Giorgio Morandi
Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa
Gedicht an die Dauer di Peter Handke, uscì per Suhrkamp nel 1986 e pubblicato nel 1988 da Braitan, editore di Brazzano (Gorizia). Nel 1995 il libro fu ripubblicato da Einaudi nella collana «I Coralli» e adesso lo troviamo nella bianca Einaudi, 2016 nella traduzione e postfazione di Hans Kitzmüller il quale nello scritto in calce al volumetto riporta un brano significativo dell’autore a proposito del suo rapporto con i «luoghi»:
«Credo nei luoghi, non quelli grandi ma quelli piccoli, quelli sconosciuti, in terra straniera come in patria. Credo in quei luoghi, senza fama né risonanza, contraddistinti forse dal semplice fatto che là non c’è niente, mentre intorno c’è qualcosa dappertutto. Credo nella forza di quei luoghi, perché là non c’è più niente, e non ancora niente. Credo nelle oasi del vuoto, non in disparte, ma qua in mezzo alla pienezza. Sono certo che quei luoghi, pur se non fisicamente frequentati, si rifecondano sempre, già con la decisione di partire e con il senso del cammino».
Certi titoli dei libri di Handke sono emblematici: «Pomeriggio di uno scrittore», «Saggio sul luogo tranquillo» o «Saggio sul cercatore di funghi», lo scrittore austriaco ci ha abituati ad una forma di scrittura che è la modalità per eccellenza per entrare in rapporto di confidenzialità e di comunione con i «luoghi», questo «Canto alla durata», poemetto filosofico in metro libero, piuttosto insolito nella poesia di tradizione italiana, Handke interpreta il ruolo del poeta che narra e riflette su ciò che vede e che sente durante una passeggiata, o durante un periodo di ozio; per la circostanza Handke adotta il principio lucreziano: la poesia come forma più consona della prosa ad investigare il concetto psico filosofico di durata (in tedesco Dauer). Cos’è la «durata», Handke sgombra subito il campo da alcuni possibili equivoci, non è una intuizione, non una epifania, non un momento che sopraggiunge all’improvviso, nulla a che fare con l’estasi, nulla a che fare con l’attimo né con un insieme di attimi, sia pure infiniti che si susseguono uno dopo l’altro senza interruzione o con interruzioni, non ha nulla a che fare con l’effimero e il transitante, anzi, la «durata» è ciò che transita in noi per restarvi, per abitare un angolo della nostra coscienza, la «durata» è ciò che «dura», ciò che non scompare ma resta appena al di sotto della coscienza vigile e che anzi dà una forma alla coscienza vigile; la «durata» è un arricchimento della consapevolezza di ciò che siamo e di ciò che stiamo per diventare, è un motore in funzione, una forza retroattiva e propositiva, «i luoghi della durata non rifulgono di splendore,/ spesso non sono nemmeno riportati sulle carte/ oppure sono senza nome»; ma può essere anche «il rumore della porta che si apre», oppure può essere un gesto: «nell’attimo in cui tu/ con lo stesso gesto accurato/ col quale dieci anni fa/ appendevi all’attaccapanni/ il cappotto azzurro con cappuccio». «e tuttavia nello stato di grazia della durata/ finalmente non sono più io solo». «Eppure il semplice starsene a casa non basta;/ io devo andare incontro alla durata».
Non c’è dubbio che l’esperienza della «durata» sia una cosa tutta da definire e approfondire a livello filosofico. Già il concetto di «esperienza» è qualcosa che deve essere ancora precisato dal punto di vista filosofico ha affermato Gadamer, nessuno sa che cosa l’«esperienza» sia ma tutti sappiamo che abbiamo delle «esperienze» intorno a cui, però, non sappiamo nulla di definito. Che cos’è una esperienza? Che cos’è una esperienza metafisica? Con le parole di Adorno:
«Al posto del problema gnoseologico kantiano, come sia possibile la metafisica, compare quella di filosofia della storia, se sia possibile comunque un’esperienza metafisica».1]
Anch’io penso che senza una «metafisica», gli uomini oggi non possono avere alcuna «esperienza metafisica». Ciò che è indurito, ciò che si è reificato si sottrae ai giudizi esistenziali, rimane il tegumento cosificato delle «espereinze» internalizzate nelle coscienze degli uomini, e a questo si dà il nomignolo, appunto, di «esperienza».
T.W. Adorno, Dialettica negativa, Verlag, 1966, trad. it. a cura di Alberto Donolo, 1970, Einaudi p p. 336
Peter Handke
Canto alla durata
“Si era rivolta a me […] e come dall’alto
e mi venne così di descrivere
la sensazione della durata
come il momento in cui ci si mette in ascolto,
il momento in cui ci si raccoglie in se stessi,
in cui ci si sente avvolgere,
il momento in cui ci si sente raggiungere
da cosa? Da un sole in più,
da un vento fresco,
da un delicato accordo senza suono
in cui tutte le dissonanze si compongono e si fondo assieme. […]
Ecco, la durata è la sensazione di vivere. […]
Credo di capire
che essa diventa possibile solo
quando riesco
a restare fedele a ciò che riguarda me stesso,
quando riesco a essere cauto,
attento, lento,
sempre presente a me stesso sino nelle punte delle dita.
E qual è la cosa
a cui devo restare fedele?
Essa ti apparirà nell’affetto
per i vivi
– per uno di loro –
e nella consapevolezza di un legame
(anche soltanto illusorio).
E questo non è una cosa grande
particolare, non è insolita, sovraumana,
non è guerra, non è un allunaggio,
non è una scoperta, un capolavoro del secolo,
la conquista di una vetta, un volo da kamikaze:
io la condivido con altri milioni di persone,
con il mio vicino e allo stesso tempo
con gli abitanti ai margini del mondo,
dove grazie a questo fatto comune
si crea lo stesso centro del mondo
che è qui accanto a me.
Sì, questo fatto dal quale con gli anni scaturisce la durata
è di per sé poco appariscente,
non fa conto parlarne
ma è degno di essere affidato alla scrittura:
perché dovrà essere per me la cosa più importante.
Dovrà essere il mio vero amore.
E io,
affinché da me nascano i momenti della durata
e diano un’espressione al mio volto rigido
e mettano nel mio petto vuoto un cuore,
devo assolutamente esercitare
un anno dopo l’altro
il mio amore.
Restando fedele
a ciò che mi è caro e che è la cosa più importante,
impedendo in tal maniera che si cancelli con gli anni,
sentirò poi forse
del tutto inatteso
il brivido della durata
e ogni volta per gesti di poco conto
nel chiudere con cautela la porta,
nello sbucciare con cura una mela,
nel varcare con attenzione la soglia,
nel chinarmi a raccogliere un filo. […]
Ma anche continuare per anni a essere ben disposto nei tuoi confronti
può darti durata.
Sapermi guardare amichevolmente negli occhi
talvolta mi assolve. […]
Essere indulgente con i miei difetti […]
rabbonirmi, se mi viene fatto un torto,
come mio unico parente,
battermi il petto
in trionfo per una parola felice
al posto giusto
e urlare un «sì» nella foresta della mia stanza
può ringiovanirmi
come una bottiglia di prelibatissimo vino
(con effetto però diverso).
Singolare è il sentimento della durata
anche alla vista di certe piccole cose
quanto meno appariscenti, tanto più toccanti:
un cucchiaio
che mi ha accompagnato in tutti i traslochi
un asciugamano
appeso nelle stanze da bagno più diverse,
la teiera e la sedia di vimini
per anni lasciata in cantina
o accantonata da qualche parte
e ora finalmente di nuovo al suo posto,
un altro, in verità, diverso da quello originario
e tuttavia al suo posto. […]
Anche a casa mi si fa accanto molte volte
quando cammino su e giù per il giardino
nella neve, nella pioggia, al sole, sotto il temporale,
[…] oppure quando mi siedo nella mia stanza
al cosiddetto tavolo da lavoro –
non per attendere alla mia occupazione, al testo,
ma per fare tutti quei soliti gesti secondari:
spostare indietro la sedia,
dare uno sguardo nel cassetto […]
sbirciare dalla finestra in giardino
dove i gatti lasciano le loro tracce
nella neve profonda e tra l’erba alta,
mentre ascolto da diverse direzioni a seconda del vento
il fischio e il trabalzare
dei treni che percorrono la pianura.
O durata, mia quiete!
O durata, mia sosta! […]
La durata è il mio riscatto,
mi lascia andare ed essere. […]
Chi non ha mai provato la durata
non ha vissuto.
La durata non stravolge,
mi rimette al posto giusto”.
quel senso di durata cos’era?
era un periodo di tempo?
qualcosa di misurabile?
una certezza?
No, la durata era una sensazione,
la più fugace di tutte le sensazioni,
spesso più veloce di un attimo,
non prevedibile non controllabile,
inafferrabile non misurabile.
Eppure con il suo aiuto
avrei potuto affrontare sorridendo ogni avversario
e disarmarlo
e se mi considerava un uomo malvagio
l’avrei convinto a pensare
“egli è buono!”
e se esistesse un dio,
sarei stato la sua creatura
finché provavo quella sensazione della durata.
Proprio ieri nel Waagplatz a Salisburgo
nel frastuono della folla sempre intenta a far la spesa,
udendo una voce
come proveniente dall’altra parte della città
chiamare il mio nome,
mi sono accorto in quello stesso istante
di aver dimenticato su una bancarella
il testo della Ripetizione
che stavo portando alla posta
e nel tornare indietro di corsa ho sentito quell’altra voce
che un quarto di secolo prima
nel silenzio notturno di un sobborgo di Gratz,
dall’altro capo di una lunga strada diritta e deserta,
si era rivolta a me con eguale premura e come dall’alto
e mi venne così di descrivere
la sensazione della durata
come il momento in cui ci si mette in ascolto,
il momento in cui ci si raccoglie in se stessi,
in cui ci si sente avvolgere,
il momento in cui ci si sente raggiungere
da cosa? Da un sole in più,
da un vento fresco,
da un delicato accordo senza suono
in cui tutte le dissonanze si compongono e si fondono assieme.
“Ci vogliono giorni, passano anni”
Goethe mio eroe
e maestro del dire essenziale,
anche questa volta hai colto nel segno:
la durata ha a che fare con gli anni
con i decenni, con il tempo della nostra vita.
ecco la durata è la sensazione di vivere.
Inutile forse dire
che la durata non nasce
dalle catastrofi di ogni giorno,
dal ripetersi delle contrarietà,
dal riaccendersi di nuovi conflitti,
dal conteggio delle vittime.
Il treno in ritardo come al solito,
l’auto che di nuovo ti schizza addosso
lo sporco di una pozzanghera,
il vigile che col dito ti fa cenno
dall’altro lato della strada, uno coi baffi
(non quello ben rasato di ieri),
la morchella che ogni anno rispunta
in un angolo diverso nel folto del giardino,
il cane del vicino che ogni mattina ti ringhia contro,
i geloni dei bambini che ogni inverno
tornano a pizzicare,
quel sogno terrorizzante sempre uguale
di perdere la donna amata,
l’eterno nostro sentirci improvvisamente estranei
fra un respiro e l’altro,
lo squallore del ritorno nel tuo paese
dopo i tuoi viaggi di esplorazione del mondo,
quelle miriadi di morti anticipate
di notte prima del canto degli uccelli,
ogni giorno la radio che racconta un attentato,
ogni giorno uno scolaro investito,
ogni giorno gli sguardi cattivi dello sconosciuto:
è vero che tutto questo non passa
– non passerà mai, non finirà mai -,
ma non ha la forza della durata,
non emana il calore della durata,
non dà il conforto della durata.
*
Sulla durata non si può fare alcun affidamento:
nemmeno la persona religiosa
che va ogni giorno a messa,
neppure chi è paziente, l’artista dell’attesa,
nemmeno colui che ti è fedele
e che senza esitazioni sarà sempre con te,
può avere la certezza per tutta la vita.
Credo di capire
che essa diventa possibile solo
quando riesco
a restare fedele a ciò che riguarda me stesso,
quando riesco ad essere cauto,
attento, lento,
sempre del tutto presente a me stesso sino nelle punte delle dita.
E qual è la cosa
a cui devo restare fedele?
essa ti apparirà nell’affetto
per i vivi
– per uno di loro –
e nella consapevolezza di un legame
(anche soltanto illusorio).
e questa non è una cosa grande
particolare, non è insolita, sovrumana,
non è guerra, non è allunaggio,
non è una scoperta, un capolavoro del secolo,
la conquista di una vetta, un volo da kamikaze:
io la condivido con altri milioni di persone,
con il mio vicino e allo stesso tempo
con gli abitanti ai margini del mondo,
dove grazie a questo fatto comune
si crea lo stesso centro del mondo
che è qui accanto a me.
*
Certo, la durata è l’avventura del passare degli anni,
l’avventura della quotidianità,
ma non è un’avventura dell’ozio,
non è un’avventura del tempo libero (per quanto attivo).
È dunque connessa col lavoro,
con la fatica, con l’impegno, con la continua disponibilità?
No, perché se avesse una regola
richiederebbe allora un paragrafo
e non una poesia.
Io infatti l’ho vissuta anche viaggiando,
sognando, tendendo l’orecchio,
giocando, contemplando,
in un campo sportivo, in una chiesa,
in molti pissoirs.
*
Eppure l’accenno al giardino di casa
non vuol significare
che si possa raggiungere la durata
con una residenza stabile
e con le abitudini.
È vero che essa deriva da atti quotidiani ripetuti
attraverso gli anni,
ma non dipende dalla permanenza in un luogo
e da itinerari consueti.
Mai ho sentito la durata
standomene al mio solito posto
– in quello star seduto in silenzio
che si dice faccia diventare «santi» -,
mai ho sentito la durata
seduto a un tavolo riservato ai clienti abituali
– i relativi cartellini,
con tutto il rispetto per le trattorie,
mi sono insopportabili -,
non ho mai sentito la durata
consumando le «pietanze favorite»,
ascoltando la «canzone preferita»,
passeggiando lungo la «mia» strada.
Certo, la durata è l’avventura del passare degli anni,
l’avventura della quotidianità,
ma non è un’avventura dell’ozio,
non è un’avventura del tempo libero (per quanto attivo).
dal retro di copertina del volume:
Prendendo spunto da Goethe, «maestro del dire essenziale», Handke propone in questo poemetto una sua personale ricerca sul concetto di durata, l’entità che fornisce contorno a quanto ha la tendenza a dissolversi. Connessa al ripetersi degli eventi quotidiani, ma al contempo svincolata dalla permanenza in luoghi o itinerari consueti, la sensazione della durata è l’esito della fedeltà a ciò che l’individuo sente come piú profondamente proprio: fedeltà al divenire di una persona, fedeltà a «certe piccole cose» che ci accompagnano «in tutti i traslochi», fedeltà infine a determinati luoghi, un lago, una piazza, una sorgente alla periferia di Parigi. La durata tuttavia non esiste a priori, bisogna cercarla, andarle incontro, trovare un punto di mai definitiva, instabile quiete. La poesia – dice Handke – è uno dei migliori supporti in questa ricerca interiore. Ed è dunque naturale che questo libro di meditazione filosofica sia stato scritto in versi, quasi per bussare alla porta di quella condizione sapienziale tipica della poesia di ogni tempo.