Intervista di Donatella Costantina Giancaspero a Giorgio Linguaglossa – Ho letto il tuo libro Critica della ragione sufficiente, ti chiedo: è scomparsa la critica militante? 1) Ha senso, a tuo avviso, la linea dicotomica tracciata da Gianfranco Contini: La componente innica e quella elegiaca del Novecento? 2) La Nuova Ontologia Estetica? 3) Il Grande Progetto?

Giorgio Linguaglossa

 

Domanda: Ho letto il tuo libro, Critica della ragione sufficiente (verso una nuova ontologia estetica (Progetto Cultura, 2018 pp. 512 € 21), un lavoro monumentale di indagine ermeneutica sulla poesia italiana e sui nuovi orientamenti della «nuova ontologia estetica». Perché quel titolo?

 

 Risposta: Ho scritto nel retro di copertina del libro:

 

«Critica della ragione sufficiente, è un titolo esplicito. Con il sotto titolo: verso una nuova ontologia estetica. Uno spettro di riflessione sulla poesia contemporanea che punta ad una nuova ontologia, con ciò volendo dire che ormai la poesia italiana è giunta ad una situazione di stallo permanente dopo il quale non è in vista alcuna via di uscita da un epigonismo epocale che sembra non aver fine. I tempi sono talmente limacciosi che dobbiamo ritornare a pensare le cose semplici, elementari, dobbiamo raddrizzare il pensiero che è andato disperso, frangere il pensiero dell’impensato, ritornare ad una ragione sufficiente. Non dobbiamo farci illusioni però, occorre approvvigionarsi di un programma minimo dal quale ripartire, una ragione critica sufficiente, dell’oggi per l’oggi, dell’oggi per ieri e dell’oggi per domani, un nuovo empirismo critico. Ecco la ragione sufficiente per una nuova ontologia estetica della forma-poesia: un orientamento verso il futuro, anche se esso ci appare altamente improbabile e nuvoloso, dato che il presente non è affatto certo.»

 

Domanda: Subito un grande problema: ha cessato di esistere la critica militante della poesia?

 

Risposta: Il problema della critica militante di poesia è un problema serio. Sono ormai cinquanta anni che non abbiamo più un linguaggio critico, l’ultimo rappresentante in poesia in possesso di un linguaggio critico è stato Franco Fortini scomparso nel 1995, dopo di lui c’è stato il vuoto. S’intende che continua a sopravvivere il linguaggio critico della critica accademica, ma quello è un’altra cosa, rispettabilissima cosa ma diversa; continua ad esistere il linguaggio delle pagine culturali e informative del Sole 24 ore e del Corriere, ma quello è un’altra cosa, è un linguaggio informativo che svolge un’altra funzione, una funzione appunto informativa.
È per questo che io ho dovuto forgiarmi, quasi da solo, un linguaggio critico “nuovo” prendendolo a prestito da altre discipline: la filosofia, la psicologia, la psicanalisi, la narrativa, il linguaggio giornalistico, la psicofilosofia… ho fatto un mix di tutti questi linguaggi, e ne è derivato il mio (personalissimo) linguaggio critico che qualcuno ha definito «inventato»; e in effetti lo è, perché un linguaggio lo si «inventa», proprio come si inventano tante altri prodotti, non lo si trova già bell’è fatto..

 

Un’ultima considerazione: quando una forma d’arte rimane senza pubblico (come è avvenuto alla poesia italiana degli ultimi cinquanta anni), è inevitabile che si perda anche la memoria storica di ciò che è stato il linguaggio critico: si perde la memoria storica del linguaggio critico, quel linguaggio, dicevo, cessa semplicemente di esistere.

 

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

 

DomandaRiprendo uno stralcio dell’ampia discussione che ha avuto luogo in questo blog tra il 21 e il 29 dicembre scorso sulla vexata quaestio de “La componente innica e quella elegiaca del Novecento secondo Gianfranco Contini” e “la cartografia della poesia italiana del Novecento”. Ripartiamo da Gianfranco Contini, perché a mio avviso è qui che si concentrano, come in nuce, tutte le questioni: linguaggio, stile, canoni, modelli rappresentativi che avranno una ricaduta sulla poesia italiana del secondo Novecento determinandone gli esiti, fino ai giorni nostri, ad esempio nella indicazione della «linea elegiaca dominante» nella poesia italiana e la canonizzazione di Montale quale poeta strategico del novecento. Tu di recente hai proposto la linea del «discorso poetico» che permetterebbe di considerare il ruolo positivo svolto da poeti come Pasolini con Trasumanar e organizzar (1971), Angelo Maria Ripelllino, Edoardo Sanguineti, Alfredo de Palchi, Helle Busacca, fino a Maria Rosaria Madonna, il che consentirebbe una rivalutazione di un poeta come Aldo Palazzeschi che altrimenti verrebbe sacrificato dalle strette maglie della «linea elegiaca». In quest’ottica, se non sbaglio, la proposizione della nuova ontologia estetica verrebbe ad occupare una posizione centrale.

 

Risposta: Scrivevo il 21 dicembre 2015 alle 11:42 su questa rivista: «Tra le cartografie della poesia italiana del Novecento, ve n’è una che gode di un prestigio particolare, perché è stata stilata da Gianfranco Contini. La caratteristica essenziale di questa mappa è di essere incentrata su Montale e sulla linea per così dire “elegiaca” che culmina nella sua poesia. Nel segno di questa “lunga fedeltà” all’amico, la mappa si articola attraverso silenzi ed esclusioni (valga per tutti, il silenzio su Penna e Caproni, significativamente assenti dallo Schedario del 1978), emarginazioni (esemplare la stroncatura di Campana e la riduzione “lombarda” di Rebora) e, infine, esplicite graduatorie, in cui la pietra di paragone è, ancora una volta, l’autore degli Ossi di seppia (1925). Una di queste graduatorie riguarda appunto Zanzotto, che la prefazione a Galateo in bosco(1956) rubrica senza riserve come “il più importante poeta italiano dopo Montale” (…) Riprendendo un cenno di Montale, che, nella recensione a La Beltà (1968), aveva parlato di “pre-espressione che precede la parola articolata”, di “sinonimi in filastrocca” e “parole che si raggruppano per sole affinità foniche”, la poesia di Zanzotto viene definita nello Schedario nei termini privativi e generici di “smarrimento dell’identità razionale” delle parole, di “balbuzie ed evocazione fonica pura”; quanto alla silhouette “affabile poeta ctonio”, che conclude la prefazione, essa è, nel migliore dei casi, una caricatura. (…)

 

L’identificazione di una linea elegiaca dominante nella poesia italiana del Novecento, che ha il suo culmine in Montale, è opera di Contini. Di questa paziente strategia, che si svolge coerentemente in una serie di saggi e articoli dal 1933 al 1985, l’esecuzione sommaria di Campana, il ridimensionamento “lombardo” di Rebora e l’ostinato silenzio su Caproni e Penna sono i corollari tattici. In questo implacabile esercizio di fedeltà, il critico non faceva che seguire e portare all’estremo un suggerimento dell’amico, che proprio in Riviere, la poesia che chiude gli Ossi, aveva compendiato nell’impossibilità di “cangiare in inno l’elegia” la lezione – e il limite – della sua poetica. Di qui la conseguenza tratta da Contini: se la poesia di Montale implicava la rinuncia dell’inno, bastava espungere dalla tradizione del Novecento ogni componente innica (o, comunque, antielegiaca) perché quella rinuncia non apparisse più come un limite, ma segnasse l’isoglossa al di là della quale la poesia scadeva in idioma marginale o estraneo vernacolo (…) Contro la riduzione strategica di Contini converrà riprendere l’opposizione proposta da Mengaldo, tra una linea “orfico-sapienziale” (che da Campana conduce a Luzi e a Zanzotto) e una linea cosiddetta “esistenziale”, nella polarità fra una tendenza innica e una tendenza elegiaca, salvo a verificare che esse non si danno mai in assoluta separazione.»1]

 

1] Giorgio Agamben in Categorie italiane, 2011, Laterza p. 114

 

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

 

Ecco, io vorrei dire che tra gli stereotipi più persistenti che hanno afflitto i geografi (e i geologi) della poesia italiana del secondo Novecento, c’è quello della ricostruzione dell’asse centrale del secondo Novecento a far luogo dalla poesia di Zanzotto, già da Dietro il paesaggio (1951) fino a Fosfeni (1983). Di conseguenza, far ruotare la poesia del secondo Novecento attorno al «Signore dei significanti» come Montale ebbe a definire Zanzotto, dal punto di vista di fine secolo può considerarsi un errore di prospettiva. Ma se rovesciamo il punto di vista del secondo Novecento con cui si guarda alla geografia del primo, Campana appare come il poeta nella cui opera vengono a confluire i due momenti: quello innico e quello elegiaco.

 

Riprendo un mio Commento in margine al post dedicato alla “Cartografia della poesia italiana del Novecento”, perché è importante scalzare la visione dicotomica del Contini. Non dobbiamo farci abbagliare dalla sua formula dicotomica, anche perché da questa formula dicotomica sono esclusi poeti di livello europeo come Palazzeschi, Ripellino, Helle Busacca, Maria Rosaria Madonna e Alfredo de Palchi, cioè quei poeti che percorrono un tipo di poesia che non coincide con nessuno dei due tipi indicati da Contini, cioè né con la linea innica né con la linea elegiaca. È importantissimo tenere questo distinguo. Anzi, è vero il contrario: sia la linea innica che quella elegiaca sono laterali rispetto alla linea di quei poeti che hanno percorso la linea del Discorso Poetico di stampo modernistico. Ed è proprio qui, è a questa linea modernistica della poesia italiana che io vorrei riallacciare la «Nuova Ontologia Estetica» di cui sono rappresentanti i poeti della redazione oltre ad altri poeti e che vede impegnati in questa ricerca i migliori poeti contemporanei.

 

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

 

Domanda: Quindi la questione della «forbice» tra «poesia innica» e «poesia elegiaca» è un falso problema?

 

Risposta: La questione della «forbice» tra la componente «innica» rappresentata da Dino Campana e quella «elegiaca» impersonata da Montale, rientra in una una visione tattica e strategica di Contini, il quale era interessato, per motivi «politici» a privilegiare la seconda componente e a dimidiare la prima. Ma il problema è che questa visione dualistica è stata architettata da Contini proprio per obbligare a schierarsi o di qua o di là; ma non corrisponde al vero, o, almeno, non esaurisce il problema delle conflittualità delle  linee portanti della poesia italiana del Novecento.

 

Il punto di vista di Contini, non è da privilegiare, ma da ribaltare. Ed è quello che io ho tentato di fare con il mio libro titolato Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana 1945-2010 (EdiLet. 2011), di cui sto preparando la seconda edizione che conterrà  novità e approfondimenti. A mio parere, la poesia del secondo Novecento (e, di conseguenza anche del primo) va vista da questa prospettiva: la progressiva trasformazione della “lirica” in “Discorso poetico”, ergo l’abbassamento del linguaggio poetico al piano del parlato e lo spostamento delle tradizionali tematiche paesaggistiche in direzione delle tematiche urbane, psicologiche ed esistenziali.

 

DomandaApplicando questa prospettiva alla poesia italiana del secondo Novecento, vedremo dissolversi la linea cosiddetta «elegiaca» di continiana memoria. Ecco come Agamben riassume la questione: «L’identificazione di una linea elegiaca dominante nella poesia italiana del Novecento, che ha il suo culmine in Montale, è opera di Contini».

 

Risposta: L’indicazione della Linea dominante dell’elegia post-montaliana di Contini è un atto critico che, come tale si può, anzi, si deve ribaltare nell’altra «Linea» da me proposta: dalla lirica al discorso poetico. In questa prospettiva, i valori assodati da Contini saltano in aria, come quel giudizio di Contini di Zanzotto considerato come il «più grande poeta dopo Montale». Dal mio punto di vista, invece, Zanzotto è stato il più abile rappresentante dello sperimentalismo del secondo Novecento che trova il suo apice ne La Beltà del 1968. Dopo quella data lo sperimentalismo italiano entra in crisi irreversibile, le «isoglosse» e le isoipse di continiana memoria vanno a farsi benedire. Oggi è chiaro che non c’è più una Linea dominante, oggi si assiste alla polverizzazione dei «modelli», alla disseminazione dei «canoni». Fenomeno squisitamente post-modernistico.

 

Al momento, siamo ancora dentro questo grande rivolgimento dei linguaggi poetici, all’interno del più grande rivolgimento costituito dalla moltiplicazione delle emittenti linguistiche e segniche del villaggio globale. Insomma, per farla breve, credo che non sia un caso la disseminazione dei linguaggi poetici e che essa sia avvenuta in contemporanea con l’emergere di una economia planetaria interdipendente tra tutti i paesi del globo.

 

Il Logos poetico non può non avvertire al suo interno questo gigantesco processo extralinguistico. 

[vedi anche]

 

https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/03/23/intervista-di-donatella-costantina-giancaspero-a-giorgio-linguaglossa-sulla-sua-monografia-critica-la-poesia-di-alfredo-de-palchi-quando-la-biografia-diventa-mito-edizioni-progetto-cultura-r/comment-page-1/#comment-18852

 

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

 

Domanda: Cito dal libro di Alfonso Berardinelli Casi critici. Dal postmoderno
alla mutazione (Quodlibet, 2007); a pag 37, c’è scritto:

 

«… la nostra poesia (con Montale, Luzi, Bertolucci, Caproni, Sereni, Penna, Zanzotto, Giudici, Amelia Rosselli) è stata fra le migliori in Europa; ma poi (salvo eccezioni) ha perso libertà e pubblico. – E commenta – un’arte senza lettori deperisce o si trasforma in una specie di pratica ascetica, con tutto il suo seguito di comiche devozioni e perversioni».

 

Berardinelli accenna al vero problema: Ma se la poesia italiana è stata fra le migliori d’Europa, come è accaduto che quest’arte ha perso pubblico e credito? –

 

C’è qualcosa che non va in questo ragionamento».

 

Qual è la tua opinione: è stata veramente «tra le migliori d’Europa?», o si tratta di un luogo comune ripetuto per mera vanagloria?

 

Risposta: Berardinelli ha perfettamente ragione a riproporre la vera questione della minoritarietà in ambito europeo della poesia italiana del tardo Novecento e dei giorni nostri.

 

Il problema c’è, è vistoso, ma bisogna andare alla radice dei problemi, non far finta di non vederli, mettere la testa nella sabbia come gli struzzi. Noi non siamo struzzi, il vero impellente problema è la ricostruzione del linguaggio poetico italiano secondo un Grande Progetto o, se vuoi, una «nuova piattaforma concettuale», quella che noi abbiamo chiamato La Nuova Ontologia Estetica. Chi vuole informarsi in proposito non ha che da cliccare su questa rivista gli articoli che abbiamo postato. Qui posso dire soltanto che  nella «Nuova poesia», non c’è una direzione stabilita a priori, compiuta, totale e totalizzante, non c’è una direzione unidirezionale. La direzione la si costruisce nel mentre si decostruisce la poesia italiana del secondo e tardo novecento. Oggi non si dà una via unica, la poesia non è una scuola con apprendisti stregoni e allievi, non c’è un sentiero prestabilito, non è di un nuovo «canone» che noi vogliamo parlare, quelle sono parole d’ordine vecchia maniera, qui si tratta di un nuovo modo di concepire la scrittura poetica: una molteplicità di compossibilità, non si dà nessuna gerarchia tra i singoli indirizzi. Scopo della Nuova Ontologia Estetica è quello di mettere in evidenza nel linguaggio poetico che l’esistenza vive di scarti, di vuoti, di fratture, di discontinuità, che le aporie sono di casa, e anche le contraddizioni, che le contraddizioni stilistiche, anche all’interno di un componimento, sono una ricchezza non un difetto, che bisogna respingere le strutture ideologiche che perorano un canone, qualsiasi canone, piuttosto occorre essere consapevoli che l’unità posticciamente intenzionata da un concetto «totalitario» di poesia conduce ad un concetto di poesia minoritario, acritico.

 

La nuova poesia e il nuovo romanzo si trovano in una situazione di disseminazione stilistica. La decostruzione è una conseguenza del pensiero filosofico di Martin Heidegger. Infatti, il disegno della seconda sezione di Sein und Zeit (1927) – rimasta alla fase di mera progettazione, per la caratteristica inadeguatezza del linguaggio della metafisica – suonava come una «distruzione della storia dell’ontologia» in nome di una ontologia fenomenologica capace di assumere di «lasciar/far vedere il fenomeno per come esso si mostra» (Derrida) – a far luogo da un linguaggio rinnovato alla radice (ripensato), filosoficamente (nell’accezione ordinaria del termine) scandaloso.

 

DomandaSecondo te, quando ha avuto inizio questo «blocco» che ha colpito la poesia italiana del secondo Novecento?

 

Risposta: Rispondo con la citazione di un brano del mio libro “Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana (1945-2010)” EdiLet, Roma, 2011 pp. 380 € 16:

 

«La rivoluzione linguistica (e «simbolica») delle masse è un portato della diffusione di massa della televisione. La rivoluzione linguistica (e simbolica) è, di fatto, una controrivoluzione capitanata dalla televisione. E con la televisione, ecco l’invasione delle lavatrici e delle automobili. Ecco l’invasione delle merci di massa. È una grande «rivoluzione» dei costumi e del simbolico quella che il Moderno annuncia. E con essa arriva l’omologazione e la ribellione delle masse giovanili del ’68. E la poesia come reagisce a questi avvenimenti eccezionali? Nei suoi esponenti più intelligenti e sensibili la poesia italiana accusa il colpo: con il crollo del post-ermetismo si dissolve una intera infrastruttura della figuralità che corrispondeva ad uno stadio pre-industriale dello sviluppo economico; crolla l’idea che la poesia possa soggiornare e sopravvivere in una zona eburnea, di separatezza dal mondo, al riparo da quegli avvenimenti che stanno cambiando il corso della storia.

 

Con il ’68 anche la poesia viene fatta bersaglio della contestazione giovanile, anch’essa viene vista come una «sovrastruttura» organicamente connessa con il sistema di potere della «borghesia». Ma in Italia accade un fatto bizzarro: la contestazione giovanile viene a confondersi e a sovrapporsi allo sperimentalismo linguistico; di più, alla fine degli anni Sessanta lo sperimentalismo assorbirà e surrogherà le spinte centrifughe della contestazione giovanile diventandone il dubbio rappresentante sulla scena politico-letteraria. L’ingresso massiccio e disordinato della prosa entro le asfittiche strutture difensive della poesia è l’effetto più immediato e vistoso di questa contestazione della forma-poesia. Il fenomeno, simile all’effetto di un fiume che rompa gli argini e dilaghi nella città, diventerà nel corso dei decenni successivi una costante tipicamente italiana, raccoglierà nel proprio alveo tutti i ribellismi linguistici che si originano dal ’68. Si verificherà una «stabilizzazione» del ribellismo linguistico.

 

Improvvisamente, un’intera generazione di poeti come Bigongiari, Carlo Betocchi, Luigi Fallacara, Girolamo Comi, Alfonso Gatto, Arturo Onofri, Sergio Solmi, Giorgio Vigolo, Vittorio Bodini, Sinisgalli diventano anacronistici; appaiono, agli occhi della nuova generazione, invecchiati, ancora attestati a moduli stilistici antiquati, con elementi di rigidità stilistica e lessicale dinanzi ad un mondo che nel frattempo si è rapidamente trasformato; esponenti di una poesia considerata evasiva, generica e genericizzante, criticamente agnostica e virtuosa, stilisticamente «sublime» e «stupenda». Sarà un poeta della generazione degli anni Dieci, Giorgio Caproni a fare i conti con il Moderno con Congedo del viaggiatore cerimonioso (1965) e con Il Conte di Kevenhüller (1986), ad aprire la via ad una poesia post-moderna che ha fatto i conti con la poesia simbolistica e che prende le distanze dalle coeve teorizzazioni della parola-segno. Un discorso poetico, quello di Caproni, che si interroga sulle ragioni della propria sopravvivenza, fitto di interrogazioni sul principiale: può la parola poetica sopravvivere? È la prima apparizione nella poesia italiana di una tematica nichilistica: il tema del Doppio, dell’Estraneo.»1]

 

1] Giorgio Linguaglossa Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000-2013), 2013 Società Editrice Fiorentina, pp. 148 € 14.

 

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

 

Domanda: Caproni è un poeta in bilico tra il vecchio e il nuovo?

 

Di fatto, la strada aperta da Caproni rimarrà impraticata, la direzione di ricerca aperta dal poeta toscano resterà un sentiero interrotto, almeno fino alla fine degli anni Novanta quando la tematica del nichilismo e dell’esistenzialismo verrà proseguita da poeti come  Roberto Bertoldo, Anna Ventura, Mario Gabriele con la teorizzazione e la pratica di una poesia «nullista», consapevole di trovarci nel «post-contemporaneo», per usare le parole di Bertoldo; si fa viva la percezione di una poesia che accetta la scommessa dell’eredità del novecento. In tal senso, sono emblematici i nomi di Anna Ventura e di Gabriele, poeti che hanno accettato di portare sulle spalle il peso del novecento per riconvertirlo in una forma-poesia adatta ai tempi nuovi.

 

Domanda: Con Caproni e Bertolucci la poesia del novecento si esaurisce?

 

Contrariamente alla opinione di Paolo Lagazzi il quale ritiene Attilio Bertolucci il più grande poeta del Novecento italiano, io penso che la poesia di Attilio Bertolucci sia di secondaria importanza perché è rimasta estranea alla cultura del modernismo europeo (in pratica la lezione di Eliot e Mandel’stam). Caproni, invece, è stato tra i pochissimi tentare una poesia di tipo nuovo ma non ha trovato una soluzione stilistica, una nuova forma-poesia e il suo tentativo è rimasto a mezzo del guado: non una poesia ancorata alla «linea elegiaca» e non ancora una poesia del «discorso poetico». Caproni aveva intravisto la nuova tematica ma non possedeva ancora il nuovo metro, continuava ad utilizzare il metro chiuso, il settenario e il novenario quando invece avrebbe dovuto infrangere quel metro che sapeva di ritornello ed adottare il verso libero, il metro a-metrico. Penso che il novecento poetico si chiuda con Composita solvantur  di Franco Fortini del 1995, dopo di allora la poesia italiana assumerà la forma e la sostanza di una «manifattura privata», subentrerà un gergo privatistico con l’io in auto evidenza, una poesia privatistica, e si perderà presso le nuove generazioni finanche la cognizione del carattere pubblicistico della poesia della tradizione. Semplicemente, si farà poesia per un bisogno di espressione privatistico. Il novecento si chiude con l’avvento di un gergo poetico privatistico che giunge fino ai giorni nostri, e che probabilmente si prolungherà anche negli anni futuri.

 

Domanda: Se dovessi spiegare ai lettori la «nuova ontologia estetica», cosa diresti?

 

Rispondo brevemente. La domanda fondamentale che un poeta si deve porre è: Che cos’è l’essere e che cos’è il linguaggio? E qual è il legame che unisce l’essere al linguaggio. Tutte le altre domande sono questioni secondarie, di contorno, e possiamo metterle da parte.

 

Domanda: Perché la «nuova ontologia estetica»?

 

Risposta: Perché ogni nuova poesia è tale se riformula le categorie estetiche pregresse nel quadro di una nuova visione della forma-poesia.

Parlare di «ontologia estetica» è parlare delle parole e del metro; nel linguaggio poetico la prima non si dà senza la seconda, ma è anche vero che ogni nuova poesia rinnova il modo di concettualizzare la «parola» all’interno del «metro».

Il «metro» secondo la nostra idea è una unità di misura di grandezza variabile, dobbiamo uscire fuori da un concetto di «metro» quale unità di misura fissa, statica ma entrare in sintonia con un pensiero che pensa  il «metro» come una entità variabile, dinamica che varia con il variare delle grandezze (anch’esse variabili) che intervengono al suo «interno».

 

La «parola» quindi è una entità per sua essenza variabile (può essere rappresentata come una entità corpuscolare e come entità di frequenza sonora). Dirò, per semplificare, che non v’è un peso specifico costante di una «parola» ma vi sono tanti pesi della «parola» quanti sono i modi del suo manifestarsi all’interno di un «metro». Il «metro» sarebbe quindi una sorta di «onda pilota», o «onda di Bohm», come si dice nella fisica delle particelle subatomiche, un’onda che convoglia al suo interno le particelle che vagano nell’universo.

 

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

 

Domanda: Mi puoi fare degli esempi?

 

Vi possono essere modi molto diversi di intendere questa «onda pilota», in questo concetto ci sta il «tonosimbolismo» della poesia di Roberto Bertoldo, una poesia intersemica e fonosimbolica e la poesia segmentata e frammentaria di un Antonio Sagredo; ci può stare il discorso poetico citazionista di un Mario M. Gabriele, il discorso poetico «caleidoscopico» di Steven Grieco Rathgeb e il mio frammentismo metafisico, ci può stare la ricerca iconica e simbolica di Letizia Leone in Viola Norimberga (2018) e il frammentismo peristaltico dei «poeti nuovi» come Francesca Dono con il suo libro Fondamenta per lo specchio(Progetto Cultura, 2017) e Giuseppe Talia con La Musa Last Minute (Progetto Cultura, 2018). Ciascun poeta porta a questo salvadanaio una piccola monetina. È la consapevolezza di un modo diverso di fare poesia che albeggia, un modo inaugurato da Tomas Tranströmer nel 1954 con il suo libro di esordio 17 poesie.

 

Domanda: Questo nuovo concetto del «metro» elastico cambia anche il concetto che abbiamo della sintassi?

 

Risposta: Questo nuovo concetto cambia radicalmente la forza gravitazionale della sintassi, il modo di porre l’una accanto all’altra le «parole», le quali obbediranno ad un diverso metronomo, non più quello fonetico e sonoro dell’endecasillabo che abbiamo conosciuto nella tradizione metrica italiana, ma ad un metronomo sostanzialmente ametrico. Non c’è  più un metronomo perché non c’è più una unità metrica. Di qui la importanza degli elementi non fonetici della lingua (i punti, le virgole, i punti esclamativi e interrogativi, gli spazi, le interlinee etc.), che influiscono in maniera determinante a modellizzare la «parola» all’interno del nuovo «metro» ametrico. Di qui l’importanza di una sintassi franta. Ecco spiegato il valore fondamentale che svolge il punto in questo nuovo tipo di poesia, spesso in sostituzione della virgola o dei due punti. All’interno di questo nuovo modo di modellizzare le parole all’interno dei polinomi frastici si situa l’importanza fondamentale che rivestono le «immagini»; infatti le parole preferiscono abitare una immagine che non una proposizione articolata, perché nella immagine è immediatamente evidente la funzione simbolica del linguaggio poetico.

 

Ecco la parola chiave: il verbo «abitare». Le parole abitano un luogo che è fatto di spazio-tempo e di memoria. Le parole abitano la Memoria. Le parole sono entità temporali.

 

Domanda: Vuoi portare un esempio di nuova poesia ontologica?

 

Risposta: Leggo una poesia dal libro uscito da qualche mese di Maria Rosaria Madonna (1942-2002), Stige. Tutte le poesie (1990-2002) Progetto Cultura 2018 pp. 150 € 12

 

È un nuovo inizio. Freddo feldspato di silenzio.
Il silenzio nuota come una stella
e il mare è un aquilone che un bambino
tiene per una cordicella.
Un antico vento solfeggia per il bosco
e lo puoi afferrare, se vuoi, come una palla di gomma
che rimbalza contro il muro
e torna indietro.

 

«È un nuovo inizio». Così inizia la poesia. Ma che significa? Inizio di che cosa? Di che cosa si parla? – Il secondo emistichio complica la questione perché non risponde al primo emistichio ma si limita a prolungarne l’eco di dubbio travestito in una forma assertiva: «Freddo feldspato di silenzio». Il tono assertivo contrasta singolarmente con il dubbio e l’ambiguità che promana da quelle due prime proposizioni assertorie.

 

Il secondo verso aggiunge ambiguità e dubbio. Il terzo e il quarto verso sciolgono ogni dubbio, qui siamo nel mondo onirico-surreale, illogico e irrazionale perché si dice che il «mare è un aquilone che un bambino tiene per una cordicella». Un non-sense.

 

Il quinto verso cambia spartito, c’è un «vento» (che è detto «antico») che «solfeggia» «per il bosco». Stiamo attenti alla dizione «solfeggia», una scelta verbale che serve ad introdurre un mondo di suoni determinato dal vento che attraversa il «bosco». Si parla forse qui del bosco inteso come mero paesaggio? O si tratta di un «altro» bosco? Io ritengo che qui si tratti di un «altro» bosco, e precisamente il «bosco» quale metafora e simbolo dell’Essere. È dell’Essere che qui si parla, non certo del bosco come paesaggio.

 

Il sesto verso. Qui il poeta si rivolge direttamente al lettore e gli dice: «lo puoi afferrare, se vuoi, come una palla di gomma». Anche qui la scelta della immagine corriva induce il lettore in imbarazzo. dice il poeta: «lo puoi afferrare». Che cosa il lettore può «afferrare»? Il bosco del paesaggio? No di certo, qui ad essere in questione è l’Essere.  Allora, l’Essere è come una «palla di gomma che rimbalza contro il muro»? «e torna indietro»?

 

Che cos’è che «torna indietro»? – Ma è chiaro: è l’«essere» che qui «torna indietro», scrive con un raffinatissimo tocco meta ironico il poeta. È l’essere che «torna indietro». Enunciato ambiguo e sibillino, travestito sub specie di frasario assertorio.