Eugenio Lucrezi, di famiglia leccese, è nato nel 1952, vive a Napoli. Ha pubblicato cinque libri di poesia:
– Arboraria, Altri termini, Napoli 1989;
– L’air, Anterem, Verona 2001;
– Freak & Boecklin (con Marzio Pieri), Morra-Socrate, Napoli 2006;
– Cantacaruso : Lenonosong (con Marzio Pieri), libro + CD musicale, La finestra, Lavis, Trento 2008;
– Mimetiche, Oedipus, Salerno-Milano 2013.
Ha pubblicato il romanzo Quel dì finiva in due, Manni, Lecce 2000.
Suoi testi sono presenti in libri collettivi e antologie:
– Poeti degli anno ’80, a cura di Renzo Chiapperini, Levante, Bari 1993;
– Poesia in Campania, a cura di Ciro Vitiello, in Novilunio, anno 3°-4°, Zurigo 1993-1994;
– Attraversamenti, a cura e con fotografie di Donatella Saccani, Di Salvo, Napoli 2002:
– Le strade della poesia, a cura di Ugo Piscopo, Guardia dei Lombardi, 2004; e poi a cura di Domenico Cipriano, edizioni delta3, Grottaminarda 2011, 2012 e 2013;
– Il racconto napoletano, a cura di Ciro Vitiello, Oèdipus, Salerno-Milano, 2005;
– Portfolio Lo stormo bianco, a cura di Nietta Caridei, Giancarlo Alfano, Gabriele Frasca, d’if, Napoli 2005;
– Una piazza per la poesia, Il portico, Napoli 2008;
– Mundus, a cura di Ariele D’Ambrosio e Mimmo Grasso, Valtrend, Napoli 2008;
– Registro di poesia n°2, a cura di Gabriele Frasca, d’if, Napoli, 2009;
– A ritmo di jazz, a cura di Fabio G. Manganaro, edizioni blu, Torino 2009;
– Accenti, a cura di Enrico Fagnano, edizioni del comitato Dante Alighieri, Napoli 2010;
– Frammenti imprevisti, a cura di Antonio Spagnuolo, Kairos edizioni, Napoli 2011;
– ALTEREGO poeti al MANN, a cura di Marco De Gemmis e Ferdinando Tricarico, Arte’m, Napoli 2012;
– L’evoluzione delle forme poetiche, a cura di N. Di Stefano Busà e di A. Spagnuolo, Kairos, Napoli 2013;
– In forma di scritture, a cura di Carlo Bugli, Pasquale Della Ragione, Giorgio Moio, Riccardi, Quarto, 2013;
– Una piuma per Alda, Il laboratorio di Nola, Nola 2013;
– Virtual Mercury House, di Caterina Davinio, Polimata, Roma 2013;
– La memoria, primo quaderno del Premio Alessandro Tassoni, a cura di Nadia Cavalera, e-book Calameo, Modena 2013.
mi è venuto in mente che avevo dimenticato di dire qualcosa, che avrei voluto dire qualcosa di importante
Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa
Leggendo questo libro di Eugenio Lucrezi, mi è venuto in mente che avevo dimenticato di dire qualcosa, che avrei voluto dire qualcosa di importante… ma forse non era così importante come credevo; in fin dei conti a chi si rivolge questo libro di Eugenio Lucrezi che ha per titolo Bamboo Blues? Credo a nessuno. E questa è forse la posizione privilegiata per un libro di poesia: non dover accordare nulla a nessuno, non dover venire a patti con nessuno, non dare credito a nessuno, essere liberi come un uccello. Le parole che utilizza il poeta napoletano sono per lo più parole desuete e povere con l’accompagno del timbro sonoro di una antica tradizione che si è dissolta.
Ho dimenticato di dire che una «patria metafisica delle parole» la può costruire soltanto una tribù. Non sta al poeta, seppur di rango, costruire una patria metafisica, questi non può che accostumarsi ad impiegare le parole che trova già pronte, quelle della barbarie, le parole che un poeta non dovrebbe mai accettare di dover pronunciare.
Ma mi chiedo se, nell’epoca della seconda barbarie, la nostra, sia ancora possibile costruire una patria metafisica delle parole. Con le parole di Marcuse:
«È possibile che la seconda epoca di barbarie coinciderà con l’epoca della civiltà ininterrotta».
Non so se Eugenio Lucrezi abbia tenuto in mente questa massima di Marcuse dei primi anni Sessanta ma credo che in qualche modo si riconoscerà in quelle parole del filosofo tedesco.
La pagina finale di Dialettica negativa di Adorno (Verlag, 1966, trad it. Einaudi, 1970, p. 369) recita così:
«Ciò che recede diventa sempre più piccolo… diventa sempre più impercettibile; per questo motivo di critica della conoscenza e di filosofia della storia la metafisica trapassa in micrologia. Questo è il luogo della metafisica come riparo dal totale. Nessun assoluto è esprimibile se non in materiali e categorie dell’immanenza, mentre tuttavia né questa nella sua contingenza né la sua essenza totale devono essere idolatrati. Secondo il suo stesso concetto la metafisica non è possibile come connessione deduttiva dei giudizi sull’essente. Altrettanto poco può essere pensata in base al modello di un assolutamente diverso, che irriderebbe terribilmente al pensiero. Quindi essa sarebbe possibile solo come costellazione decifrabile dell’essente, da questo riceverebbe il suo materiale, senza il quale non sarebbe, non trasfigurando però l’esistenza dei suoi lamenti, ma conducendoli invece ad una configurazione, in cui essi si comporterebbero in scrittura. A questo fine la metafisica deve intendersi del desiderare. Che il desiderio sia un cattivo padre del pensiero è fin da Senofane una delle tesi centrali dell’illuminismo europeo, ed essa vale ancora senza restrizioni di fronte ai tentativi di restaurazione ontologica. Ma il pensare, esso stesso un comportamento, contiene in sé il bisogno – e in primo luogo l’affanno. Si pensa a partire dal bisogno, anche quando si rifiuta lo wishful thinking. Il motore del bisogno è quello dello sforzarsi, che implica il pensare come fare. Oggetto della critica è quindi non il bisogno nel pensare, ma il rapporto tra i due. Il bisogno nel pensare esige però che si pensi. Esige la sua negazione per mezzo del pensare, deve scomparirvi, se vuole realmente soddisfarsi, e in questa negazione gli sopravvive, rappresenta nella più intima cellula del pensiero ciò che non gli è simile. I minimi tratti intramondani sarebbero rilevanti per l’assoluto, perché lo sguardo micrologico frantuma il guscio dell’impotentemente isolato in base al concetto superiore, che lo sussume, e fa saltare la sua identità, l’inganno che esso sia meramente esemplare. Tale pensiero è solidale con la metafisica nell’attimo della sua caduta.»
Qui c’è in evidenza l’aporia del pensiero nell’atto che si pensa, che pensa il suo oggetto, che esige la sua negazione, ovvero, il suo annullamento, il suo obnubilarsi, il suo inabissarsi per rinascere in un nuovo pensiero… Ecco, credo che la poesia debba pensare il suo oggetto, debba cercarlo con tutte le forze, altrimenti rischia di essere mera esternazione soggettiva del non-pensiero, del wishful thinking. Perché, sia chiaro, la poesia è pensiero, pensiero pensante, pensiero, come si dice oggi, poetante.
una «patria metafisica delle parole» la può costruire soltanto una tribù
Tre poesie di Eugenio Lucrezi
Angelo del Pontormo
Nube. Nubesco. Potenza delle ali.
Testa rivolta ai venti della volta.
Un gran soffione d’aria nel vestito.
Sono nube di guerra. Non sorrido.
Vento che ti schiaffeggia. Non mi vedi.
Arrivo nel gran peso delle ossa.
Non c’è buco che tenga la caduta.
Angelo dell’intonaco, sono orma
della grazia sul ponte, sono inchino
di veleggi rigonfi al paradiso
chiuso nella navata.
Bamboo Blues
Non credo a quel che vedo, la fotografia
scattata quasi a caso, di pomeriggio,
a te che prendi il vento negli ariosi
capelli, e ad Agropoli muovi un impercettibile
passo di danza, torcendo
appena un poco il busto mentre alzi
le braccia all’altezza del viso che si profila
di spalle nel cielo caricato
di sole e di calante azzurrità commossa
e respirante fiati e fiati di vite
diffuse e riposanti nei filacci
d’estate, ad occhi chiusi a fresco,
in memoria del mare,
con le ascelle che bevono luce
moderata alla fine, che accoglie
la grazia del tuo passo, e di tuo figlio
che ti guarda da presso,
dice l’amore incredulo che piangi
a Pina in un istante, e sei tutta
abbraccio intorno al nulla, concentrata.
Angelo
Essere un angelo ha un costo, le ali,
con l’esistenza che pesa e non vuole
saperne di levarsi, fanno solo
rumore, un fastidioso
frullare con affanno inconcludente.
Fare l’angelo costa, a te hanno dato
l’intera paga, il soldo del soldato
celeste. Raramente
ti sei mossa da terra, la tua grazia
cozzava sul soffitto della stanza.
Il soldo lo hai tenuto in un cassetto,
la luce che emanavi rifletteva
raggi infiniti contro la parete
trasparente della finestra.
Frullare d’ali nella cameretta.
Sorella lieve raggiungi la tua schiera.
Giorgio Linguaglossa
31 luglio 2018 alle 12:35
Ricevo da Gino Rago questa 16ma lettera a Ewa Lipska
Sedicesima Lettera a Ewa Lipska
[la vita nelle torte]
Cara M.me Hanska,
i poeti hanno dato scacco matto al tedio di Dio,
uno di loro ha scritto in un suo verso:
«Qui ci sono gli uomini che hanno venduto la propria ombra…»
Al Quirinale, l’orologio ad acqua,
sul Tevere la voce dei cesari.
Non dia retta a chi ha scritto:
«chi penetra il mistero della lingua trova la sua patria»,
a Cracovia i poeti non sono barometri.
[…]
Due donne. Rossetto e trucco. Aspettano l’alba
nello specchietto retrovisore.
Caffè di Graz, fette di Wiener apfelstrudel.
La megera vive accanto al Blumenstrasse,
in un appartamento al secondo piano.
Dice di essere Madame Hanska, quella de Il tedio di Dio.
Sono vittime del blues:«Lasceremo Vienna,
andremo a Linz, o forse a Salisburgo».
Dallo specchio, una voce: «Mangerete
una Linzetorte o una Mozartkugel?».
«Tutte e due, lo sa, il segreto della vita
è nelle torte».
Alfonso Cataldi
31 luglio 2018 alle 13:40
“Abitare è un migrare che richiama lo scorrere di un fiume. Acqua e non terra. Non però la vasta distesa oceanica; piuttosto la corrente che s’incanala in un alveo, che lo scava, lo plasma, e tuttavia lo segue, mentre disegna tracciati, apre vie, dischiude luoghi da cui prende luce lo spazio aperto, sfoltisce le boscaglie, lasciando sorgere radure nella selva, se non addirittura contrade. Corrente vuol dire che l’abitare non può essere concepito come un essere-qui, ma va invece inteso come un essere lì e oltre, dove si dirige il fiume. L’abitare e-statico trova il suo habitat nel fluire, dove paradossalmente essere presso di sé è già sempre essere fuori di sé, secondo la dinamica eccentrica dell’esistenza.”
da Stranieri Residenti di Donatella Di Cesare
Lucio Mayoor Tosi
31 luglio 2018 alle 15:29
All’andamento che sento devozionale, nelle poesie di Vincenzo Mascolo, preferisco il religioso Lucrezi; un confronto fuori dalla ragione, s’intende, solo per averli letti ora, di seguito, su questa pagina – Del resto, se Giorgio li ha accomunati sulla stessa pagina, una ragione ci dovrà pure essere…
E’ chiaro che l’esercizio di stile richiede di essere applicato, altrimenti può bastare Queneau. Già, ma per dire cosa? Lucrezi sembra dargli risposta.
Una riflessione sulle interessanti argomentazioni di Adorno nel merito del pensiero:
Il pensiero che pensa se stesso è come il gatto che insegue la propria coda. Non è così per un poeta, quando rivede il proprio componimento; perché facendolo ha modo di osservare e pensare il proprio pensiero. In altre pratiche filosofiche, colui che osserva il proprio pensiero viene detto “testimone”. Ma in queste pratiche colui che pensa, in ogni momento può fermarsi e osservare il proprio pensare. Può essere che questo, Lucrezi non lo sappia, e forse nemmeno gli interessa; perché si capisce che è concentrato sul flusso delle parole, o almeno questa è la resa che ne dà.
Nella poesia NOE, l’interruzione del flusso è interruzione dell’azione pensiero; nel mentre può anche non esserci nulla. Anzi, proprio quel nulla viene assunto come elemento costruttivo della versificazione. Nulla che poi si estende vanificando, quindi non sommando, il pensiero stesso; il quale pensiero, finisce così col perdere la sua proverbiale centralità. Ma se ne esalta l’azione, il pensare in sé, che è costante “atto” di fiducia.
Invio senza rileggere.
Lucio Mayoor Tosi
31 luglio 2018 alle 15:35
A conferma di quanto ho appena sostenuto, ammesso che abbia un senso, basta leggere “Sedicesima Lettera a Ewa Lipska”, poesia composta in distici, uno più avventuroso dell’altro.
Gino Rago
31 luglio 2018 alle 19:33
Grazie Lucio, osservazioni acute le tue e interpretazione dei versi miei recentissimi, (recati alla loro resa estetica più elevata da 2 interventi miracolosi del nostro Giorgio Linguaglossa che qui cito solo al fine di ringraziarlo pubblicamente), i quali vanno in una direzione di sfacelo..
L’atmosfera di fine Impero, di fine di un mondo di certezze, in distici respira forse in ogni verso. L’unico legame mai rotto nei frammenti dell’Impero in dissoluzione è quello con la pasticceria austroungarica, il mistero della vita smarrita, frantumata, è nelle torte…
Le due donne che sconfitte lasceranno Vienna desiderano ‘trovarsi’ nelle fette di due torte; non compare mai, ma sullo sfondo c’è l’uomo senza qualità. E tutto è riconducibile ai personaggi di Joseph Roth, alla Cripta dei Cappuccini, a Roth che lascia il suo mondo e corre verso Parigi per uccidersi lentamente nella scrittura e nell’alcool, con i Von Trotta della Marcia di Radetzky e della Cripta… a inseguirlo, prima dell’ultimo abbraccio del Santo bevitore trasformato per incanto in Leggenda…
Lucio, si colgono queste atmosfere, queste dissoluzioni, queste sconfitte definitive…?
Joseph Roth devo evitarlo, mi scuote, a ogni lettura…
Lucio Mayoor Tosi 1 agosto 2018 alle 7:53
Caro Gino,
quella di rifugiarsi nel piacere, ultima consolazione – le due torte – mi sembra tipica dei periodi di decadenza. Nel film “Salò”, Pasolini ne dà significativo esempio,e gli storici conoscono bene quella dell’antica Roma (a me è bastato andarci la prima volta).
Ho apprezzato questa poesia in quanto conosco la tua poetica degli scarti; perciò, quanti più se ne trovano tanto meglio dovrebbe essere per il lettore che ti segue. Ma dovrebbe conoscere la poesia di Ewa Lipska (Hanska), oltre che naturalmente avere letto qualcosa di Joseph Roth – entrambi pubblicisti che si sono dati all’arte.
Tutto questo si coglie nell’atmosfera rarefatta e resa impressionistica dal frammento. Poi si trovano scarti anche di Linguaglossa, e in parallelo si avverte una certa vicinanza con la poesia di Mario M. Gabriele.
Ma a te interessa sapere se tutto questo “arriva”, se hai reso con efficacia. Personalmente, mi sento estraneo a queste tue scelte; il periodo storico, la fine dell’Impero asburgico, le decadenza e la fuga, non riesco pienamente a intenderle come metafora della contemporaneità. Mentre invece riesco a cogliere la modernità della tua scrittura. Io suggerirei di approfondire nella direzione di versi come questo:
«Due donne. Rossetto e trucco. Aspettano l’alba/ nello specchietto retrovisore.»
Versi che nulla hanno a che vedere con quanto ci stiamo dicendo. E che per me rappresentano una piacevole fuga da te stesso: negli scarti, inserti nuovi. Per altro comprensibili a tutti, per i quali non serve di avere letto, né Lipska né Roth. La tua capacità di rendere visive le immagini è indiscutibile, ma per mio gusto trovo nella tua frammentazione una certa rigidità. La stessa che a volte avverto quando leggo poesie di Giorgio Linguaglossa. Inserire, o il dare più spazio a versi come quello che ho segnalato,potrebbe essere la soluzione.
Giorgio Linguaglossa
1 agosto 2018 alle 7:28
Pensare l’impensato nella nuova forma-poesia
caro Lucio,
hai ragione, in un certo senso Eugenio Lucrezi risponde a Vincenzo Mascolo, ma la sua risposta tende a spostare l’ago della bilancia dalla parte della phoné, della fonologia. La fonologia (l’onda sonora) diventa la madre di tutte le battaglie, addebitando alla fonologia la primazia ne consegue che accreditiamo all’onda sonora dell’endecasillabo la priorità e la primogenitura nella questione metrica e versale. E di lì non se ne esce, la prigione dorata dell’elegia ne è il risultato. Che lo si voglia o no, che ne si abbia consapevolezza o no.
La nuova ontologia estetica che noi stiamo perseguendo invece si basa non sulla priorità della fonologia e dell’onda sonora ma sulla primogenitura della tessera iconica. Se la fonologia è parente stretta della analogia, cioè vanno a braccetto in quanto dipendenti dal fenomeno acustico, l’icona (l’immagine) si libera da questa dipendenza in quanto ne è svincolata: una immagine, in un testo, dipende dalla immagine che la segue o che la precede. Il divorzio dalla fonologia è proprio della nuova ontologia estetica. Ecco perché tra l’onda sonora e ritmica della poesia tradizionale novecentesca ed epigonica e la poesia della nuova ontologia estetica c’è un salto e un abisso.
Molto opportunamente tu parli di «vuoto» che si apre tra le parole della nuova ontologia estetica. Ed il perché è chiaro: perché il vuoto abita stabilmente tra i sintagmi che adesso appaiono nudi in quanto non più vestiti e travisati dall’onda sonora, dal «flusso» sonoro delle parole. Il «vuoto» che si apre tra le parole e le immagini è vistosamente visibile nelle tue poesie o in quelle di Gino Rago o in quelle di Mario Gabriele; è il «vuoto» che convoca una immagine dopo l’altra saltando la sintassi e la grammatica e disponendo liberamente delle immagini. Se leggiamo la 16ma lettera a Ewa Lipska di Gino Rago osserviamo quanti «rivolgimenti», quante «peritropè» vi siano da un rigo all’altro… ciò che accomuna e «tiene insieme» le singole immagini è il «vuoto» che si apre tra una immagine e l’altra.
Vedo che anche Alfonso Cataldi e Mauro Pierno sono già abbastanza avanti in questa ricerca, ciascuno con la propria particolarissima sensibilità culturale e linguistica. È una procedura difficilissima e innovativa perché l’autore non ha corrimano, non ha appigli, non ha sostegni nella sua avanzata verso il «vuoto», deve appoggiarsi ad una immagine dopo l’altra, non ha più gli alibi che gli consentivano l’antica e nobile onda sonora e l’analogia: il «come». Nella poesia della nuova ontologia estetica il «come» viene bandito e basta, le immagini scorrono nude e crude.
Il filosofo Enrico Castelli Gattinara ha pubblicato un libro di 350 pagine il cui titolo è significativo: Pensare l’impensato, edito da Mimesis, 2018. Consiglio a tutti di leggerlo. Ecco, credo anch’io che occorra «pensare l’impensato» anche in poesia. Bisogna spezzare il proprio pensiero, non osservarlo dal di fuori, ma restare dentro il pensiero pensato per spezzarlo, frantumarlo, dissolverlo per andare su un nuovo pensiero. Soltanto pensando l’impensato è possibile uscire fuori dal circolo vizioso del circolo analogico ed ermeneutico. L’atto di «pensare l’impensato» spezza l’analogia e l’onda sonora e ci introduce in un’altra dimensione del pensiero poetico.
L’esercizio dello stile, come tu dici, alla lunga diventa stilematica, ozioso passatempo con l’ausilio della phoné. Spezzare, frantumare lo stile è una ginnastica necessaria e salutare. Chi non lo capisce continuerà a fare poesia analogica quando ormai siamo passati al digitale. La «nuova ontologia estetica» ci spinge a pensare la forma-poesia in modo rivoluzionario. Ma per fare la rivoluzione delle forme occorre un atto di grande coraggio intellettuale.
Lucio Mayoor Tosi 1 agosto 2018 alle 8:13
Mi trovi perfettamente d’accordo sul discorso che riguarda la fonologia. Andava detto. Ma non è questo l’aspetto che mi ha fatto preferire Lucrezi a Mascolo. La ragione è più semplice: ci ho trovato più poesia. Quanto al resto si ha distanza.
Lucio Mayoor Tosi 31 luglio 2018 alle 15:49
Siccome ormai siamo in agosto – non significa nulla – invio un secondo estratto da “L’intervista”. Non tutto si capirà perché l’estratto va di seguito a un altro componimento, ma ora non penso abbia grande importanza.
Alloro al vincitore!
«Potresti essere tu, in uno dei tuoi travestimenti».
Dalla parte degli aguzzini per diritto di nascita. O per prostituzione.
La schiena di una vecchia seduta a bordo letto. Si sta cospargendo
di crema le spalle. L’Imperatore osserva le sue rovine.
Poi torna al romanzo. Se fare una telefonata. E’ ancora presto.
– Non un albergo in città. Ma come fanno a vivere?
Sarà lui, l’Imperatore, ad alzarsi per primo dal letto. Lei, tu,
ti volterai guardando di sfuggita. La testa del maiale ancora lì.
Prima di colazione. Il film.
«Brava. Permettimi di darti la mano». Il merito è tuo.
«Ho fatto come ho potuto».
Ora aiutami a scavare una buca. Voglio riprovare. Quando manca l’aria.
Poi su Venezia, Roma, Berlino… Non si avrebbe da dire.
Sospiro, palla, battesimo. I convenuti morti prendano posto!
«Nessuna paura, la casa è in affitto».
Mauro Pierno
1 agosto 2018 alle 7:56
Eppure usa una parola: Queneau.
Sopporta ancora l’onta della celebrazione, è vero non più condivisa, personale, ma ripropone una parola, scuola. Impartisce una lezione di stile.
La conferma di una mancanza di metafisica delle parole. Come volevasi dimostrare.
Oh, com’è comune questo dolore.
Che sofferenza, che strazio.
Un verso da cui ripartire, Q. e l’allodola.
Questa sonora corrispondenza
avvia nei margini una piccola sutura
Avessi visto amore mio come è strano
distruggersi a Milano.
È l’aria a fette una lubrificazione eterna.
Nel senso una fetta di grasso
ed una fetta di cielo
Una di salame e l’altra di Greco.
Mario M. Gabriele
1 agosto 2018 alle 9:51
cari Giorgio e Lucio,
fa piacere leggere il vostro pensiero sulla decostruzione della forma poetica che racchiude in sé il sotto vestito del linguaggio per meglio comprendere l’annullamento del ritmo narrativo, sostituito dal trauma del vuoto, tra un verso e l’altro. Chiamiamola pure disarmonia linguistica, tic della spazialità organica.
La struttura del Novecento poetico è definitivamente finita. I propositori di questa nuova rivoluzione strofica, mini-invasiva, asimmetrica e più sclerotizzata di così, tra distici, monoverso, e la scomparsa dell’IO e dell’autocompiacimento, fanno sì che il passaggio verbale e figurativo, scandito da un nuovo segno estetico,diventi occasione di un pluridiscorso dalle diverse scansioni oggettive e psicoestetiche. Il vero antinovecentismo lo si scorge con questi esiti di svuotamento narrativo, sostituito da più mini narrazioni dove la traccia della discontinuità si sbriciola e si ricompone ad ogni verso.
C’è una ibridazione di registri linguistici in continua espansione e surrogazione, che può sembrare uno stile scriteriato, offensivo da parte di chi ha una sensibilità estetica diversa dalla nostra, ma non per questo motivo, si può dedurre che il nostro fare è utopico, irrealistico, trasgressivo e irriverente.
Al fine di esplicare il senso di questo nuovo percorso, riporto due esempi di introduzione al nuovo soggetto poetico, riportando due citazioni tratte dal pensiero di Giorgio Linguaglossa nel post precedente:
(1) «Spezzare, frantumare lo stile è una ginnastica necessaria e salutare.»
(2) «Ciò che accomuna e tiene insieme le singole immagini è il vuoto che si apre tra una immagine e l’altra.»
Qui non si tratta di schizofrenia linguistica ma di un modello non visionario e ipnotico di una forma estetica che vuole essere di spazio poetico microcellulare e cosmico. Dico queste cose non per convincere qualcuno, ma per irrorare passaggi estetici giustificandoli nella loro esposizione.
Si tratta, in sintesi, dell’espressione del linguaggio del nostro tempo che urta la modalità lirica del Novecento sostituita da tecniche di sintesi e di rallentamento letterario, ma che in effetti diventano una vera fenomenologia tecnico-materica della scrittura in versi.
Lucio Mayoor Tosi
1 agosto 2018 alle 10:29
Agosto è il mese migliore per parlare liberamente, senza doversi tanto preoccupare di apparire presuntuosi – e per parte mia ve ne sarebbe motivo – quindi ne approfitto. E torno al fatidico verso di Tomas Tranströmer:
“Le posate d’argento sopravvivono in grandi sciami
giù nel profondo dove l’Atlantico è nero”
per dire che avrebbe anche potuto scrivere ” a destra, su una lapide nera le scritte d’argento”. E, a seguire, l’elenco delle immagini che volentieri accorrerebbero per subito partecipare al convegno. Ma sarebbe per l’appunto un elenco. Ecco, è più o meno questo che intendo dire quando parlo di rigidità.
Come evitare la scarna elencazione, per quanto composta di elementi bizzarri e sorprendenti… Qui sta l’abilità del poeta, a mio avviso, il problema nuovo che si presenta. Ed è straordinario osservare come ciascuno, qui, abbia saputo darsi una propria soluzione stilistica.
Giorgio Linguaglossa
1 agosto 2018 alle 12:13
Io un tempo lontano scrivevo poesie che avessero un «senso». Davvero, adesso un po’ me ne vergogno. Cercavo di dare un «senso forte» alle poesie che scrivevo. Ma sbagliavo. Un giorno incontro questa frase di Adorno tratta da Dialettica negativa, 1966 (ed.Einaudi 1970 p. 340):
«Una vita che avesse senso non si porrebbe il problema del senso: esso sfugge alla questione».
Fu allora che abbandonai l’abitudine di scrivere poesie con un «senso», perché mi resi semplicemente conto che «esso sfugge alla questione».
Detto questo per dire che allontanandomi sempre più velocemente dalla poesia con posizione e proposizione suasoria, assertoria, unidirezionale, unitemporale, innocentemente non dubitatoria, sono approdato, insieme ad altri compagni di viaggio, alla «nuova ontologia estetica» (che è una posizione davvero instabile!)… ma non per invaghimento del dubbio e della scepsi, posta così la questione sarebbe da superficiali, ma, per amore della verità, posto anche qui per scontato il concetto di «verità», cosa che affatto non è. In seguito, incontrai un altro frammento di Adorno che diceva:
«la coscienza non potrebbe affatto avere dei dubbi sul grigio, se non coltivasse il concetto di un colore diverso, di cui non manca una traccia isolata nel tutto negativo». (op. cit. p. 341)
Fu allora che mi resi conto che la poesia che si scriveva in Italia da alcuni decenni era una poesia ingenuamente assertoria, anti sceptica, semplificatoria… mi resi conto che le cose non stavano affatto così…