Anna Ventura, da 21 poesie inedite, con una  Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

 

Giorgio Linguaglossa
[
è un Um-Weg, una via indiretta, contorta, ricca di andirivieni, di anfratti, di buche,
un cunicolo sotterraneo che non si vede ma che c’è, nascosto dal folto della vegetazione delle merci linguistiche]

 

Anna Ventura è nata a Roma, da genitori abruzzesi nel 1936. Laureata in lettere classiche a Firenze, agli studi di filologia classica, mai abbandonati, ha successivamente affiancato un’attività di critica letteraria e di scrittura creativa. Ha pubblicato raccolte di poesie, volumi di racconti, due romanzi, libri di saggistica. Collabora a riviste specializzate, a  quotidiani, a pubblicazioni on line. Ha curato tre antologie di poeti contemporanei e la sezione “La poesia in Abruzzo” nel volume Vertenza Sud di Daniele Giancane (Besa, Lecce, 2002). È stata insignita del premio della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Ha tradotto il De Reditu di Claudio Rutilio Namaziano e alcuni inni di Ilario di Poitiers per il volume Poeti latini tradotti da scrittori italiani, a cura di Vincenzo Guarracino (Bompiani,1993). Dirige la collana di poesia “Flores”per la  Tabula Fati di Chieti. Suoi diari, inseriti nella Lista d’Onore del Premio bandito dall’Archivio nel 1996 e in quello del 2009, sono depositati presso l’Archivio Nazionale del Diario di Pieve Santo Stefano di Arezzo.

 

È presente in siti web italiani e stranieri; sue opere sono state tradotte in francese, inglese, tedesco, portoghese e rumeno pubblicate  in Italia e all’estero in antologie e riviste. È presente nei volumi: AA.VV. Cinquanta poesie tradotte da Paul Courget, Tabula Fati, Chieti, 2003; AA.VV. e El jardin, traduzione di  Carlos Vitale, Emboscall, Barcellona, 2004. Nel 2014 per EdiLet di Roma esce la Antologia Tu quoque (Poesie 1978-2013). Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia di poesia Come è finita la guerra di Troia non ricordo a cura di Giorgio Linguaglossa (Roma, Progetto Cultura, 2016)

 

 

Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

 

 Il «passaggio», per Heidegger, è un Um-Weg, una via indiretta, contorta, ricca di andirivieni, di anfratti, di buche, un cunicolo sotterraneo che non si vede ma che c’è, nascosto dal folto della vegetazione delle merci linguistiche. Nella situazione storica  della poesia italiana dagli anni settanta ad oggi è avvenuto questo: che un poeta della generazione venuta dopo quella di Pasolini (nato nel 1922) come Anna Ventura (nata nel 1936), nel breve arco di anni che separa la morte di Pasolini nel 1975 dall’esordio poetico della Ventura nel 1978, si è compiuto in Italia un vero e proprio genocidio della poesia, ma non perché i poeti siano morti ammazzati quanto perché i poeti sono stati costretti a sopravvivere in una sorta di stato sonnambolico o catatonico di morte apparente e di vita apparente.  Nella situazione degli anni settanta-ottanta ad un poeta che vivesse in periferia e che non fosse allineato con gli slogan delle parole d’ordine di allora di Roma e di Milano non era concesso udienza o attenzione. Questo va detto per spiegare il fatto di come la poesia della Ventura non  sia stata recepita e, tranne alcune eccezioni di riguardo, resterà inesplorata. Ecco la ragione che ha costretto la Ventura ad imboccare una via laterale, un Umweg, ed a percorrere un lungo tragitto esperienziale e stilistico per giungere fino a noi con il suo «nuovo» vestito degli ultimi due decenni.

 

Tuttavia, percorrere un Umweg per raggiungere un luogo non significa girarvi attorno invano, allungare il percorso – l’Umweg non è un Irrweg (falsa strada) e nemmeno un Holzweg (sentiero che si interrompe nel bosco), un sentiero interrotto – è una strada che comprende in sé una innumerevole quantità di altre strade diverse. È questo, penso, l’accezione che vorrei dare a queste poesie inedite di Anna Ventura. La poetessa abruzzese ha dovuto percorrere, fin da Brillanti di bottiglia, l’opera d’esordio del 1978, una gran quantità di strade comunali e di stradine laterali prima di immettersi nel grande alveo della poesia europea. Il lunghissimo tragitto non è accaduto per caso, è stato necessitato dalla oggettiva situazione di inflazione linguistica di poliscritture che si è verificata in Italia a partire dagli anni settanta fino ai giorni nostri ma non soltanto perché la «dritta via» era smarrita, oscura e impenetrabile, quanto perché nel mondo mediatico di oggi quella «via», come scriveva Wittgenstein, è una via «permanentemente chiusa». Non v’è alcuna strada, maestosa e tranquilla, come nell’epos omerico e ancora in Hölderlin e Leopardi, che sin da subito mostra la «casa», il luogo dal quale direttamente partire per ritrovare la patria da dove gli dèi sono fuggiti per sempre. Gli dèi sono stati dimenticati, e anche di «dio» se ne sono perse le tracce, non se ne sa più niente, ed oggi è una questione che interessa gli speleologi e gli archeologi. Oggi non c’è più una «siepe» che delimita lo sguardo, non c’è più qualcosa di solido che ostruisce l’ingresso e il viaggio, tutte le vie sono possibili e compossibili, statisticamente tutte le vie sono interscambiabili perché tutte condurranno, alla fine dei tempi, a Roma, alla mancanza di un fondamento stabile. C’è questa chiaroveggenza nella poesia di Anna Ventura che con il passare degli anni e dei decenni diventa sempre più consapevole. La tradizione nelle nuove condizioni della società mediatica, si allontana sempre più velocemente. Ed ecco che in queste poesie inedite che presentiamo, la poetessa può affermare con candore e semplicità «Siete qui, maestri/ Ascoltati ieri… Finalmente so… La barbarie che è fuori la porta/ Non mi fa più paura./ Attraverso un tempo lunghissimo,/ oltre lo spazio stretto del reale,/ oggi siete chiarissimi/ concreti».

 

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

 

Nel «nuovo» mondo di oggi «i maestri» sono scomparsi irrimediabilmente e la poesia è diventata una questione «privata», una questione privatistica da regolare con il codice civile e da perorare con un linguaggio polifrastico, un linguaggio «interno» che ammicca ad un «metalinguaggio» o «superlingua» qual è diventata la poesia che va di moda oggi. La questione «tradizione» oggi non fa più questione. I linguaggi poetici sono metalinguaggi  prodotto di proliferazione di altri linguaggi polifrastici. Oggi un critico di qualche serietà non avrebbe nulla da dire di questi linguaggi polifrastici o polinomici. Rispetto a tali linguaggi la poesia della Ventura spicca per la sua «nudità», è un linguaggio «nudo» in quanto indifeso, non è un metalinguaggio è un linguaggio.

 

In un suo saggio su Pasolini, la Ventura ricorda il parere di Moravia:

 

«Le idee di Pasolini sull’imborghesimento universale e sulla svolta antropologica del consumismo non derivavano da un’osservazione oggettiva della realtà sociale; ma erano l’espressione di un mito con il quale lui con gli anni aveva finito per identificarsi: il mito della età dell’oro della cultura contadina.

 

…Era inutile che io, per esempio, gli dicessi che i mali di Italia venivano non già dall’industrializzazione e dal consumismo… che, insomma, l’Italia lungi dall’essere distrutta dall’industria non era abbastanza industrializzata e lungi dall’essere troppo consumista, non consumava abbastanza; era inutile, cioè mettergli sotto gli occhi il Paese reale: lui vi sovrapponeva subito il suo mito e facilmente mi dimostrava che la mia diagnosi andava capovolta e che tutto il male dell’Italia veniva dal suo, ahimé, così effimero e ristretto benessere. Adesso mi si chiederà come mai questa razionalizzazione sia pure geniale di un mito letterario e poetico abbia incontrato tanto favore.

 

Penso che il successo della presa di posizione di Pasolini sia dovuto al momento storico in cui si è fatto avanti come polemista.

 

Egli ha interpretato la nostalgia di tanti italiani per una età dell’oro situata in un passato imprecisabile ma sicuramente agrario, nostalgia peraltro fatta soprattutto di sgomento di fronte al colossale fallimento storico di questo Paese come Paese moderno».1

 

È emblematica questa attenzione della Ventura per un poeta da lei tanto dissimile. Solo quattordici anni separano le date di nascita di Pasolini da quella della Ventura, ed è in questi anni che si consuma il divario tra la vecchia Italia contadina e la nuova che sta vivendo la sua industrializzazione a tappe forzate.

 

In un certo senso è qui il segreto della cifra stilistica della poesia venturiana: la poetessa abruzzese ha vissuto nella nuova Italia della industrializzazione compiuta e del post-sperimentalismo, nel momento in cui il post-moderno era già in via di esaurimento e stava venendo alla luce una società che voleva a tutti chiudere la parentesi della modernizzazione accelerata. Il suo stile segna una sorta di ritorno alla semplicità del pensiero poetante dopo la ubriacatura del post-sperimentalismo e le vezzosità della poesia agrituristica e delle adiacenze dell’io che prenderà piede in Italia già durante gli anni ottanta e che continua fino ad oggi.

 

Giorgio Linguaglossa
[
Redazione della rivista Officina, Pasolini e Fortini, due scomodi compagni di strada]

 

La Ventura ritorna ad una poesia fatta di «cose», di «res».

 

Scrive Remo Bodei:

 

«Qualcosa… avviene nel nostro rapporto con le cose, specie nel campo dell’arte. Sul suo esempio, la filosofia è stata chiamata a comprendere la trasformazione degli oggetti in cose, a restituire loro l’eccedenza di senso sottratta dall’usura dell’abitudine e dallo sguardo oggettivante. Entrambe, arte e filosofia, combattono quindi la desemantizzazione cui il nostro mondo quotidiano, ridotto a “deserto del reale”, è stato sottoposto e invitano, nello stesso tempo, a rinvenire nelle cose quell’aura che ce le avvicina, pur mantenendone la distanza [cfr. Benjamin 1966, 23-24].


È ora possibile intendere il territorio della fantasia artistica come atopia, luogo inclassificabile, irriducibile allo spazio della res extensa, che non appartiene né al dominio della realtà assoluta, e a quello – che ne è l’opposto speculare – dell’utopia, del non-esistente per definizione. È una zona insituabile in cui il desiderio, cognitivo e affettivo insieme, trova il suo più intenso appagamento (almeno per quel tempo limitato della “domenica della vita” in cui Hegel aveva racchiuso la fruizione dell’arte, sottraendola ai giorni feriali del lavoro e delle preoccupazioni dell’esistenza). Si manifesta in essa la paradossale lontananza prossima rappresentata dalla “patria sconosciuta”, di cui parlano Plotino e Novalis, o quell’arrière-pays intravisto da Yves Bonnefoy, spazio simbolico in cui non siamo mai stati, ma che ci sembra di conoscere da sempre…»2]

 

È lecito affermare che la migliore poesia contemporanea si occupa di «cose» e non di «oggetti»? È lecito dire, più in particolare, che il luogo della poesia sia in quel limen che divide gli «oggetti» dalle «cose» e che ci racconta il misterioso tragitto che trasforma gli «oggetti» in «cose»?  Anna Ventura in una sua poesia scrive che dobbiamo mantenere «la distanza dalle cose», ed è vero, dobbiamo difenderci da un infoltimento di «cose» ma dobbiamo al contempo anche sollecitare in qualche modo questo «ritorno delle cose», perché soltanto esse ci possono parlare, anche se in una lingua che non comprendiamo; le «cose» possono dirci qualcosa di significativo che la merceologia dei discorsi comuni tende ad oscurare. In qualche modo, tutta la poesia della nuova ontologia estetica si trova lungo questa linea di consonanza con il linguaggio delle «cose». Le «cose» stanno lì a guardarci dal loro luogo atopico, ci parlano e ci parlano, ci fanno intravvedere una eccedenza di senso, ci familiarizzano con un ordine simbolico che conferisce significato alla nostra esistenza. In questa direzione, la lettura della poesia di Anna Ventura ci sorprende per l’acutezza con cui ha saputo indagare in tutta la sua opera il luogo delle «cose» e la loro lingua misteriosa.

 

1] A. Ventura La multiforme unità di Pasolini, Quaderni di Rivista Abbruzzese, 8, Lanciano, 1977, p. 15

 

2] Remo Bodei, La vita delle cose, Laterza, 2009, pp. 86-87

 

Giorgio Linguaglossa

[Finalmente so/ che cosa mi avete insegnato./ Siete nella tazza di caffè/ vuota sul tavolo,/ nelle carte
sparse, nel cerchio/ di luce della lampada]

 

 

Poesie inedite di Anna Ventura
I MAESTRI

Siete qui, maestri
Ascoltati ieri
col timore rapace
dell’ultimo dei discepoli.

 

Finalmente so
che cosa mi avete insegnato.
Siete nella tazza di caffè
vuota sul tavolo,
nelle carte sparse, nel cerchio
di luce della lampada.

 

La barbarie che è fuori la porta
Non mi fa più paura.
Attraverso un tempo lunghissimo,
oltre lo spazio stretto del reale,
oggi siete chiarissimi,
concreti.

 

Tutta l’erba del mondo

 

Disperdere la nuvolaglia
addensata per anni sul mio capo
da pazienti artefici del grigio
è impresa
da non tentare nemmeno.

 

Però per me
una foglia verde
coi mobili orli trinati
è ancora
tutta l’erba del mondo.

 

La natura è la mosca
che a piccoli passi percorre
ostinata la costa del quaderno,
poi al margine si volta 
e torna indietro,
la passeggiata è finita.

 

Tu quoque

 

Cesare nei boschi nordici, d’inverno.
Dorme poco, mangia niente;
se non combatte, scrive. La parola
si affila come un’arma. Come un’arma
è infallibile. Cesare sa
che sarà il padrone del mondo,
ma ora è solo,
nel bosco innevato. Le guardie
dormono, il fuoco
si va spegnendo in piccole lingue
rosse e gialle. Cesare
non ha rimorsi,
non ha rimpianti,
non ha paura. Ma a Roma,
nelle quiete stanze
di una casa patrizia,
lì dove si aggrumano
tutti i rimorsi,
tutti i rimpianti,
tutte le paure,
lì dove il condottiero
nessun pensiero indirizza,
lì un pugnale si affila.

 

In nome dello spirito

 

“E parlerai a tutti quelli che hanno sapienza in cuore,
i quali ho ripieni di spirito d’intelligenza”
(Es.28,2)
Questi piccoli fogli bruceranno
Con tutto il resto, se è già scritta
L’ora dello sterminio. Ma,
poiché ancora ci è data la parola,
pronunciamo il dissenso.

 

La neve di ovatta

 

Da bambina accendevo
le candeline vere
sull’alberello vero;
ci mettevo anche la neve di ovatta,
col rischio di bruciare la casa;
la stufa di terracotta emanava 
un calore buono, mentre,
fuori,
l’aria tagliava come una lama.
Oltre i vetri incrostati di ghiaccio,
c’era il cielo, carico di stelle ;qualcuna, 
ogni tanto, si staccava,
precipitava verso la terra buia.
Aspettavo di crescere,
aspettavo di non essere più bambina 
per uscire da quella prigione di ghiaccio.
Il viaggio è stato
più lungo del previsto.

Tu ne quaesieris

Il Poeta sedeva ancora a tavola,
all’aperto,
dopo la sobria cena;
un coniglio uscì dalla cucina,
corse verso la campagna. Un bambino
piccolissimo lo seguì,
nell’illusione di raggiungerlo. Poi,
sempre dalla cucina,
uscì la madre del bambino,
corse tanto da riacciuffare entrambi. Ora
tornava indietro, il terzetto; la madre
salutò il padrone, con un piccolo inchino 
grazioso, forse un invito.
Come era facile, l’amore,
fuori dagli intrighi di Roma!
Troppo facile; Orazio 
avrebbe voluto ben altro. Il Soratte
dormiva il suo sonno millenario,
il sonno degli avi,
che si aggiravano quieti
intorno a lui, l’erede 
che li avrebbe resi illustri.
E poi c’era l’ombra di Mecenate, mentre
la punta di un coltello girava
nel cuore del poeta, inutile scrivere
sulla tavoletta di non voler sapere,
perché è male sapere. Il cuore
sa sempre tutto, inutile
tentare di ingannarlo.

 

Giorgio Linguaglossa
[Se potessi,/ vorrei un bambino cinese./ La sua umiltà orientale]

 

Il bambino cinese

 

Se potessi,
vorrei un bambino cinese.
La sua umiltà orientale,
trasmessa dai geni della stirpe,
specchiata al mio silenzio occidentale,
conseguito in anni di esercizio.

 

Lui crescerebbe pianissimo
per discrezione e per discrezione anch’io 
invecchierei lentamente.
Come nella favola del crisantemo,
allungheremmo il tempo
sminuzzandolo in petali di fiore.

 

Non avrò mai questo bambino cinese,
ma nel mio spazio lui esiste:
stendo sul piano le sue piccole mani,
leggo nei suoi primi disegni,
gli pareggio la frangia dei capelli.

E non lo mando a scuola:
il fatto che non esista
ci consente questa evasione felice.


Res

 

Res è cosa,
e cosa rimanda 
al ruvido, al grezzo, al colore
paglierino oppure ocra o marrone,
di forma semplice e tonda,
di consistenza solida,
senza odore, a temperatura normale.

 

Cosa è un uovo o una pietra,
un sacco pieno di grano,
un cavallo di legno.
Anche la terra è cosa,
e così la sedia, la ruota,
la brocca di coccio, il sale.
Cosa è la zappa e il falcetto,
la trappola per il lupo e il remo.

 

E così elencando,
per tutta una serie di oggetti
connessi con la vita,
il lavoro e la morte,
il ciclo eterno dell’uomo,
immutabile, inevitabile.

 

Che poi le cose, res,
divengano res gestae, res adversae
o res secundae
ci interessa meno, come 
non ci interessano Cose belle e Cosa Nostra:
l’anima della parola è all’origine,
nel fulcro antico del mondo,
quando la selce fu oggetto e arma,
il fuoco, dono degli dei.


La noce

 

Durante un concerto
si addormentarono tutti;
anche i suonatori.

 

Quando si svegliarono ognuno
Guardò l’orologio e vide
Che erano passate tre ore,
ma nessuno osò confessare la cosa
e tantomeno i sogni che aveva fatti.

 

Solo il bambino che aveva sognato 
di essere una noce
lo disse alla mamma e lei
rispose che sogno più bello
mai era stato fatto.

 

Il mattino seguente
la donna che puliva la sala
trovò una noce
sotto a una poltrona
e se la mise in tasca.

 

Lì la trovò il suo bambino, la prese,
la mangiò e la trovò buonissima.
Quella noce fu l’unico pegno
Che il tempo lasciò per tre ore
Rubate a quei nobili spiriti
Raccolti nella conchiglia sonora
Di un caldo Auditorium,
fu l’unico oggetto
sottratto al mondo dei sogni
di un bambino da un altro bambino.


Il poeta

 

Capriccioso Nerone,
maleavvezzo. Non ci fu Seneca
capace di piegarlo. Fece uccidere 
sua madre, che pretendeva che le fosse figlio.
Incendiò Roma
perché era una città 
perfetta per bruciare.
Una cosa sola voleva:
essere detto poeta.
Per la stessa ambizione,
la storia registra
crimini altrettanto efferati.

 

Le rose

 

La monaca Tasia
litigò col vescovo
circa l’uso della sua dote:
lei la voleva dare ai poveri, lui,
al potere temporale. Tasia chiese
di riavere la dote.
“Te la restituisco – disse il vescovo –
se mi fai subito un miracolo.”
Era inverno e il roseto languiva
sotto un palmo di neve. 
Tasia sfiorò appena i rami secchi
con la sua manina,
e le rose fiorirono tutte,
rosse in campo bianco.
Il vescovo ci rimase male.


Il mare è una coperta nera

 

Il mare è una coperta nera
con le frange bianche di schiuma
che lambiscono la sabbia. La sabbia
è scura, bagnata, percorsa
da cani e gallinelle di mare. Già il Gran Sasso
è carico di neve,
tra poco le colline verdi
si strieranno di bianco 
come zebre. Non ricordare 
gli inverni dell’infanzia,
tanto tristi da lasciare il segno:
sette paia di scarpe di ferro ho consumate
per arrivare a questo approdo,
un dono della malasorte.

 

Uscire

 

Uscire dal labirinto
di siepi di bosso,
tutte ben pettinate.
Uscire dalle sabbie mobili,
nella consapevolezza
che nessuno ti offrirà il braccio
per fare il salto sull’asciutto. Uscire
dall’illusione facile,
dal “noli me tangere” degli eletti,
dalla superbia dei rapporti esclusivi.
Uscire perché la verità è altrove,
ed è fatta di cose solide e semplici,
alla portata di ognuno.
Ma chi ha detto
che si vuole uscire?

 

Petronio Arbiter     

 

L’Arbiter sapeva

di essere in pericolo,

e non se ne curava; sapeva

che, comunque, la morte arriva,

né temeva un’anticipazione;

 ma lo disgustava l’idea 

di una violenza brutale, 

di una mano sporca

che lo avrebbe trafitto

con un pugnale

 forse già insanguinato. Perciò,

meglio morire per propria scelta,

a banchetto, tra parole leggere.

Forse aveva ragione Trimalcione,

che nel suo epitaffio,

dove si definisce

“pio, forte e fedele”, avverte:

“Non ascoltò mai un filosofo”

L’Arbiter  amava quella creatura

nata dalla sua fantasia inquieta:

così lontana da lui,

così vicina alla terra.

 

In fondo, in fondo    

 

La Sibilla lasciò l’antro di accesso,

si inoltrò nel corridoio lungo.

In fondo, in fondo,

stava la sua tana. Lì

preparava le foglie

e le metteva nel cestino.

Quel giorno era infuriata con Apollo,

che se ne stava nel Tempio,

lì vicino,

dove era tutto uno splendore.
Che umidità, invece, nella sua tana buia,

assediata dall’erba e dai rovi.

Quel giorno, sulle foglie,

scrisse una cosa bruttissima :                .

“Guardatevi dall’amore”.

Ma poi che Apollo,

per mezzo di un piccione,

le inviò in dono un fiore,

la Sibilla tornò di buon umore,

e sulle foglie scrisse:

“Non abbiate paura”.

 

Noli me tangere

 

L’auriga di Delfi,

col suo broncio di bravo ragazzo

appena uscito dalle mani di sua madre,

non sa di essere tanto bello,

né, forse, tanto valente.

La tunica che lo ricopre

fino ai piedi perfetti,

simile a una colonna dorica,

è il “noli me tangere”

di chi appartiene al destino.