Vincenzo Mascolo – Relazione tenuta al Laboratorio di Poesia de L’ombra Delle Parole, 8 Marzo 2017 – Una poesia inedita e Racconto del proprio itinerario di poetica e un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Giorgio LinguaglossaLaboratorio di Poesia Roma, Libreria L’Altracittà via Pavia 106

 

Vincenzo Mascolo: Riflessione intorno alla propria poesia

 

 Parlare della propria scrittura credo sia sempre difficile. Per me lo è sicuramente, perché i dubbi sulla qualità poetica del mio lavoro non mi abbandonano mai, suggerendomi un pudore che ostacola la condivisione pubblica del suo humus e dei tentativi di poetica. Il timore di non essere in possesso di un apparato teorico adeguato, la paura di cadere nella trappola dell’autoreferenzialità, la scelta di pubblicare con misura per evitare il rischio di ripetermi inutilmente e la convinzione che i testi possano essere più esplicativi di ogni dissertazione, poi, mi inducono a una presenza particolarmente prudente. Seguo però con interesse ogni riflessione sulla poesia contemporanea perché credo sia necessario un rinnovamento e un superamento delle modalità attuali, che sembrano entrate in una fase di stagnazione. Non so dire quali possano essere le strade da percorrere, né quale sia la destinazione da raggiungere. Avverto, tuttavia, la necessità di una trasformazione, l’esigenza di una poesia che abbia una maggiore ampiezza di sguardo, che sia più energica verbalmente e più attenta al valore semantico della parola.

 

Prova a muoversi in questa direzione la mia poesia, che corre parallelamente alla ricerca di conoscenza alla quale mi dedico da tempo. Ne è, anzi, strumento privilegiato perché contribuisce in modo rilevante al lavoro di scavo nella realtà, personale e del mondo circostante, di cui quella ricerca si nutre. Inevitabili le interazioni e le reciproche influenze tra scrittura poetica e studio della conoscenza. Così gli aspetti strettamente letterari e stilistici assumono un minore rilievo e, affrancato da codici, canoni e altri orpelli, mi sento libero di scrivere utilizzando registri diversi, combinando io e non-io, ordinario e sublime (per usare una terminologia cara a Adam Zagajewski), materia e spirito, scienza e umanesimo, forma chiusa e verso libero, rima e prosa. La mia ricerca, del resto, tende a ridurre a unità il duale nel quale siamo immersi. E la poesia che ne scaturisce non può non rappresentare questa volontà di unificazione, che cerco di esprimere restituendo centralità al significato, in un (difficile) equilibrio tra pensiero, etica e estetica. Anche il linguaggio è parte di questa idea: lo immagino asciutto, terso, essenziale e denso, lontano da stilemi e arcaismi, quotidiano, ma comunque in grado di restituire quella musicalità alla quale, secondo me, anche il verso libero e quello prosastico non dovrebbero mai rinunciare. Un linguaggio improntato alla chiarezza, che possa sostenere anche testi molto discorsivi e, nel contempo, permettere al significato di essere il protagonista del testo.

 

Amo il rarefarsi della notte
e il risvegliarsi muto degli eventi,
amo il suono impercettibile del cosmo,
il separarsi occulto delle cose
in atomi e molecole, frammenti
della materia che si ricompone,
sostanza indivisibile del tempo.

 

Così,
di particelle infinitesime d’inchiostro
amo il turbinare che trasforma
la dura concrezione del silenzio
in altro spazio, in una nuova
forma, pulviscolo di corpi luminosi
che passano attraversano i sentieri
delle città, i reticoli del tempo,
chiarore ineludibile del giorno,
sostanza incorruttibile,
poesia.

 

 

Giorgio Linguaglossa
Laboratorio di Poesia Roma, 8 marzo 2017 Libreria L’Altracittà via Pavia 106

 

 

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

 

 

Ho scritto una volta che il linguaggio di Celan sorge 
quando il linguaggio di Heidegger muore, 
volendo dire che il linguaggio della poesia – della ‘nuova’ poesia – 
può sorgere soltanto con il morire del linguaggio tradizionale 
che la filosofia ha fatto suo, o – forse – che si è impadronito della filosofia

 

(Vincenzo Vitiello)

 

Le vie verso la verità sono sentieri interrotti

 

(Friedrich Nietzsche)

 

 

Vincenzo Mascolo «vuole» parlare in poesia tramite un linguaggio non poetico. È come se un filosofo volesse parlare in filosofia con un linguaggio non filosofico. Antinomie del contemporaneo, commenterei.

Un certo linguaggio poetico, mettiamo quello di Andrea Zanzotto e di Edoardo Sanguineti, entra in crisi di identità quando il marxfreudismo di Sanguineti e lo sperimentalismo del significante di Zanzotto vengono superati e fatti collassare dal ’68. Sono i sommovimenti sociali epocali che fanno collassare i linguaggi poetici e filosofici.

 

Oggi che alla crisi è succeduta la post-crisi, è avvenuto che al minimalismo sia succeduto il post-minimalismo. È paradossale dirlo: ma oggi la crisi si è stabilizzata, i linguaggi artistici sono diventati tanto «deboli» da essere invisibili e vulnerabili, e questa invisibilità e vulnerabilità così tipiche del nostro tempo non deve affatto meravigliare, è la stessa invisibilità e vulnerabilità dello Zeit-raum che è diventato un contenitore vuoto, vuoto perché  mero contenitore di altro vuoto.

 

Bisogna quindi ripartire da una filosofia «debole», che accetti di misurarsi con una «ontologia debole», che respinga al mittente le categorie forti e onnicomprensive; ma ciò non significa affatto fare poesia «debole». Le due «cose» non si equivalgono.

 

La «Nuova ontologia estetica» sorge quando i linguaggi epigonici collassano sotto il peso della propria insostenibilità; sorge non da un sommovimento sociale, ma sì da un sommovimento epocale: dalla consapevolezza della messa in liquidazione dei linguaggi poetici epigonici.

 

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

 

Scrivevo in occasione della pubblicazione dell’opera di esordio di Vincenzo Mascolo

 

(Il pensiero originale che ho commesso Torino, Ed. Angolo Manzoni 2004 pp. 112 € 12,00):

 

Come opera d’esordio questa di Vincenzo Mascolo, nato a Salerno ma poeta di adozione romana, si distingue per una originale sicurezza del taglio e una non desueta padronanza del linguaggio poetico. Innanzitutto, il «taglio»: e con questo termine intendo ad un tempo la struttura e il plot dell’opera. «Più che una consueta raccolta di poesie, Il pensiero originale che ho commesso è un lavoro “metateatrale”, articolato in quattro brevi atti, ciascuno seguito da una raccolta poetica, le cui liriche sono armonicamente tenute insieme dal sottile filo dell’anima», recita il risvolto di copertina.  Ora, appare evidente che la dislocazione in «atti» consente all’autore di perseguire l’intento dell’oralità quale vero discrimine stilistico della sua poesia; in secondo luogo, consente altresì uno sviluppo tematico e psicologico dentro l’articolazione dell’opera. Significativamente, il primo atto inizia con «un uomo solo seduto al tavolino di un bar. Altre persone nella sala. Una musica in sottofondo». È la condizione umana quella che sta a cuore al poeta, lo scandaglio della condizione esistenziale, la diversità e la divergenza dalle poetesse del minimalismo, Patrizia Cavalli e Vivian Lamarque

 

«Hai ragione, Patrizia,/ le poesie non si scrivono/ per cambiare il mondo./ Il cambiamento/ è molto più profondo»; «Un poco, sai, ti invidio,/ lo dico con rispetto./ Per me non ci sarà/ nemmeno mezza riga/ sulla garzantina universale:/ sono un poetino al di sotto della media,/ un uomo che non sa/ di essere normale»

 

dove l’elegante ironia del tono serve da disincanto e disincantamento verso le poetiche deboli da economia curtense del sistema maggioritario del conformismo. Ma, ad uno sguardo più approfondito, per andare al di là della mera denuncia stilistica l’aspetto che più mi convince è il rigore con cui il discorso poetico viene portato avanti passando tra la stretta cuna pasoliniana di «trasumanar» e «transumar» l’io poetico attraverso la delimitazione tra «Arte e oratoria» e la presunta  «disarticolazione del linguaggio» che inficerebbe la poesia contemporanea; la tesi di Vincenzo Mascolo è ben diversa: non la disarticolazione del linguaggio sarebbe il responsabile delle odierne difficoltà dello scrivere poesia ma proprio il contrario, la scarsa capacità di ascolto e di dialogo tra le istanze dell’io poetico e le istanze dell’io, la insufficiente ricezione delle istanze di autenticità che salgono dalla materia stessa della vita e del mondo. È questo, per Vincenzo Mascolo, il segreto della crisi della poesia moderna. È così che l’autore costruisce la sua poesia, onesta e dimessa, che non ammicca a chissà quali dilaceranti problematiche né a intellettualismi di sorta; una poesia colloquiale che coniuga con accortezza poesie d’amore e poesie d’occasione, riferimenti impliciti alla Tradizione «alta» e collusioni esplicite con le pastoie del quotidiano, il tutto con uno stile semplice e una dizione nitida, priva di scalfitture improprie e di orpellismi decorativi. Ed infine, una salda presa di distanza dal pendio del nichilismo contemporaneo:

 

«Ci sarà poi qualcosa tra il nostro essere e il nulla,/ una virgola, un punto, quantomeno un trattino/ che separi dal nulla ciò che invece noi siamo, perché forse altrimenti si dovrebbe pensare/ che sia essere nulla il nostro vero destino/ e che vivere in fondo per ognuno sia vano/ perché pure esistendo noi comunque non siamo».

 

 Vincenzo Mascolo, nato a Salerno nel 1959, vive e lavora a Roma. Nel 2004 ha pubblicato la raccolta Il pensiero originale che ho commesso, Edizioni Angolo Manzoni. Con la casa editrice LietoColle ha pubblicato nel 2009 Scovando l’uovo (appunti di bioetica). Nel 2010 un estratto del libro inedito Bile è stato pubblicato nell’antologia Lietocolle Orchestra – poeti all’opera (numero tre), curata da Guido Oldani. Per LietoColle ha anche curato le antologie Stagioni, insieme a Stefania Crema e Anna Toscano, La poesia è un bambino e, con Giampiero Neri, Quadernario – Venticinque poeti d’oggi. E’ il curatore di Ritratti di poesia, manifestazione annuale di poesia italiana e internazionale promossa dalla Fondazione Roma.

 

Giorgio Linguaglossa

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

 

Il momento espressivo-metaforico della forma-poesia è uno spazio espressivo integrale (che può essere colto

in un sistema concettuale filosofico, che oggi non c’è per via della latitanza di pensiero estetico da parte dei filosofi). Il momento espressivo coincide con il linguaggio, e il linguaggio è condizionato dai linguaggi che l’hanno preceduto… se il momento espressivo si erige come un qualcosa di più di esso, degenera in non-forma (si badi non parlo qui di informale in pittura come in poesia!), degenera in mera visione del mondo, cioè in politica, in punto di vista condizionato dagli interessi di parte, in chiacchiera, in opinione, in varianti dell’opinione, in sfoghi personali, in personalismi etc. (cose legittime, s’intende ma che non appartengono alla poesia intesa come «forma» di un «evento»).

 

Il problema di fondo (filosofico, ed estetico) della poesia della seconda metà del Novecento (che si prolunga per ignavia di pensiero in questo post-Novecentoche è il nuovo secolo), è il non pensare che il problema di una «forma» non può essere disgiunto dal problema di uno «spazio», e quest’ultimo non può essere disgiunto dal problema del «tempo» (tempus regit actum, dicevano i giuristi romani). Ora, il digiuno di filosofia di cui si nutrono molti auto poeti, dico il problema di pensare questi tre concetti in correlazione reciproca, ha determinato, in Italia, una poesia scontatamente lineare unidirezionale (che segue pedissequamente e acriticamente il tempo della linearità metrica), cioè che procede in una sola dimensione: quella della linea, della superficie… ne è derivata una poesia superficiaria e unidimensionale. E, si badi: io dico e ripeto da sempre che il maggiore responsabile di questa situazione di imballo della poesia italiana è stato il maggior poeta del Novecento: Eugenio Montale con Satura (1971), seguito a ruota da Pasolini con Trasumanar e organizzar (1971). Ma queste cose io le ho già spiegate nel mio studio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana 1945-2010 edito nel 2011.

 

In questa sede posso solo tracciare il punto di arrivo di questo lungo processo: il minimalismo e il post-minimalismo.

Con questa conclusione intendevo tracciare una linea di riflessione che attraversa la poesia del secondo Novecento, una linea di riflessione che diventa una linea di demarcazione.
Delle due l’una: o si accetta la poesia unidirezionale del post-minimalismo magrelliano (legittima s’intende), che prosegue la linea di una poesia superficiaria e unidirezionale che ha antichi antenati e antichi responsabili (parlo di responsabilità estetica) precisi; o si opta una linea di inversione di tendenzada una poesia superficiaria a una poesia tridimensionale che accetta di misurarsi con una «forma più spaziosa», seguendo e traendo le conseguenze dalla impostazione che ha dato Milosz al problema della poesia dell’avvenire. La poesia citata di Milosz è un vero e proprio manifesto per la poesia dell’avvenire, chi non comprende questo semplice nesso non potrà che continuare a fare poesia superficiaria (beninteso, legittimamente), ma un tipo di poesia di cui possiamo sinceramente farne a meno.

 

La ricerca poetica di Vincenzo Mascolo si situa nell’orizzonte di una poesia con i battenti aperti, una forma-poesia larga e capiente che faccia entrare il mondo con tutte le sue contraddizioni, l’eteronomia del mondo mediante un linguaggio che non è più koiné, non è più un linguaggio di linguaggi o un meta linguaggio ma un linguaggio di provenienza prosastico, inglobato nella forma-poesia. Uno spazio espressivo integrale, dunque.

 

 

L’ATTESA

 

 Scena:

Un uomo solo seduto al tavolino di un bar.
Altre persone nella sala. Una musica in sottofondo.

Riascoltando questa vecchia canzone di Edith Piaf,
che arriva soffusa e lontana come i miei ricordi,
mi viene da pensare che anche io non mi pento di niente,
anzi, che non ho niente di cui voglia pentirmi.
Perché se lo volessi dovrei farlo proprio adesso,
intendo in questo istante,
tra un bicchiere e l’altro di prosecco
che mi vengono serviti al tavolino,
davanti a coloro che, come me,
sono seduti in questa sala
in solitaria attesa che si compia qualcosa
che non sappiamo nemmeno cosa sia.
Reciterò però con devozione i vostri miserere
da sgranare uno a uno quando viene sera
per non aver paura
ma non chiedetemi atti di dolore
perché è già dolore
questo mio essere diviso
tra la terra e il cielo,
il vero senso che non colgo,
la mia postura.