, Holan, Achmàtova, Cvetaeva, Mandel’stam, Rafael Alberti, Machado, Lorca, e poi Brodskij, Milosz, Herbert, William Carlos Williams, Cummings, Wallace Stevens sono da ascrivere alla schiera dei poeti modernisti); questo ritardo ha oggettivamente condizionato la nascita e lo sviluppo di una poesia modernista ed ha fatto sì che in Italia una poesia modernista non ha trovato il modo di attecchire e di mettere salde radici. La poesia di Ripellino arriva troppo presto, in un momento in cui non c’è uno spazio culturale che possa accoglierla. Il poeta siciliano crea, di punto in bianco, un modernismo tutto suo, inventandolo di sana pianta: un modernismo nutrito di un modernissimo senso di adesione al presente, visto come campo di possibilità stilistiche inesplorate, e di sfiducia e di sospetto nei confronti di ogni ideologia del «futuro» e del «progresso» e delle possibilità che l’arte ha di inseguire l’uno e l’altro. Quello di Ripellino è un modernismo che ha in orrore qualsiasi contaminazione tra arte e industria, o tra linguaggio poetico e ideologia, un modernismo privo della componente ideologica della modernizzazione linguistica, un modernismo intriso di un vivissimo senso di conservazione culturale che ingloba e attrae nel proprio dispositivo estetico la più grande massa di oggetti linguistici come per neutralizzarli e tentare di disciplinare stilisticamente l’indisciplinabile, il non irreggimentabile. È stato anche detto che la poesia di Ripellino piomba nella letteratura del suo tempo come quella di un alieno. È vero. E del resto l’autore ne era ben cosciente quando scriveva: «La mia confidenza con la poesia di altri popoli, e in specie con quella dei russi, dei boemi, dell’espressionismo tedesco e dei surrealisti francesi, era un peccato di cui avrei dovuto pentirmi». Gli rinfacciano di essere uno «slavista», stigmatizzando il suo essere al di fuori delle regole, un non addetto ai lavori.
Come negare che opere come Il conte di Kevenhüller (1985) di Giorgio Caproni non abbiano una matrice modernista? La migliore produzione della poesia di Alda Merini la possiamo situare a metà degli anni Cinquanta, con una lunga interruzione che durerà fino alla metà degli anni Settanta: La presenza di Orfeo è del 1953, la seconda raccolta di versi, intitolata Paura di Dio con le poesie che vanno dal 1947 al 1953, esce nel 1955, alla quale fa seguito Nozze romane e; nel 1976, il suo lavoro più impegnativo: La Terra Santa. Ragionamento analogo dovremo fare per la poesia di una Amelia Rosselli, da Variazioni belliche (1964) fino a La libellula (1985); il suo è un personalissimo itinerario che non rientra né nella tradizione né nell’antitradizione. La poesia di Helle Busacca (1915-1996), con la fulminante trilogia degli anni Settanta: I quanti del suicidio (1972), I quanti del karma (1974), Niente poesia da Babele (1980), è un’operazione di stampo schiettamente modernista.
Un tirocinio ascetico la cui spia è costituita da uno stile intellettuale-personale con predilezione per gli attanti astratti (la Rosselli), una predilezione per gli attanti concreti (la Merini), e per il vissuto-concreto (la Busacca), spinge questa poesia verso una spiaggia limitrofa e liminare a quella del tardo Novecento sempre più stretta dentro la forbice: sperimentalismo-orfismo. Direi che il punto di forza della linea modernista risiede appunto in quella sua estraneità alla forbice imposta dalla egemonia stilistica dominante. La forma della «rappresentazione» di questa poesia, il suo peculiare tratto stilistico, il tragitto eccentrico, a forma di serpente che si morde la coda, è qui un rispecchiamento del legame «desiderante» della relazione che identifica l’oggetto da conoscere e lo definisce in oggetto posseduto. Gli atti «desideranti» (intenzionali) del soggetto esperiente definiscono l’oggetto in quanto conosciuto e, quindi, posseduto. Di fronte al suo «oggetto» questa poesia sta in relazione di «desiderio» e di «possesso», oscilla tra desiderio e possesso; è un sapere dominato dalla nostalgia e dalla rivendicazione per il mondo un tempo posseduto e riconosciuto.
È perfino ovvio asserire che soltanto il riconoscibile entra in questa poesia, con il suo statuto ideologico e il suo vestito linguistico, mentre l’irriconoscibile è ancora di là da venire, resta irriconosciuto, irrisolto e, quindi, non pronunziato linguisticamente. La formalizzazione linguistica non può che procedere attraverso il «conosciuto», il «noto». Questo complesso procedere rivela l’aspetto stilistico (intimamente antinomico) di una poesia attestata tra il desiderio e la rivendicazione di un mondo «altro», tra la vocazione e la provocazione, tra il lato riflessivo e il lato cognitivo dell’intenzione poetica. Di fatto, non si dà intenzione poetica senza una macchina desiderante dell’oggetto (con il suo statuto linguistico e stilistico). La poesia che si fa strada consolidandosi appresso alla propria ossatura linguistica allude al tragitto percorso dalla contemplazione alla rivendicazione. Una tautologia: la Poesia Modernista degli anni Settanta resta impigliata dentro l’ossatura del paradigma novecentesco: ma non quello maggioritario, eletto a «canone» (attraverso le primarie e le secondarie delle istituzioni stilistiche egemoni), ma quello laterale, e ben più importante, che attraversa la lezione di Franco Fortini passando per la poesia di un Angelo Maria Ripellino, fino a giungere ai giorni nostri.
La contro rivoluzione al linguaggio poetico sclerotizzato del post-orfismo e del post-sperimentalismo è impersonata dalla parabola di un poeta scomparso all’età di 36 anni: Salvatore Toma. Il suo Canzoniere della morte (edito con venti anni di ritardo nel 1999), ci consegna il testamento di una diversità irriducibile vergato con il linguaggio più antiletterario immaginabile. Una vera e propria liquidazione di tutti i manierismi e di tutte le oreficerie, le supponenze, le vacuità dei linguaggi letterari maggioritari. Ma anche qui il semplicismo letterario prende il posto di una narrazione del personale biografico. Affine alla sorte de poeta pugliese è il tragitto del lucano Giuseppe Pedota con la riproposizione di un personalissimo discorso lirico ultroneo (Acronico – 2005, che raccoglie scritti di trenta anni prima) che sfrigola e stride con l’impossibilità di operare per una poesia lirica dopo l’ingresso nell’età post-lirica: propriamente, nella post-poesia.
Una direzione «in diagonale» e in contro tendenza è invece la poesia del piemontese Roberto Bertoldo, il quale si muove alla ricerca di una poesia che si situi fuori dal post-simbolismo, salvando del simbolismo il contenuto di verità stilistica, aspetto evidentissimo in opere come Il calvario delle gru (2000), L’archivio delle bestemmie (2006), Il popolo che sono (2015), da cui queste due poesie:
La satira di Dio
Ho parlato con le note di una luna pipistrello
che sgocciola dalle nuvole
ho parlato di sporche assenze nella mia patria divelta
ma senza suoni e immagini
le parole sono l’autoaffezione dei vili
allora ho parlato con le bestemmie e le rivolte
ma si sono divelti anche gli occhi dei miei fratelli
i loro abbracci hanno perso la pelle
e così ho ricamato Dio sul dorso delle poesie
e Dio ha sputato la farsa delle mie dita
e mi ha cresimato
“agnello dalla gola profonda”.
Mio padre mi ha amato
Ho impaginato le mie metafore, ma erano lacrime
lo so. Triste è il suono che sento, è la vendetta,
pulsa con un tono che è soave, lurido e soave.
Eppure gli occhi, tra le palpebre, gli sputavano messaggi
e io non li capivo, addirittura non capivo
se mi guardava: erano nocciola
come i capelli che ancora mi stanno sul capo
una macchia nocciola tra le fessure
e non ho mai scordato che avrei voluto morire io
con i suoi occhi che mi guardavano,
dargli la pugnalata della mia morte avrei voluto,
che sapesse lui quanto l’ho amato,
perché non c’è parola più santa
dell’ultimo sguardo ferito.
Nell’ambito del genere della poesia-confessione, già dalla metà degli anni Ottanta emergono Sigillo (1985) di Giovanna Sicari e, all’inizio degli anni Novanta, Stige (1992) di Maria Rosaria Madonna, una delle maggiori poetesse del novecento della quale Progetto Cultura di Roma ha pubblicato in questi giorni Stige. Tutte le poesie (1990-2002) pp. 150 € 12; ricordo qui anche Altre storie per album di Giorgia Stecher (1996).
Nella poesia di Roberto Bertoldo vi sono dei cunicoli sotterranei tra i diversi gradi di esperienza che l’oggetto linguistico rivela, v’è un continuum, topologico e metaforico, salti semantici e metaforici, si rinviene una retorizzazione del soggetto di stampo modernista (né in posizione di punta né in posizione di retroguardia), una «lontananza» dall’oggetto da sedimentare nell’impianto stilistico. L’io percipiente osserva, reclama l’oggetto del suo desiderio. La riproposizione della centralità del soggetto percipiente è qui un passo obbligato: la condanna degli «oggetti» e della «Storia». Bertoldo individua una via di uscita dalla de-fondamentalizzazione dell’«oggetto» e dalla dissoluzione del «soggetto» attraverso la metafora: direi due discontinuità che si sommano, anzi, si sovrappongono. E si elidono. La continuità della percezione si converte in interferenza, intermittenza, simbiosi tono simbolica e stilistica che si risolve nella «cicatrice» della metafora. Poesia che tenta la costruzione di un argine al problema del «vedere», anzi, della «cecità» propria del minimalismo tutto incentrato sulla riproposizione della centralità di un «io ingenuo» e acritico che economizza nell’atto del vedere e adotta il commentario agli eventi della biografia personale.
Nell’ambito del «cultismo decorativo» va ascritta una certa poesia, esemplare il caso di Francesco Nappo i cui libri pubblicati nel 2008 sono stati scritti negli anni Novanta: Genere e Requie materna ora in Poesie 1979-2007 edito da Quodlibet (2008); lo sperimentare arcaico di Nappo si incontra con un dettato linguistico culto-ultroneo-intellettuale che ne fa una operazione sopraindividuale e sovrastorica, direi sovra stilistica (un ipercritico idioletto ragguagliabile al parametro piccolo-borghese della poesia italiana maggioritaria).
Mi soffermo qui sulla poesia del terzo periodo di Cesare Viviani che va dal 2000 ai giorni nostri: troviamo una tensione narrativa, la problematica per eccellenza del nostro tempo post-utopico: la mancanza di radici del soggetto nell’epoca della globalizzazione e della post-massa, la problematica svolta va di pari passo con uno stile de-territorializzato e minimal, quasi didascalico, astratto, o meglio, che si è liberato del «soggetto». Viviani scrive una sorta di auto riflessione in versi che unisce il sotto genere della considerazione con quello dell’espressione aforistica e saggistica, un modo di scrivere che potremmo definire «orale». Nel 2000 esce Silenzio dell’universo, seguiranno Passanti (2002), La forma della vita (2005), Credere all’invisibile (2009).
Due poeti «nuovi»
Di Anna Ventura che esordisce nel 1978 con Brillanti di bottiglia, segnalo l’antologia Tu quoque (poesie 1978-2013), uscita nel 2014 con EdiLet di Roma. Ecco una sua poesia recente:
La vergine di Norimberga
La Vergine di Norimberga
non avrebbe voluto straziare
il bel giovane che già stava lì, per terra,
in catene,
ad aspettare la morte. Ma lei
era la Vergine di Norimberga
e doveva ubbidire al suo compito.
Perciò quando immaginò il sangue dell’uomo
scorrere lungo le sue membra ferrate,
immaginò il pallore del suo volto,
gli occhi già rovesciati alla morte,
invocò su se stessa
l’aiuto degli dei, e delle dee,
specialmente di queste ultime:
perché, essendo donne,
avrebbero meglio compresa la sua pena. Ma quelle
avevano altro da pensare.
Fu Cupido, invece,
a raccogliere il pianto della Vergine,
lui così attento
a qualunque sospiro d’amore.
Poiché era un dio,
poteva anche fare un miracolo: fece in modo
che la Vergine si coprisse di fiori: tanti fiori
da rivestire le punte delle lance.
Il che, tuttavia,
non ottenne altro che allungare la pena.
Alla fine, fiori e sangue si mescolarono
sulla terra bruna: un intrigo
non più complicato
di tanti altri.
La "Vergine di Norimberga", chiamata anche vergine di ferro, è una macchina di tortura inventata nel XVIII secolo ed erroneamente ritenuta medioevale. Questa è una poesia recente di Anna Ventura, del 2015. L’andamento colloquiale e il tono di ironico distacco sono i tipici procedimenti impiegati dalla poetessa nel corso di tutta la sua produzione. Una poesia in sottotraccia, understatement, dove il «detto» sembra corrispondere al «voler dire»; c’è invece un interdetto che apre una divaricazione tra il «detto» e il «dire», un po’ alla maniera della Szymborska, del suo minimalismo metafisico. Ebbene, Anna Ventura nel corso del suo tragitto poetico più che quarantennale ha sempre mantenuto ferma la direzione di ricerca: una dizione essenziale, un lessico sobrio, un verso libero, spezzato in modo non convenzionale, tematiche le più varie, che vanno dal quotidiano al metafisico del quotidiano, impiego del traslato, impiego di una metafora direi implicita al discorso poetico senza impiego di retorismi eccentrici e senza dispiegamenti di eccessi linguistici e stilistici. Oserei dire che Anna Ventura in tutti questi anni ha pagato lo scotto della scelta di un tipo di poesia che non consentiva digressioni nel privato o cedimenti alla moda degli oggetti esibiti o cedimenti alle mode poetiche; così ha pagato in tutti questi anni il dazio per una poesia che non è mai scesa a compromessi con le mode della vulgata maggioritaria ed ha anticipato in tempi non sospetti gli esiti e gli elementi di quel tipo di poesia che noi oggi chiamiamo la «nuova ontologia estetica». Oggi noi sappiamo che una riforma linguistica della poesia italiana comporta anche una rottura del modello maggioritario entro il quale è stata edificata negli ultimi decenni un certo tipo di poesia dotata di «immediata riconoscibilità». È un dato di fatto che qualsiasi operazione di «rottura» determini necessariamente una solitudine stilistica e linguistica a chi si avventuri in lidi così perigliosi e fitti di naufragi. Ma, giunti allo stadio zero di «riconoscibilità» della scrittura poetica di moda oggi, una rottura è non solo auspicabile ma necessaria.
Prendiamo una poesia di nuovo genere, diciamo, una poesia della «nuova ontologia estetica», una poesia di Mario Gabriele, tratta dal suo ultimo libro, In viaggio con Godot (Roma, Progetto Cultura, 2017), poeta nato a Campobasso nel 1940, che ha pubblicato Arsura (1972); La liana (1975); Il cerchio di fuoco(1976); Astuccio da cherubino (1978); Carte della città segreta (1982); Il giro del lazzaretto (1985), Moviola d’inverno (1992); Le finestre di Magritte (2000); Bouquet (2002); Conversazione Galante (2004); Un burberry azzurro (2008); Ritratto di Signora (2014); L’erba di Stonehenge (2016); La porte ètroite (1916); In viaggio con Godot ( 2017).
Il tempo mise in allarme le allodole.
Caddero èmbrici e foglie.
Più volte suonò il postino a casa di Hendrius
senza la sirena e il cane Wolf.
Un Giudice si fece largo tra la folla,
lesse i Codici, pronunciando la sentenza.
– Non c’è salvezza per nessuno,
né per la rosa, né per la viola -,
concluse il dicitore alla fine del processo.
Matius oltrepassò il fiume Joaquin
mantenendo la promessa,
poi salì sul monte Annapurna
a guardare la tempesta.
Un concertista si fece avanti
suonando l’Inverno di Vivaldi,
spandendo l’ombra sopra i girasoli.
Appassì il campo germinato.
Tornarono mattino e sera
sulle città dell’anima.
Suor Angelina rese omaggio ad Aprile
tornato con le rondini sul davanzale.
Restare a casa la sera,
calda o fresca che sia la stanza,
è trascorrere le ore in un battito d’ala.
Si spopolò il borgo.
Pianse il geranio la fine dei suoi giorni.
Fummo un solo pensiero e un’unica radice.
Chi andò oltre l’arcobaleno
portò via l’anima imperfetta.
Nostra fu la sera discesa dal monte
a zittire il fischio delle serpi,
il canto dei balestrucci.
Chiamammo Virginia
perché allontanasse i cani
dagli ulivi impauriti.
Robert non lesse più Genesi 2 Samuele,
e a durare ora sono le cuspidi al mattino,
la frusta che schiocca e s’attorciglia.
Vorrei proporre delle considerazioni che improvviso qui che non vogliono avere il carattere di una critica esaustiva ma di offrire indizi per una lettura. Analizzo i primi quattro versi.
Gli enunciati della poesia hanno una informazione cognitiva ma sono privi di nesso referenziale, hanno però una rifrazione emotiva pur essendo del tutto privi di alone simbolico. Ci emozionano senza darci alcuna informazione completa. Ci chiediamo: come è possibile ciò? Analizziamo alcune frasi. Nel verso di apertura si dice che «il tempo mise in allarme le allodole». Qui Gabriele impiega una procedura antifrastica, le «allodole» sono in allarme non per qualche evento definito ma per un evento indefinito e impalpabile, è «Il tempo» qui l’agente principale che mette in moto il procedimento frastico, infatti il secondo verso ci informa che «Caddero èmbrici e foglie», il che è un paradosso linguistico perché non c’è alcuna connessione logica tra «embrici» e «foglie», e non c’è neanche alcuna connessione razionale, si tratta evidentemente di un enunciato meramente connotativo che ha risonanza emotiva ma non simbolica, anzi, l’enunciato ha lo scopo di evitare del tutto qualsiasi risonanza simbolica, lascia il lettore, diciamo, freddo, distaccato e sorpreso. Nella poesia di Mario Gabriele gli enunciati sono sempre posti in un modo tale da sconvolgere le aspettative di attesa del lettore. È questa la sua grande novità stilistica e procedurale. Il lettore viene sviato e sorpreso ad ogni verso.
Una procedura che presenta difficoltà ingentissime che farebbe scivolare qualsiasi altro poeta ma non Mario Gabriele. Infatti, il terzo verso introduce subito una deviazione: «Più volte suonò il postino a casa di Hendrius», il che ci meraviglia per l’assenza di colluttorio con i due versi precedenti: non c’entra nulla «il postino» con la questione delle «allodole» «in allarme». Però, in verità, un nesso ci deve essere se il poeta mette quell’enunciato proprio nel terzo verso e non nel quarto o quinto o sesto. Nella poesia di Gabriele nulla è dovuto al caso, perché nulla lui deve al lettore: il suo tema è atematico, il suo è un tema libero che adotta dei frammenti e delle citazioni vuote, svuotate di contenuto, sia di significato sia di verità. non si dà nessun contenuto di verità negli enunciati di Mario Gabriele, al contrario dei poeti che si rifanno ad una ontologia stilistica che presuppone un contenuto di verità purchessia e comunque. Nella sua ontologia estetica non si dà alcun contenuto di verità ma soltanto un contenuto ideativo. la traccia psichica che lasciano gli enunciati di una poesia di Mario Gabriele è una mera abreazione, libera una energia psichica senza confezionare alcuna energia simbolica (diciamo e ripetiamo: come nella vecchia ontologia estetica che ha dominato il secondo novecento italiano). L’enunciato che occupa il quarto verso recita: «senza la sirena e il cane Wolf». Qui siamo, ancora una volta dinanzi ad una deviazione, ad uno shifter. Anche qui si danno due simboli de-simbolizzati: «la sirena» e il «cane Wolf», tra questi due lemmi non c’è alcun legame inferenziale ma soltanto sintattico stilistico e sono messi al posto numero 4 della composizione proprio per distrarre il lettore e distoglierlo dal vero fulcro della composizione. Ma, chiediamoci, c’è davvero un fulcro della composizione? La risposta è semplice: nella poesia di Mario Gabriele non si dà mai alcun centro tono simbolico, la poesia è sempre scentrata, eccentrica, ultronea, abnormata.
Segnalo infine due poeti significativi che fanno il loro ingresso nella poesia degli anni Dieci: Letizia Leone con L’ora minerale, (2004); Carte Sanitarie, (2008); La disgrazia elementare (2011); Confetti sporchi (2013); Viola norimberga (2018) e Donatella Costantina Giancaspero con Ma da un presagio d’ali (2016) poetesse che si muovono in direzione di un modernismo che si è liberato delle ipoteche stilistiche tardo novecentesche, impegnate nella ricerca di un linguaggio che si mantenga, pur in equilibrio precario e antinomico, in contatto con la lingua di relazione e con la tradizione alta del novecento.
Ciò che emerge da questi brevi cenni è che è necessario che la poesia rompa le righe del politically correct, che occorra deragliare da un certo impiego ormai consunto di un certo «quotidiano» e di un certo linguaggio «mitopoietico» divenuto ancillare e anaclitico. È venuto il tempo di ripensare lo sviluppo della poesia italiana del secondo Novecento, individuare una diversa lettura in diagonale e in contro tendenza della tradizione del secondo novecento; penso che in mancanza di questa ricerca sarà difficile scrivere la poesia significativa del futuro.
Emerge subito un problema:
che non si dà soluzione stilistica alla de-territorializzazione del linguaggio poetico che si è avuto nel tardo Novecento, il problema è più ampio. In verità, i linguaggi poetici dell’epoca mediatica possono al massimo prendere in prestito la de-territorializzazione dall’empiria dei linguaggi mediatici per una infarinatura della modernizzazione linguistica, non riescono né mai lo potrebbero trovare la soluzione stilistica ad un problema che stilistico non è. In altre parole, il linguaggio cosmopolitico con cui la quasi totalità della poesia contemporanea viene scritta, è un linguaggio de-nuclearizzato e de-vitalizzato (a prescindere dal pedale alto o basso che esso impiega, qui non si tratta di andare in bicicletta), un linguaggio che insegue inconsapevolmente la brevità e la sintesi dello spot pubblicitario, una sorta di traduzione in linguaggio lineare del linguaggio televisivo-mediatico, questo sì sinestesico!. Al parametro del linguaggio universale indotto dal villaggio mediatico, la poesia contemporanea sembra non ribellarsi affatto, anzi sembra mascherarsi adottando una stilizzazione iperletteraria, accentuando gli aspetti pre-sperimentali e pre-critici e una «chiusura» marcatamente «intima», «squisita», «effabile», «affabile» etc..
Sorge una domanda, apparentemente ingenua:
quali sono le esperienze significative che la poesia deve prendere in considerazione? Inoltre, la mancanza di un «luogo», di una polis, quali conseguenze hanno e avranno sull’avvenire e il presente della poesia? Di qui il bisogno di rispondere a queste domande, di ricostruire delle parentele e dei legami parentali con altri poeti della contemporaneità, quasi che la consanguineità potesse sopperire alla mancanza di sangue. Così, sottratta al «luogo», la migliore poesia contemporanea tenta di ricostruire e riallacciare i rapporti con la grande tradizione del Novecento. È questa la sua problematica mission.
Quello che rimane oggi, a distanza di quasi cinquanta anni, della poesia con impianto narrativo-autobiografico, una volta caduta l’impalcatura ideologica dell’epoca pre-modernistica, si rivela essere una colloquialità corporale e post-utopica, una intimità ombelicale infirmata e riformulata, uno spostamento-spaesamento dell’«io» egolalico. La poesia dialogo con l’interlocutore è diventata una forma problematica, un rimuginare sulla problematicità di una forma dialogo non più recuperabile. Il ricorso alla retorizzazione del corpo della poesia femminile di moda oggi si risolve in un vestito linguistico che non può rivelare alcun contenuto di verità. Ma, mi chiedo, è ancora possibile rappresentare un «contenuto di verità»?
La poesia italiana maggioritaria illustra bene che un ordine di simulacri si sostiene solo sulla ideologia di un ordine anteriore di simulacri. La tradizione deve essere ridotta ad un ordine di simulacri, e così può essere smontata e rimontata a piacimento. Il magrellismo che va di moda oggi illustra bene il cracking, la rottura della catena molecolare che ancora formava la cultura poetica dell’età precedente, diciamo almeno fino agli anni settanta del novecento. In seguito, come ha spiegato bene Berardinelli più volte, è accaduto come una combustione di sintesi, quelle molecole culturali che erano andate distrutte si sono ricomposte in altre catene di sintesi molto più adatte alla proliferazione nella cultura mediatica dei nostri tempi: ed ecco lo stile cosmopolitico e impolitico della proliferazione poetica attuale dove il linguaggio è una carcassa fatta di flussi di parole-segni e di connessioni di superficie che ha sostituito la precedente cultura della profondità, concatenazione di parole-flussi dalla quale è scomparso il senso.
Come ha scritto Luigi Reina nel risvolto di copertina del mio libro nel 2011, La nuova poesia modernista italiana (1980-2010):
«Se il linguaggio della post-avanguardia entrava in rotta di collisione con i linguaggi della scienza e della modernità, la Nuova Poesia Modernista prende atto della crisi irreversibile di ogni linguaggio fondato sulla “differenza”, sullo “scarto”, sullo “statuto ambiguo”; e prende atto della mancanza di un fondamento su cui sia possibile poggiare la costruzione poematica. La Nuova Poesia Modernista è il tipico e più maturo esempio di una poesia sopravvissuta dopo la bancarotta dell’ontologia, tra Heidegger e Wittgenstein. L’ontologia negativa di Heidegger, per il quale «Essere è ciò che non si dice», tendeva a spostare l’asse del logos poetico novecentesco più sul non-detto, sui silenzi tra le parole, ed infine, sul silenzio tout court. Il nichilismo era il precipizio entro il quale precipitava e periclitava tutta l’ontologia heideggeriana. Per contro, il linguaggio poetico novecentesco minacciava di periclitare, sull’orlo del nichilismo, nel compiuto silenzio della poesia post-celaniana. L’impossibilità di approdare ad una conclusione, in Heidegger, è totale: il pensatore è poeta, il silenzio è l’essenza del linguaggio, esso è il luogo atto a esprimere l’essenziale come non-dire».
Conclusioni provvisorie finali
Il modo di produzione della cosiddetta «poesia» ha assunto una velocità edittale forsennata, dinanzi alla quale non c’è Musa che tenga, che riesca a stare dietro a questa velocità ultrasonica. La Musa è lenta, ama la lentezza, è gentile, si deposita, giorno dopo giorno, sugli oggetti e le cose come polvere… bisogna far sì che la polvere si sedimenti… soltanto gli oggetti e le cose impolverate possono trovar luogo in poesia, soltanto le cose dimenticate… tutto ciò che ricordiamo, ciò che la dea (un’altra dea!) Mnemosine ci dice è frutto del calcolo e della cupidigia. Alla strategia di Mnemosine dobbiamo opporre una contro_strategia, dobbiamo dimenticare i ricordi, dobbiamo dimenticare i falsi ricordi che l’Inconscio ci pone sotto gli occhi, dobbiamo scavare più a fondo. La Musa è nemica di Mnemosine, ed entrambe sono segretamente alleate con un loro progetto di raggiro e di deviazione della nostra mente… dobbiamo perciò porre in atto delle strategie di contenimento e di inveramento dei ricordi, delle rammemorazioni. Dinanzi alle sciocchezze imbarazzanti che la poesia dei nostri tempi ci propone rimango a volte allibito ed annoiato, ma dobbiamo farci forza e sopportare con tenacia questa montagna di banalità…
Il fatto è che le parole sono diventate «fragili» e «precarie», si sono «raffreddate», di contro alla volontà della tecnologia dispiegata del mondo di oggi. Il mondo è cambiato, non è più quello di ieri. Anche le parole sono cambiate, hanno mutato colore e tonalità, e la poesia non può non fare altro che adottare le parole che trova, siano esse fragili, precarie, raffreddate o altro ancora…
Di frequente, davanti a tanta arte contemporanea mi assilla il dubbio che un eccesso di armonia, un sovrappiù di lucidatura del pavimento, dell’argenteria e degli stivali di pelle lasciati in un angolo non comporti anche il sospetto, in chi osserva dal di fuori, che dentro l’appartamento profumato e lindo con deodorante da supermarket non si nasconda, in qualche armadio, il cadavere messo sotto naftalina di qualcuno di famiglia. Insomma, se questo eccesso di deodorante non serva che a nascondere il lezzo ingombrante e intollerabile di un cadavere. E allora mi viene voglia di indagare oltre la cortina di nebbia del deodorante, al di là delle lucidature dell’argenteria per scoprire l’innominabile cadavere che si cela da qualche parte, nascosto in qualche latebra del soggiorno di casa. Allora, apro le finestre, voglio far entrare un po’ di aria fresca. Mi viene il sospetto che tutta quella modanatura, quella lucidatura non sia altro che Kitsch, ottimo, metallico, rassicurante Kitsch. Addirittura, anche e soprattutto là dove si rinviene tanta trasandatezza metrica posta in bella evidenza, proprio là si rivela l’intenzione forzosa di sporcificare la lucidatura posticcia. Il che è anche peggiore del male che vorrebbe travisare.