Boris Sluckij (1919-1986) letto da Evgenij Evtušenko – Poesie inedite Scelte – Ha aiutato la contemporaneità a diventare storia – a cura di Donata De Bartolomeo e Kamila Gayazova

 

Giorgio Linguaglossa
foto di Steven Grieco Rathgeb

“Adesso si può dire quello che, chissà perché, non si usa dire in vita. Sì, ne sono convinto: Sluckij era uno dei più grandi poeti del nostro tempo”.

                                     

                    (Evgenij Evtušenko)

 

 

La gloria gli giunse ancor prima che uscisse il suo primo libro, subito dopo l’articolo di Il’ja Erenburg sui versi inediti di Sluckij. L’articolo fu pubblicato nell’estate del 1956 nella “Literaturnaja Gazeta” e suscitò uno scandalo letterario. Per quale ragione – per il verso non convenzionale, crudele, quasi antipoetico dello stesso Sluckij o la reputazione del suo estimatore? Bisogna dire che in quell’epoca di qualsiasi cosa Erenburg parlasse, si scatenava una protesta – persino quando l’argomento era Francois Villon o Stendhal.

 

Un anno dopo uscì il primo libro di Sluckij “La memoria” – l’autore aveva intorno ai 40 anni, aveva cominciato  a pubblicare nei periodici ancor prima della guerra, poi seguì un silenzio severo durato un decennio e mezzo. Non conosco una sola raccolta di versi, che avesse avuto un tale significato nel destino della poesia sovietica come questo – nemmeno “La pera triangolare” di Andrej Voznesenskij né il “Tamburino allegro” di Bulat  Okudžava né “La corda” di Bella Achmadulina. Si parlava in questo libro della guerra con una tale semplicità e forza come nessuno mai aveva fatto prima di Sluckij…

 

Lo stesso Sluckij – molti anni dopo, guardandosi dal di fuori – compose una poesiola epigrammatica “Sul libro ‘Il ricordo’”:

 

Come un cercatore di funghi, conoscevo i miei posti,
ho lavato la mia stessa vena.
Avevo uno stampo personale. Un mio marchio.
Un modo di scrivere con propria grafia.

 

Regalandomi il libretto con questi versi, cancellò l’ultima strofa e ne scrisse sopra una nuova, più precisa, sostituì la vecchia: ”Se è merda – è merda mia”. Effettivamente, anche se le scorie in questo processo creativo di Sluckij erano inevitabilmente molte, riconosciamo facilmente che non cambieresti i cattivi versi di Sluckij con i cattivi versi degli altri poeti.

 

Sebbene in senso anagrafico Sluckij fosse di pura razza ebrea, egli si sentiva nello stesso livello ebreo e russo, non c’era in questo contraddizione o lacerazione, non gli serviva un passaggio verso l’ortodossia per gettare una passerella sul baratro. Perché per lui il baratro non c’era. Gli ripugnavano qualsivoglia forma di nazionalismo, non c’era necessità di ripudiare l’essere ebreo a favore dell’essere russo o il contrario, entrambi i sentimenti erano stati da sempre assimilati con naturalezza. Tuttavia egli faceva una distinzione: l’essere russo era appartenenza alla storia, l’essere ebreo – un segno di origine, tipo un neo. Ed entrambi non appartenevano alla riga del  passaporto ma al destino, per il quale non era stata ancora inventata la riga. Proprio come ebreo, sentiva fortemente il suo legame col popolo russo…

 

Il legame tra il poeta e il lettore è sempre drammatico – in Sluckij più che negli altri. Non c’è un profeta nella sua patria – una popolarità universale accompagnava il verso più velocemente comprensibile e pseudo-popolare di Evtušenko di quanto non accadesse con la poesia realmente popolare di Sluckij, che durante la sua vita aveva un auditorio qualificato ma tuttavia assai limitato per gli standard sovietici.

 

È, pertanto, comprensibile la sua dedica: “Resta un po’ con i miei versi, resta almeno un’ora con me. Fammi sentire il tuo respiro, dietro la schiena”. E questa dedica non è ad un amico e nemmeno ad una donna. Qualsiasi dedica di Sluckij è per il popolo. Sluckij si interessò intensamente del lettore, concretamente del lettore popolare, eroe dei suoi versi che – ecco il paradosso! – amava totalmente un’altra poesia: che parlasse preferibilmente non di lui ma, quand’anche fosse, in una maniera trasformata, canzonettistica. Il lettore di massa preferiva allora la sdolcinatezza sentimentale, invece il verso di

Sluckij era severo e scontroso come la stessa realtà.

 

Sluckij entrò per primo in guerra con il neoclassicismo staliniano in poesia e con il lettore ad esso assuefatto. Cioè col lettore che ormai rifiutava Lebedev-Kumach ma ancora amava Marschak. Prendendo le distanze dalla poetica ufficiale, dalla dolcezza piacevole, dall’ottimismo del patriottismo, Sluckij entrava in conflitto con la filosofia che ne stava dietro. Questa filosofia era stata da lui assimilata con serietà, poiché possedeva prove più persuasive dei versi che germogliavano nel suo terreno. Al chiacchiericcio idealistico della realtà Sluckij contrapponeva la realtà stessa: “Se vedrò, descriverò ciò che vedo, così come lo vedo. Quello che non vedrò, lo ometterò. Detesto la dietrologia”.

 

In poesia Sluckij fu “un realista” di genere e, sebbene non avesse fondato una “scuola realistica”, tuttavia influenzava interamente e concretamente il poetare di diversi poeti come Bulat Okudžava, Evgenij Evtuscenko, Vladimir Vysockij, Evgenij Rein, Stanislav Kuniaiev indiscutibilmente. Infine, Iosif Brodskij.

 

Su molti poeti ero in disaccordo con Iosif ma Brodskij  riteneva Sluckij, che chiamava Boroj, Boroch, Baruch, il più dotato tra i poeti russi viventi e recitava con foga a memoria molti versi.

 

In poesia eravamo d’accordo su Baratinskij, Sluckij e… Brodskij. Ed io ancora non so quale dei due ultimi amo di più e quale ritengo maggiore come poeta.

 

La disputa letteraria uscì dai confini degli anni a lui vicini, giacché – seguendo Nekrasov, Majakovskij, Chlebnikov – egli disputò con l’atteggiamento canonico verso le regole classiche del verso russo, rompendo la gerarchia e abbattendo le autorità. Ovviamente, tutto questo è intimamente connesso – la sensazione della fine della poesia classica, l’usura della sua ricezione, l’attiva diffusione del neoclassicismo epigonico tra i poeti sovietici, sia pure dotati.

 

La riforma poetica di Sluckij è duplice ma se si limitasse solo alla semantica, cioè soltanto al rinnovamento del contenuto, esisterebbe oltre la poesia, al di là dei suoi confini.

 

Io sento il suono e so esattamente dove si trova
e mi perdoni pure un romantico: 
non di campane né di angeli né di demoni,
una rondine in catene
risuona di ferri…

 

 

Giorgio Linguaglossa

 

 

E in un’altra poesia Sluckij da’ una immagine potente, che si rivolge allo stesso tempo verso la sua severa poetica e la sua missione storica: “Io sono un chiodo arrugginito, destinato alle bare…”

 

Farò adesso un confronto che può apparire forzato ma io sono certo della sua adeguatezza: la poetica di Sluckij è di tipo biblico. Anche Mezirov mi disse una volta che Sluckij  era un uomo del Vecchio Testamento. Esattamente allo stesso modo – in modo semplice ed elevato – sono descritti nella Bibbia i costumi, le abitudini e la storia dei vecchi allevatori di bestiame. Fatti prosaici risuonano là come storici, un conflitto familiare diventa storia universale. Un intenso storicismo è l’immanente caratteristica della poetica e della filosofia di Sluckij.

 

Sluckij scrive allo stesso modo sia sull’oggi che sul passato, assimilando la contemporaneità con la distanza storica: sul semplice soldato come sul monumento, su un bagno alle terme come su un avvenimento storico.  Il tran-tran dell’uomo sovietico effettivamente “è caduto pesantemente sulla bilancia della storia” e per questo il tempo per Sluckij, come si diceva anticamente è “immagine lontana“. Anche se quello che da lui viene descritto è avvenuto ieri, Sluckij lo sbircia ugualmente in un binocolo capovolto. Tuttavia, non ha bisogno di alcun binocolo, questa capacità di vista è la presbiopia: essa lo aiuta e lo confonde, a volte si a volte no. Sluckij analizza qualsiasi porzione di storia non di per sé stessa ma nei riflessi del passato e del futuro. Poggiandosi impaziente ora su una gamba ora sull’altra, egli aspetta quando la contemporaneità si trasformerà in storia giacché avverte non il movimento ma i grumi, non il processo ma il risultato.

 

Senza questa visione storica Sluckij non esisterebbe come poeta. Egli percepiva  anche la contemporaneità come crocevia della storia – diversamente non l’avrebbe semplicemente compresa, essendo presbite.

 

È facile essere trasparenti nell’epoca della trasparenza, la poesia di Sluckij è stata trasparente nell’epoca della totale oscurità, quando taceva non solo il popolo ma anche la musa terrorizzata.

 

La sua presbiopia funziona non solo sul giorno passato ma anche su quello successivo, che aveva azzeccato e profetizzato nella poesia dedicata alla mia generazione – quelli nati negli anni ’40 – agli amici Brodskij, Dovlatov, Schemyakin , a me e a Lena Klepikova.

 

 

Loro non hanno alcun ricordo della guerra, la guerra ce l’hanno solo
                                               nel sangue,
nelle profondità dell’emoglobina, nella miscela di ossa
                                               malferme.
Li hanno spinti nella luce divina, hanno ordinato:
                                               “Vivi!”

 

Nel 42, nel 43 e addirittura nel 44.
Si accingono ora a ricevere per intero
tutto quello che la guerra non ha dato loro al momento della nascita.
Non ricordano nulla ma avvertono quello che manca.
Non sanno nulla ma avvertono l’ammanco.
Per questo hanno bisogno di tutto: conoscenza, verità, successo.
Per questo crudele e breve è il discontinuo chiacchiericcio.

 

Ora, quando l’epoca sovietica si è immersa nel Lete, è comprensibile perché l’anticlassico Sluckij ne sia l’indiscutibile classico. E’ rimasto quello che era: un chiodo arrugginito destinato alla sua bara.

  1. 1.Solov’ëv – Novaja Gazeta (24/02/16, in occasione del 30° anniversario della morte di Sluckij)

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

 

 

Un Appunto di Giorgio Linguaglossa

 

Lessi qualcosa di Boris Sluckij nel 1987 alla Biblioteca Nazionale di Roma: alcune poesie tradotte in inglese, e il mio stupore fu grande: leggevo per la prima volta un poeta dell’età sovietica della generazione precedente a quella di Evtušenko. Ricordo ancora a memoria due versi che mi colpirono: «Si scrive meglio in mezzo al rumore della gente/ che nella solitudine più assoluta». È ovvio che in quei due versi c’era già tutta intera la poetica di Sluckij: la predilezione per la «gente», per una poesia che parlasse di nuovo alle persone normali, comuni e non soltanto ai poeti di professione del suo tempo che continuavano a fare poesia neoclassica, impettita e noiosa.

Slucskij immette nella versificazione russa un nuovo metro, spezza il metro di Puskin, lo rende più elastico, abbassa il lessico, introduce il quotidiano e la cronaca, in una parola porta la poesia russa al livello della gente comune, tutto questo senza abbassare il livello estetico della poesia. Posso quindi comprendere l’ammirazione che Brodskij nutriva per la poesia di Sluckij.

Leggendo Sluckij si capisce bene da dove Brodskij abbia preso l’idea di come mettere il quotidiano e i pensieri sul quotidiano in una cornice storica, questo perché ogni poeta significativo riceve il testimone da un altro poeta che lo precede, e così via… quando si interrompe la catena la forma decade, questo perché la crisi della prassi in arte trova la sua soluzione sempre e soltanto nella forma, nella forma la problematicità di un’epoca trova la sua abitazione.

 

Trovo calzanti queste osservazioni di Evtušenko:

 

la «capacità di vista è la presbiopia: essa lo aiuta e lo confonde, a volte si a volte no. Sluckij analizza qualsiasi porzione di storia non di per sé stessa ma nei riflessi del passato e del futuro. Poggiandosi impaziente ora su una gamba ora sull’altra, egli aspetta quando la contemporaneità si trasformerà in storia giacché avverte non il movimento ma i grumi, non il processo ma il risultato.

 

Senza questa visione storica Sluckij non esisterebbe come poeta. Egli percepiva anche la contemporaneità come crocevia della storia – diversamente non l’avrebbe semplicemente compresa, essendo presbite.

 

È facile essere trasparenti nell’epoca della trasparenza, la poesia di Sluckij è stata trasparente nell’epoca della totale oscurità, quando taceva non solo il popolo ma anche la musa terrorizzata.»

 

Per fare un poeta c’è bisogno di una grande oscurità. Le epoche di oscurità favoriscono la poesia che, nella sua essenza, è qualcosa di affine alla luce. La qualità primaria di un poeta non è la miopia, egli deve essere presbite, deve poter guardare bene ciò che è lontano, anche a costo di non vedere affatto ciò che gli sta accanto nel presente.

 

 

Poesie inedite di Boris Sluckij

 

La storia si è riversata su di noi.

Io mi bagnai sotto il suo rombante acquazzone

Ne subii l’ampiezza e la crescita repentina.

Ne avvertii il potere solenne.

 

L’epoca si scatenava sopra di me

come un acquazzone su una valle rasserenata

ora sotto forma di una duratura guerra giusta,

ora di una ingiustizia non duratura.

 

Volesse o non volesse la nostra età,

il nostro secolo fece un inventario, insegnava e sfrecciava e tormentava

la mole delle nostre anime e dei nostri corpi,

sì le nostre anime, non semplicemente inerti manichini.

 

In quale stoffa si stava intrecciando il nostro filo,

in quali tuoni risuonava la nostra nota,

ora è semplice spiegare tutto questo:

il destino – le sue folate e le sue lungaggini.

 

Con il marchio del destino sono annotate le colonne

dei questionari che in fretta riempivamo.

Il destino si afferrò, come una quercia, con le radici,

all’inizio, in mezzo e alla fine.

 

+++

 

Ognuno aveva le sue ragioni.

Alcuni – per amore della famiglia.

Altri – per motivi di interesse:

titolo, carica, rango.

 

Ma l’amore equivocato

per la Patria, per la fronte battuta* 

nel Suo nome

ha spinto la maggioranza.

 

E quello che scriveva: “Noi non siamo schiavi!”

a scuola, sulla lavagna

non si mise ad andare contro il destino

che si scorgeva a poca distanza.

 

E dio, un decrepito vecchio stanco,

nascosto tra le nuvole,

era sostituito da uno dei suoi 

che portava stivali di pelle cromata. ** 

 

*Si allude all’abitudine ortodossa di chinare la fronte sulle icone durante la preghiera in segno di devozione (ndt)

** Parte dell’uniforme militare degli ufficiali sovietici.

 

++++

 

La coscienza, indiscutibilmente è stata

creata di notte, durante l’insonnia.

Perché si può litigare con sé stessi

soltanto in una notte senza sonno.

Perché si spezza il ferro

a questa filatrice che tesse il destino.

 

Perché, quando non riesci a prendere sonno, 

trovi un giudice anche nell’anima. 

 

++++

 

  I VALORI

 

I valori dell’anno quarantuno:

non desidero che l’agevolazione,

non voglio che la corazza

si allarghino su di me.

 

I valori dell’anno quarantacinque:

non voglio fargli il saluto militare.

Non voglio farlo a nessuno.

 

I valori dell’anno sessantacinque:

la cosa non si risolve da sola.

Fatemi firmare una lettera.

 

I valori del giorno odierno:

svalutatevi, rivalutatevi,

riformatevi, deformatevi,

rendetevi ridicoli, degradatevi

ma senza di me, senza di me, senza di me.

 

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LE RAGIONI DI UN AMORE

 

Ecco perché amo i questionari: per la diretta

impostazione di domande indirette.

Per la riduzione quasi scientifica

di una lunga vita grazie a formule brevi.

Per la certezza che si può 

Incasellare un uomo*

 e che servono dieci caselle

per portarsi a casa i libri dalla biblioteca

o quaranta per lasciarti andare 

verso un paese capitalista per due settimane.

 

L’uguaglianza di fronte al questionario,

di fronte ad occhi da pesce in barile

di tutte le sue domande

è di per sé uguaglianza.

Ed io – sono per l’uguaglianza.

Rispondere a tutte le domande,

con esattezza e compiutezza,

rispondere – lo sai o non lo sai –

c’è in questo un che

di uguaglianza e fratellanza.

Stavo quasi per dire:

libertà.

 

* Si fa riferimento agli innumerevoli questionari che i Russi dovevano compilare per ottenere qualcosa (ndt)

 

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Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

 

 

SULLO SGUARDO DIRETTO

 

L’uomo onesto 

deve guardare diritto negli occhi.

Il perché – non si sa.

E se all’uomo onesto

fanno male gli occhi e gli lacrimano?

E se il disonesto

possiede una vista eccellente?

Chissà perché nei servizi punitivi

di tante epoche e popoli

insegnano a provare la lealtà 

e l’onestà in base alla fermezza dello sguardo.

Forse la polizia segreta,

 diciamo di Silla, aveva il diritto

di distinguere i disonesti e gli onesti?

 

Forse il controspionaggio,

diciamo di Tamerlano,

era formato da moralisti?

Ogni vedente ha diritto

di correre frettolosamente con gli occhi

e deve essere giudicato non per lo sguardo,

non per l’olfatto e l’udito

ma per le parole e i fatti.  

 

+++

 

Ormai non amano ascoltare della guerra

passata

                            e appena sbircio 

dal palcoscenico in sala

                            si annoiano nella sala:

come dicessero, raccontaci qualcosa di nuovo.     

 

Hanno pure paura di ascoltare sulla guerra

che verrà,

                          del suo azzurro

celeste.

                con i funghi del colore della morte.

La guerra non ha ancora generato un poeta.

 

Non ha ancora morso il freno.

Non sono ancora chiare le date del suo avvento.

Non ha generato scrittori

ed oggi non nascono profeti.  

 

+++

 

Giorgio Linguaglossa
Dal 2013 Passigli ha inaugurato una collana interamente dedicata alla poesia russa del novecento.

LA PARTENZA

 

Ho sognato che il mio amico parte,

che il mio vecchio, amico mio, si alza,

riempie lo scompartimento di fagotti

si lascia salutare.

 

Proprio lui, che amavo più della mia vita,

una volta, tempo fa…

e i suoi piccoli bambini

guardano dal finestrino.

 

Ma dove, dove va?

Verso quali sventure si affretta?

Come fossero in una svendita,

gli oggetti stanno sparpagliati qua e là.

 

Lui ascolta distrattamente,

non vuole capirmi

e una vecchietta garbata

singhiozza in un angolo – sua madre.

 

E il treno già inizia

la sua cantilenante canzone. 

E il mio amico saluta nel finestrino

mentre io sto sulla banchina.

 

 

 II

 

Quelli che partono –partono,

quelli che salutano – salutano

e soli, completamente soli

poi rimarranno.

 

Ruggisce appena la sirena della locomotiva,

l’aereo a reazione scatta –

la solitudine trasforma il freddo micidiale

in neve e ghiaccio.

 

Trasforma in tenebra e gran freddo,

in febbrai, gennai , dicembri.   

E tutto questo succede proprio qui,

sulla banchina – guarda, guarda.

 

E la parola si trasforma in un tratto di penna.

E in silenzio – il suono.

E le persone si trasformano – in scrittura,

in lettere rade

nei giorni di festa.  

 

+++

 

In primo luogo questa – è il tuo destino,

che non si sceglie

e in secondo luogo non è poi così brutta

codesta variante del destino,

e in terzo luogo splende il sole

e il bosco rumoreggia, il fiume gioca

a che pro’ pensare: “se”

e a che pro’ riflettere: “magari”.      

 

Il secolo era scarlatto come una mela.

Il progresso si faceva più forte, tipo una gelata.

Fuoriuscire dai tempi impetuosamente – 

che vanità, che prosa.

Ma siamo riusciti ad uscire dai tempi,

ci siamo scrollati dai piedi la cenere natale.

C’era questa linea

che ostinatamente seguivamo.

 

Loro ancora girano attorno

al pianeta, lungo il suo ciglio,

come un piccolo satellite col cagnolino Drug*,

morto da tempo, fra l’altro.

Da tempo è morto l’allegro cagnetto,

lui che era così ghiotto di salame

e si può, forse, soltanto mandare 

un sospiro, dopo averne pianto il destino.

 

Piangiamo il destino 

di tutti quelli che si sono staccati dalla terra,

dai dolori e dai divertimenti

e si logorarono, invecchiarono

e si arrabbiarono in lontananza

battendo una propria strada

dove vanno senza bagagli

e si guardano attorno con diffidenza. 

 

* Drug (amico) è un nome molto comune dei cani in Russia (ndt)

 

+++

 

 

Le esplosioni delle avio-bombe ricordano gli alberi.

Gli scoppi atomici ricordano i funghi.

Oddio! Dalla semplicità verso la complessità

                                              scaturisce il nomadismo

del nostro destino.

 

La prossima distruzione assomiglierà alla muffa,

sarà ugualmente ingenua e umidiccia – 

                                             semplice.

Ma dopo non ci saranno né paragoni, né canzoni

né un accidenti di niente.

 

+++

 

Ma il mio padrone non mi amava.

Non mi conosceva, non mi sentiva e non mi vedeva

eppure tuttavia mi temeva come il fuoco

e tetro, cupo mi detestava.

 

Quando chinavo il capo dinanzi a lui –

gli sembrava che io nascondessi un sorriso.

Quando mi obbligava a piangere –

gli sembrava che simulassi il pianto.

 

Io ho lavorato per lui tutta la vita,

andavo a letto tardi, mi alzavo presto,

lo amavo e per lui sono stato ferito.

Ma nulla mi è stato d’aiuto.

Ma io per tutta la vita portavo il suo ritratto,

lo appendevo nel rifugio, lo appendevo nella tenda,

guardavo, guardavo, non mi stancavo di guardare.  

E anno dopo anno sempre più di rado, sempre più di rado

mi sembrava offensivo il disamore.

E oggi non mi rovina l’umore

questo fatto evidente che, da che mondo è mondo,

                                        i padroni non amano 

                                                         quelli come me.

+++

 

Gli Ebrei non seminano il pane,

gli Ebrei vendono nelle botteghe,

gli Ebrei diventano calvi prima,

gli Ebrei rubano di più.

Gli Ebrei – gente malvagia,

loro sono cattivi soldati:
Ivan combatte in trincea,

Abramo fa affari nella cooperativa sociale.

Ho sentito questo fin dall’infanzia, 

presto invecchierò completamente,

ma non si trova riparo da nessuna parte

dal grido: “Ebrei, Ebrei!”.

Anche se non ho mai fatto affari,

anche se non ho mai rubato

porto dentro di me, come un contagio,

questa razza maledetta.

La pallottola mi ha risparmiato

perché si dicesse in verità:

“Gli Ebrei non sono morti in guerra!

Sono tornati tutti vivi!”

 

+++

 

Ogni mattina mi alzavo e mi rallegravo

per quanto sei buona, bella

per come in un raggiungibile piccolo raggio

respira la tua anima.

Più volte di notte 

Prestavo l’orecchio:

forse dormi, leggi, sopporti forse

il dolore?

Non c’è stato in una lunga vita niente di meglio

di questa compassione, strazio, amore.

Per quanto ho potuto,

ho pagato al destino

perché non si spegnesse la linguetta del fuoco,

perché ancora restasse e contasse,

si diffondesse, come prima, la tua luce su di me. 

 

+++

 

 

I CAVALLI NELL’OCEANO

                                                  

                      A Ilja Erenburg

 

I cavalli sanno nuotare.

Ma – non bene. Non in lontananza.

 

“Gloria” in russo si dice “Slava”.

Questo vi è facile ricordarlo.

 

La nave andava, orgogliosa del suo nome,

cercava di superare l’oceano.

 

Nella stiva, dondolando i musi miti,

mille cavalli calpestavano giorno e notte.

 

Mille cavalli! Quattromila ferri di cavallo!

Eppure non hanno portato fortuna.

 

Una mina squarciò la nave nel profondo

lontano, lontano dalla terra.

 

La gente salì sui canotti, si arrampicò sulle scialuppe.

I cavalli cominciarono semplicemente a nuotare.

 

E che altro potevano fare, poveretti,

se non c’era posto sulle barche e sulle scialuppe?

 

Nuotava lungo l’oceano un’isola color del rame.

Nell’azzurro del mare nuotava un’isola baia.

 

E dapprima sembrava fosse facile nuotare,

l’oceano sembrava loro un fiume.

 

Ma la riva di questo fiume non si vedeva,

mentre si esaurivano le forze equine

 

all’improvviso i cavalli si misero a nitrire, ribattevano

a quelli che nell’oceano li avevano mandati a picco.

 

I cavalli andavano giù e nitrivano, nitrivano sguaiatamente

finché tutti non andarono a fondo.

 

Ecco è tutto. Eppure io provo pena per loro –

ramati, che non hanno raggiunto la terra.

 

+++

 

Le poesie qui presentate (ad eccezione delle ultime quattro) fanno parte della raccolta Il destino – versi di diversi anni  (Sudbà- stichi raznich let) edita a Mosca, 1991.  La poesia “Ogni mattino…” è dedicata all’amatissima moglie Tatiana morta nel 1997. Nei tre mesi successivi al suo decesso, Sluckij scrisse per lei un libro di versi e poi, come poeta, tacque fino alla fine della sua vita. (ndt)