Le Trou Noir, lithographie et dessin (1992) de Jean-Pierre Luminet
Recentemente ho posto ad un poeta queste domande. Penso che la risposta ad esse dicano molto sulla poetica di un autore, in tal senso la ripropongo ai lettori, perché penso che siano due domande di fondo alle quali un poeta degno di questo nome non può sottrarsi.
1) Che rapporto ha la tua poesia con la tradizione del Novecento?
2) All’interno del Novecento (italiano ed europeo) quale linea intendi rintracciare e tracciare per il presente e l’avvenire?
Colgo l’occasione per ripostare un articolo di Alfonso Berardinelli pubblicato nel 2014 che fa il punto della questione della Fine del
novecento.
(Giorgio Linguaglossa)
Anche le Lettere sono finite? di Alfonso Berardinelli (2014)
Con l’inizio degli anni Novanta si parlò di “fine della storia”.
Tra società dello spettacolo, declino della politica e avvento dell’informatica, è mutata la figura dello scrittore: hanno vinto consumo e mercato. E ora siamo nell’epoca in cui tutti scrivono.
Nessuno può dubitare che il Novecento sia finito. Ma quando e come è finito? Da quali segni e fenomeni si evince che la continuità è interrotta? L’edizione aumentata e aggiornata dell’ultimo volume della Storia della letteratura italianadi Giulio Ferroni è uscita già da un anno, ma continuo a sfogliarla e rileggerla cercando di capire che cosa contiene, che cosa rivela o nasconde quel nuovo sottotitolo:
«Il Novecento e il nuovo millennio». A che cosa sostanzialmente fa pensare una tale formula, che sembrerebbe soltanto informativa? È certo che gli anni passano, che qualcosa di nuovo si aggiunge al passato. Qualcosa cambia, qualcosa si perde e si dimentica. Soprattutto se si tratta di un’intera letteratura, i cambiamenti sono molti e possono confondere le idee. Oggi c’è un clima generale diverso. Ma d’altra parte si ha o si vuole avere l’impressione che “tutto sommato” si vada avanti più o meno come prima. Gli autori hanno altri nomi, ma non cambia il nome di quello che fanno: si scrivono romanzi e poesie, si fanno recensioni, escono libri di saggistica e di critica. Ci sono, come prima, il premio Strega e il premio Campiello, che ogni giovane vuole.
A Torino c’è la Fiera o Salone del libro. Poi c’è la Milanesiana, c’è Massenzio, e poi “Libri come” e “Più libri, più liberi”… Ma se devo interpretare il punto di vista di uno storico della letteratura, in questo caso Ferroni, mi sembra che sia lui per primo ad avvertire la fine di un’epoca letteraria che aveva mantenuto per cinquanta o cento anni caratteristiche relativamente costanti, anche nel passaggio da modernità a postmodernità. Pubblicando nel 2012 un saggio su Giudici e Zanzotto, non sarà un caso se Ferroni lo ha intitolato Gli ultimi poeti, cosa che ad alcuni, specie ai più giovani, non è affatto piaciuta. Ultimi? Ma come? E noi chi siamo? La poesia continua a vivere.
Il presente esiste, ha preso il posto del passato e guarda al futuro. La parola “ultimi” non credo però vada presa troppo alla lettera e in assoluto. Si dovrebbe intendere come: “gli ultimi poeti di un’epoca in cui i poeti avevano certe caratteristiche oggi più difficili da trovare, perché loro appartenevano a pieno titolo al Novecento, un secolo finito”.
Dunque: quando è finito il Novecento? La sua fine non mi sembra sia un fatto accaduto fra il 1999 e il 2000. Il Novecento ha cominciato a finire prima, è finito più volte, potrei dire che è finito tre volte. Si è trattato di un processo scandito in circa tre decenni, mentre per altri versi qualcosa di quel secolo vive tuttora. In questo o quel punto del sistema letterario la memoria della cultura novecentesca agisce ancora.
Due critici nati negli anni Cinquanta e dotati di un notevole senso del passato e della storia (ma un critico smemorato non è un critico), come Giorgio Ficara e Raffaele Manica, intitolarono alcuni anni fa le loro raccolte di saggi rispettivamente Stile Novecento ed Exit Novecento. Non può essere una banale coincidenza. Credo che ci siano state da parte degli autori una precisa intenzione e una chiara intuizione di ciò che è avvenuto. Almeno nella letteratura italiana, uno stile è finito, uno stile che nonostante le sue varianti, ramificazioni e divaricazioni si spiegava e si generava a partire da presupposti che da un certo momento in poi (nel corso degli anni Novanta, mi pare) sono venuti meno.
Secondo alcuni pessimisti non si è perso “uno” stile, si è perso o è sempre più raro “lo stile”: almeno se si pensa che lo stile sia un valore e non un fatto che in arte si dà comunque, buono o cattivo che sia. Mi sembra che stia aumentando il numero di coloro secondo i quali tutto “a suo modo” è cultura ed è a suo modo arte anche l’intenzionale o inconsapevole negazione dell’arte intesa come lavoro sulla forma, eccellenza tecnica, abilità e originalità artigianale.
Per chi crede che lo stile sia un valore, la critica non ha senso se non valuta e giudica. Per chi crede invece che lo stile sia un fatto, la critica è registrazione di eventi che esistono come puri eventi, tutti di pari dignità, per i quali viene rivendicato il diritto di ricevere attenzione. Piacciano o non piacciano e quanto valgano, è allora del tutto secondario: ogni prodotto è artistico se si presenta come artistico e va quindi accuratamente descritto e interpretato.
Le avanguardie novecentesche fondavano su questo principio la loro strategica e tattica forza d’urto. Non importa che molta letteratura futurista e surrealista risulti illeggibile: è indubbiamente un fatto e quindi anche un valore letterario. Non importa che molta pittura e scultura moderna (ammesso che la distinzione sussista) siano a malapena guardabili dopo un primo sguardo: sono prodotti esposti e conservati nei musei e nelle gallerie d’arte, critici autorevoli si sono applicati a darne sofisticate o sofistiche interpretazioni e dunque guai a chi osa dire, ad esempio, che da un certo punto in poi Picasso ha prodotto solo merci artistiche facilmente realizzabili da vendere a caro prezzo, che Duchamp è stato solo un brillante provocatore e Andy Warhol un astutissimo mercante.
umberto eco edoardo sanguineti e furio colombo
Nelle arti visive il Novecento non è ancora finito, le repliche continuano. In letteratura molta della qualità novecentesca si è perduta.
Già con la seconda metà del secolo il romanzo, la poesia e la critica non hanno dato più niente di paragonabile alle opere di Proust, Joyce, Svevo, Mann, Kafka, Musil, Yeats, Apollinaire, Blok, Machado, Eliot, Lorca, Benn, Lukács, Spitzer, Šklovskij, Benjamin… La postmodernità ha prodotto Borges, Auden, Camus, Beckett, Nabokov, Grossman, Morante, Yourcenar, Celan, Calvino, Enzensberger, Barthes, Steiner… È con questi autori che il Novecento si conclude. Ognuno di loro è stato consapevole del suo venire dopo, del suo essere “post” rispetto ai classici di primo Novecento. Anche questa coscienza era un tipo di continuità.
Con l’inizio degli anni Novanta si parlò di “fine della storia”. Tra società dello spettacolo, declino della politica e avvento dell’informatica non cambiò solo la società letteraria, cambiò l’idea di letteratura, la figura dello scrittore e il modo di produrre, consumare, interpretare la letteratura. Generi lungamente e anche proficuamente messi in discussione, come il romanzo e la poesia, riacquistarono una forma convenzionale, quella che permette oggi al romanzo di “fare mercato” (a dominare è il modello del best seller narrativo, reale o potenziale) e che permette alla poesia di entrare in una circolazione fluida, fra letture pubbliche e presenza in rete, una circolazione che quasi non prevede più una vera e propria lettura, il che mina la stabilità formale dei testi, dati per poetici perché si presentano come poetici.
Una simile situazione non è più neppure postmoderna, non presuppone la modernità, la ignora e quindi non può che mettere in difficoltà il lavoro e il ruolo della critica. Anche uno storico e critico molto informato e militante come Ferroni da anni parla ripetutamente di “angoscia della quantità”. Il post-Novecento è dunque, come disse Cesare Garboli, l’epoca in cui “tutti scrivono” rivendicandone anzitutto il diritto. La scena letteraria è affollata di decine e centinaia di nuovi autori in cerca di “visibilità”, mentre la qualità dell’atto di leggere tende gradualmente a scadere in “lettura distratta”. Dilatandosi enormemente, la nozione di letteratura perde la fisionomia che aveva conservato ai più alti livelli nel corso del Novecento, quando l’idea di testo letterario e della sua priorità, le tecniche di analisi formale e linguistica, l’enfasi sull’importanza della lettura avevano provocato riflessioni e discussioni ininterrotte e appassionate.
Dagli anni Novanta e con l’inizio del nuovo millennio è cresciuta piuttosto l’importanza del mercato, del consumo librario come che sia, della presenza del personaggio-autore nei festival e nei media di massa vecchi e nuovi. Per tutto il Novecento, anche nelle sue ribellioni e turbolenze, la letteratura viveva tenendo presente la storia della letteratura. Oggi si va verso una letteratura o postletteratura che vive in uno spazio non più storico e che sembra “non fare storia”. Per questo, sebbene priva dell’autorità che ha avuto in passato, la critica sta diventando il solo luogo in cui la letteratura continua almeno in parte a prendere coscienza di se stessa, dei propri precedenti e del proprio passato.
Se mi si chiedesse quali sono stati gli ultimi scrittori italiani ancora pienamente, esemplarmente novecenteschi e con i quali il secolo scorso si è chiuso, credo che farei i nomi di Raffaele La Capria, Cesare Garboli, Piergiorgio Bellocchio. Scrittori al di là dei generi letterari, che hanno praticato tuttavia in prevalenza il genere saggistico. Eppure in tutti loro agisce sotto la superficie una vocazione e attitudine di narratori superiore, mi sembra, a quella che si trova in molti autori di romanzi. È la narrazione autobiografica, è la critica in senso lato culturale (“critica della vita”, direbbe Massimo Onofri) che fanno la sostanza e l’energia della loro scrittura.
La Capria ha scritto romanzi, il più famoso e apprezzato dei quali, Ferito a morte(1961), è però già un romanzo più autoriflesso e poetico che propriamente narrativo. In quel libro La Capria sembra influenzato dalla tessitura musicale e saggistica dei Quartetti di Eliot più che da altri romanzieri. Tutta la seconda metà della sua opera, da L’Armonia perduta (1986) in avanti, è saggistica autobiografica per episodi ed emblemi (Guappo e altri animali), autobiografia di un lettore (Letteratura e salti mortali) e critica sociale.
Cesare Garboli ha sempre negato di essere un critico letterario, pur essendo stato colui che ha più modificato lo stile della critica, i temi della critica negli ultimi vent’anni del Novecento: accentuandone a volte scandalosamente il carattere soggettivo. Come quella di Roberto Longhi o di Giacomo Debenedetti, la sua prosa è una delle più complesse, analitiche, perfettamente scandite e visionarie della nostra tradizione novecentesca. Scritti servili (poi Storie di seduzione) e Falbalas sono indagini sulla fisiologia dell’invenzione letteraria e diagnosi delle patologie che legano ogni autore al suo habitat.
Piergiorgio Bellocchio è uno scrittore morale e satirico, viene da una lunga tradizione che va da La Rochefoucauld a Flaubert, da Kraus a Kubrick. I suoi libri sono fatti di aforismi, micro racconti, recensioni e pirotecnici pezzi comici sull’inaridimento e le parodistiche deformità della vita nella società contemporanea. Il modo borghese di un tempo era certo affliggente e ipocrita, ma quello postborghese è l’apoteosi della stupidità fatta metodo. È così, secondo Bellocchio, che il Novecento è finito.
*
[Alfonso Berardinelli è uno dei critici più originali della cultura contemporanea, con una profonda esperienza della poesia e del romanzo. Collaboratore di diverse testate, tra le sue opere ricordiamo: La poesia verso la prosa (1994); Casi critici (2007); La forma del saggio (seconda ed. 2008); Poesia non poesia (2008); Non incoraggiate il romanzo (2011); Leggere è un rischio (2012)]
[grafica di Lucio Mayoor Tosi]
dai Commenti del 3 agosto 2018 a cura di Giorgio Linguaglossa
Scrive Lucio Mayoor Tosi
«la Poesia ha cambiato casa, arredo, si è trovata una nuova sistemazione».
Scrive Gino Rago:
«le valigie come una sorta di correlativi oggettivi di precarietà, di transitorietà, anche di insicurezza»; «Quindi, valigie, precarietà, disordine, insicurezza. Viceversa, armadio, stabilità, ordine, sicurezza»; «Le valigie dei protagonisti di Dismatria»
La conclusione che ne traggo è questa: che la nostra «valigia» è il metro a-metrico, la nostra «Dismatria» è la «dismetria». Siamo stati fatti sloggiare dalla «casa stilistica» della poesia narrativa del novecento e siamo stati costretti a peregrinare alla ricerca di una «nuova abitazione» dove ci si potesse sentire a proprio agio, più liberi, in familiarità con le cose e gli armadi pieni di cose in disuso. La «nuova ontologia estetica» è questo percorso: di riappropriazione di una nuova «casa linguistica e stilistica», perché siamo stati esiliati dalla nostra «casa».
Qualche giorno fa ho scritto questo messaggio ad un autore che mi aveva inviato delle poesie:
«caro [omissis]
per quanto tu sia bravo nella scrittura poetica, devo incoraggiarti in senso contrario: devi diventare meno bravo (lo so è un paradosso, ma non imitare, ti prego, i bravi poeti di scuola professorale che ci sono in giro!). devo dirti che la tua è un tipo di poesia che ne novecento è stata ampiamente percorsa, anche l’andamento strofico, così rispettoso della tradizione, mi appare, appunto, troppo rispettoso. Prova a mettere molti più punti e ad utilizzare il verso libero, con un inizio e una fine, rinuncia agli enjambement (salvo casi eccezionali) riduci i verbi all’essenziale e togli quasi tutti gli aggettivi (tanto sono quasi sempre inutili), tu sei bravo ma devi imparare a gettare la bravura dalla finestra! Soltanto rinunciando alla facile bravura si può tentare di scrivere qualcosa di essenziale. Ti mando il link del post di oggi che contiene una Lettera a un poeta e varie altre cose da cui potrai capire in che direzione ci muoviamo (la direzione di Tomas Tranströmer, Charles Simic, Ewa Lipska). »
La conclusione è che soltanto gettando a mare tutto quello che abbiamo imparato del secondo novecento italiano, diciamo da Composita solvantur (1994) di Fortini ad oggi, soltanto alleggerendoci di tutta la zavorra potremo raggiungere la leggerezza per una nuova impresa, per una nuova traversata nel mare aperto… = Citazione di Vincent van Gogh:
«Non posso cambiare il fatto che i miei quadri non vendono. Ma verrà il giorno in cui la gente riconoscerà che valgono più del valore dei colori usati nel quadro».
Moriva oggi Vincent van Gogh #29 luglio.
Parafrasiamo:
Non posso cambiare le mie poesie perché le poesie non vendono. Ma verrà il giorno in cui la gente riconoscerà che valgono più del valore delle parole usate.
Lucio Mayoor Tosi
3 agosto 2018 alle 10:14
Non ricordavo la citazione di Vincent van Gogh. Dice tutto della sua “mira”. Grazie, me la ricorderò.
Quanto alle parole non so. Per il fatto che oggi ti vengono date gratis, sembra non abbiano alcun valore; però, scegliendo e accostando “scarti”, rifiuti, qualche rimanenza d’epoca, ecco, riprendono vita. Sembrano altre. Certo, si noteranno i rappezzi, i rammendi, le cuciture, ma forse un giorno non lontano proprio di quest’arte del riutilizzo – contraria agli sprechi e alla sovrabbondanza – si parlerà positivamente. Per quel che NON si ha da dire, queste componenti vanno benissimo.
Roma, 1960 Pier Paolo Pasolini con Italo Calvino al Caffe’ Rosati in piazza del Popolo
Lucio Mayoor Tosi
3 agosto 2018 alle 11:22
Mi chiedo se anche la critica di Alfonso Berardinelli sia da considerare del novecento. Infatti non parla di Alda Merini, che secondo me ha sdoganato quel senso del “poetico” che oggi va tanto di moda tra il pubblico e gli scriventi dei social network. A questo pubblico credo importi poco se la poesia di Alda Merini possa essere derivata da una costola dell’ultimo Montale; anche se fosse, le va riconosciuto il fatto di avere ulteriormente semplificato il linguaggio poetico spingendolo con decisione nell’ambito della totale comprensibilità. Così è finito il novecento. Quasi non se ne potesse più…
Dice bene Giorgio Linguaglossa: “Siamo stati fatti sloggiare dalla «casa stilistica» della poesia narrativa del novecento e siamo stati costretti a peregrinare alla ricerca di una «nuova abitazione»
Giorgio Linguaglossa
Scrive Gianni Vattimo:
«L’ontologia non è null’altro che interpretazione della nostra condizione o situazione, giacché l’essere non è nulla al di fuori del suo “evento”, che accade nel suo e nostro storicizzarsi».
Ho citato apposta Vattimo per escludere una nostra definizione di ciò che possiamo intendere con il termine «ontologia». Ma parlare di «nuova ontologia estetica» implica e significa una accentuazione del sostantivo, noi sostantivizziamo il sostantivo; parlando di ontologia estetica mettiamo in discussione tutte le categorie della antica e nobile ontologia estetica del novecento. Rimetterle in discussione non si esaurisce in una semplice «ri-appropriazione» di ciò che un tempo ci è appartenuto e che più ci piace, questo sarebbe un atteggiamento diminutivo del nostro argomentare e del nostro essere, rimettere in discussione le categorie su cui si regge la ontologia novecentesca implica la costruzione di altre e diverse categorie retoriche ed ermeneutiche.
In un mondo in cui «il progresso diventa routine» e la stessa categoria del «nuovo» è utilizzata in toto dalla tecnica, appare chiaro che la strada da seguire sarà quella non della «appropriazione» del «nuovo» o della «riappropriazione» del mondo un tempo antico e bello, quanto la dis-propriazione di quel mondo e la presa d’atto che si è definitivamente chiusa l’epoca del «pathos dell’autenticità». La poesia che tentiamo di fare si è liberata del «pathos dell’autenticità» e della allegria di naufragi, ovvero, l’allegria dell’inautenticità.
Se raffrontiamo la poesia di Gino Rago: 16ma lettera a Ewa Lipska con le tre poesie di Eugenio Lucrezi, ci avvediamo subito che nella poesia di Rago non si rinviene alcun «pathos dell’autenticità», presente invece in larga misura nella poesia di Lucrezi. Il che non significa che la prima sia più bella della seconda, significa semplicemente che lì valgono altre categorie ermeneutiche e valoriali.
1] Gianni Vattimo, La fine della modernità, Garzanti, 1985, p. 11
Franco Fortini, anni sessanta
Commento di Giorgio Linguaglossa a una poesia di Franco Fortini, da Composita solvantur (1994)
3.Se la tazza…
Se la tazza mi darai
che mi piace, la mia tazza
con il manico marrone,
gentilissima ragazza,
tu felice mi farai.
Il suo manico ha il colore
del più vivo e ricco tè
ma riflette anche il turchino
del leggero cielo se
è leggero come te.
Una straordinaria poesiola, raffinatissima, fatta con le trine e gli stracci del lessico più corrivo ed elementare (le rime in «tè, se, te – tazza, ragazza»). Nulla di trascendentale, tutte le scelte lessicali sono semplicissime, settenari e ottonari ritmati e liberamente rimati.
Si parla di una «tazza» «con il manico marrone» (il colore più corrivo e pedante del mondo!). Ma quella «tazza» ha un valore di «cosa», è un simbolo carico di significati sotterranei, privati e pubblici che solo l’autore sa, che noi lettori non conosciamo ma della quale possiamo intuire che si tratta di un universo povero e corrivo di valori marroni, di valori terragni, di valori che sono caduti in disuso, che sono stati de-valorizzati, ma il poeta è attaccato affettivamente a quella «tazza» come alla cosa più preziosa del mondo, più preziosa di argentati topazi, di rubini rubicondi, di anelli smaltati, di diamanti… è quella «tazza» povera e consunta dall’uso di tutti i giorni che è la protagonista della poesia.
È una poesia beneaugurante nella quale il poeta lancia alla «ragazza» un invito sobrio e affettuoso, una preghiera laica, di offrirgli quella «tazza marrone», perché «il suo manico ha il colore/ del più vivo e ricco tè» (anche qui una bevanda usuale, anch’essa corriva).
Poesia che ci racconta di come sia passato «il turchino» dalla vita e anche il «leggero cielo» è scomparso, se ne è andato via come tutto, come la vita… Eppure, la poesia ci vuole dire qualcosa che non dice, che qualcosa pur resta, che pur resta una traccia, qualcosa che la «tazza» operaia ha visto e ha condiviso ma non può raccontare perché è muta, non ha il dono della parola: il sogno di un mondo migliore dove le cose corrive come la «tazza» ritrovino il loro giusto riconoscimento ed il loro apprezzato luogo valoriale.