Roberto Bertoldo, Rifondazione dello scetticismo, Mimesis, Milano, 2017, pp. 92 € 7 con un Appunto ermeneutico di Giorgio Linguaglossa

 

Giorgio Linguaglossa
lo scetticismo  è una forma, un abito mentale, una attitudine dell’intelletto, una
forma di ateismo, di anti-filosofia, di nullismo…

 

 

Appunto ermeneutico di Giorgio Linguaglossa

 

  Innanzitutto, lo scetticismo non coincide con il relativismo. Per Roberto Bertoldo lo scetticismo  è una forma, un abito mentale, una attitudine dell’intelletto, è ciò che consente la militanza nel post-contemporaneo: una forma di ateismo, di anti-filosofia, di nullismo, un modo di vivere fenomenognomico il nichilismo dell’età contemporanea, un modo di esperire la nullificazione di tutte le forme e di tutte le esperienze, una figura dell’esistenzialismo che dà per scontato il nulla come fondamento degli enti… tutte buone e sacrosante ragioni per scagliarsi contro il fondamento cartesiano dell’«ego cogito» che fonda le due varianti  del dogmatismo e del relativismo dei tempi attuali. Lo scetticismo è l’unica arma intellettuale che ci consente un argine contro il fondamentalismo nelle sue varianti occidentali del sovranismo e del nazionalismo. Bertoldo, da filosofo scettico e nullista, mette in stato di accusa l’Ego cogito cartesiano, sa che lo scetticismo per essere radicale non deve limitarsi ad essere meramente metodologico ma deve essere anche gnoseologico: non c’è nessuna verità che la ragione possa attingere e fondare come valore fondante, e quindi lo scetticismo è il limite della gnoseologia e il motore interno della ricerca esistenziale.

 

  Direi che lo scetticismo bertoldiano è un metodo di de-costruzione e di de-coincisione: le cose collidono, contrastano e mai coincidono, neanche per un istante di tempo, gli opposti collidono e mai coincidono, o meglio, la forma con cui si danno gli opposti è la coincidentia oppositorum che soltanto un pensiero scettico può modellare, concepire, afferrare e decostruire. Nel mondo che nietzschianamente «è diventato una favola», lo scetticismo viene incaricato di smascherarlo, di sciorinarne le nequizie; lo scetticismo per Bertoldo è un’arma appuntita e contundente volta a colpire ogni fondazione e ogni fondamentalismo, è la de-fascinazione in azione, la de-costruzione in azione, la de-fondamentalizzazione del soggetto in azione, è ciò che rimane del pensiero umanistico alle prese con l’organizzazione totale del mondo dominato dall’economia, è il coraggio supremo della filosofia giunta alla sua ultima spiaggia, al di là di esso non c’è che il vuoto. Lo scetticismo è il contro negativo in azione, un contro movimento in azione di quell’ente chiamato homo sapiens giunto alla estrema propaggine del nulla nella nostra epoca totalitaria.

 

  Per Cioran «lo scetticismo è un esercizio di de-fascinazione»1; «il coraggio supremo della filosofia è lo scetticismo. Al di là di esso la filosofia non riconosce che il caos».2 «Il vuoto, vicolo cieco infinito, aspira a fissarsi dei confini».3

Per Bertoldo l’esistenza è diventata falsificabile, replicabile, surrogabile, l’io ha cessato di coincidere con l’io, l’io è una semplice «funzione», l’uomo non è più nel tempo, e quindi nella storia, ma è caduto dal tempo, dalla tromba delle scale del tempo; il suo «nullismo», il suo «scetticismo» è il racconto filosofico di questa caduta dal tempo e dalla storia.

 

Il funesto demiurgo, Adelphi, 1986, p. 146
Lacrime e santi, Adelphi, 1990, p. 33
3 La caduta nel tempo, Adelphi, 1995, p. 85

 

 

Giorgio Linguaglossa

shoah-selfie di turisti davanti ad Auschwitz

 

 

dalla Introduzione del libro di Roberto Bertoldo

 

La posizione scettica è stata giudicata spesso, per non dire sempre, foriera, per coerenza, di inattività. Giudizio precipitoso che ha liquidato lo scetticismo come atteggiamento irresponsabile, quando bastava osservare l’ininfluenza della traballante verità sull’assunzione contestuale, storica e relativistica degli accertamenti e delle conseguenti certezze.

 

Inoltre lo scetticismo, pur immerso nelle proprie perplessità, al pari delle altre dottrine non ripudia una verità logica indubitabile – ovviamente indubitabile secondo i crismi della  logica di riferimento (qui quella estensionale) –, che è per esso il cogito di provenienza cartesiana, la cui conseguenza, l’ergo sum, risulta essere una verità ontologica, la quale è, per limite gnoseologico, ipotetica.

 

Infatti «penso dunque sono» è, possiamo dire, una sorta di accertamento logico più che induttivo ed è un accertamento, e non una verità tout court, in quanto invece di determinare, come sembrerebbe a prima vista e come ritiene Cartesio, il fondamento ontologico dell’io, determina l’esistenza di un io che pensa, quindi di un io come soggetto fenomenico, funzionale, non immanente. Il “penso dunque sono” diviene insomma, in prima istanza, “penso dunque esisto”.

 

Tuttavia questo io funzionale rimanda con la sua accertata individualità esistente ad una causa fenomenognomica,[1] ossia prefenomenica e singolare, perché la sua esistenza è sostanziata – e ciò significa che è plausibile una sostanza produttiva come suo fondamento – dalla capacità di produrre pensiero.

 

Le contradictio in adjecto di cui parla Nietzsche riguardo la formulazione cartesiana e quelle simili ad essa non sono dunque tali,[2] sia per il fatto che la «certezza immediata» non riguarda la cosa in sé, e bisogna in ciò tenere conto della differenza tra certezza e verità, sia perché l’io non è necessariamente qualcosa di individuato o di individuabile ma è semplicemente una funzione. “Io” indica il soggetto dell’atto noetico, qualunque sia questo atto – di pensiero, di volontà, ecc. –. E non importa che l’atto richieda la consapevolezza e quindi perlomeno l’alterazione funzionale dell’io, che diviene così oggetto di se stesso, dunque che richieda perlomeno il riconoscimento di sé da parte dell’io, ossia la sua autocoscienza; quest’ultima è un atto successivo, che tra l’altro comprova – e anche questo è importante –, ‘comprova’ e non ‘determina’, la causalità, dunque il tempo. La causalità è nell’atto noetico iniziale stesso e viene portata all’esistenza dall’autocoscienza, ma proprio questo fatto giustifica, indirettamente, il fondamento fenomenognomico dell’attante, indipendentemente dalle qualità sempre solo apparenti di quest’ultimo.

 

Un’azione potrebbe non essere fenomenognomica, posso immaginarmi che il dato si muova o che io stesso mi muova, ma chi la compie o immagina che si compia o si immagina di compierla è necessariamente fenomenognomico. Così come lo è, conseguentemente, perlomeno il suo atto di pensare o immaginare.

 

La dichiarazione di fondamento fenomenognomico così ottenuta rappresenta sí una verità su cui il metodo scettico può poggiarsi più serenamente, ma ciò non le evita di essere una mera ipotesi. Le nostre idee infatti, per via dei campi culturali in cui sono immerse, risultano valide e non innegabilmente vere, perché subiscono l’influsso non solo della produzione culturale di questi campi, produzione che può anche essere in qualche modo calcolata e sottratta dal giudizio, ma anche della loro costituzione epistemica e logica, la quale non può essere messa a verifica con imparzialità in quanto gli strumenti epistemici e logici occorrenti sarebbero inevitabilmente gli stessi.

 

 

Giorgio Linguaglossa

vedremo come l’ipotesi fenomenognomica si completerà in ipotesi ontologica

 

 

In più, il genio maligno di cui parla Cartesio non è necessariamente qualcosa di esterno a noi, ma può essere una minorazione o peculiarità genetica, individuale o collettiva, presente nel nostro cervello.

 

Se si assume anche solo in via ipotetica questa verità logica e in seconda istanza ontologica (vedremo come l’ipotesi fenomenognomica si completerà in ipotesi ontologica), ossia che il fatto di pensare assicura chi pensa sulla propria presenza o coscienza sostanziate, non si può negare la presenza formale delle produzioni del “pensiero”, degli atti di coscienza. Ammessi questi atti noetici non si possono non ammettere i noemi, concreti o immaginari che siano. Sicuramente valorizzare l’atto di coscienza non significa ancora valorizzare il suo contenuto quando riguarda i dati esterni, non si può per esempio disconoscere il fatto che io veda il sole, mentre si può supporre che io veda male o che abbia un miraggio, tuttavia l’atto sancisce fermamente l’esistenza del mondo esterno, al di là della sua effettiva fisicità.

 

Se dunque riconosco di avere una posizione e funzione (di soggetto) nell’inquadrare la realtà, non posso disconoscere l’esistenza dell’oggetto, perlomeno quello intenzionale, ossia la positura di un dato. Nel momento in cui si pone sotto osservazione un dato, il dato è oggetto intenzionale e quindi c’è come forma, percepita o interpretata, anche qualora non ci fosse come contenuto fenomenognomico. È il caso dei dati meramente fenomenici, come le idee e i sentimenti. Questa condizione fenomenica è dunque ineccepibile, in quanto a esistenza. Naturalmente nulla sappiamo di vero sulla sua origine, che può essere materiale o ideale, e nulla di certo verificabile riguardo le sue apparenze (forma, colore, simpatia, ecc.).

 

In ogni caso l’oggettivazione formale è una realtà, suffragata appunto dal coscienzialismo cartesiano: la mia posizione soggettivista, già espressa in altro ambito,[3] non è meno idealistica di quella coscienzialista, la precede soltanto. Precedendola può però, in virtù di questa ineccepibile realtà fenomenica, che attualizza la spazio temporalità di cui si nutre la materia dinamica, porre pregiudizialmente, ma in modo più motivato di quello idealistico, la Materia come Essere.

 

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

 

Tale realtà fenomenica è l’esito di un accertamento, ossia di un procedimento ermeneutico che comincia con la sensazione. Questo accertamento produce appunto certezza, che si sviluppa unicamente a livello fenomenico. La fenomenizzazione degli accertamenti la dice lunga sulla debolezza ontologica d’essi, che infatti non rappresentano la verità fenomenognomica e ontologica, ma testimonia altresì del potere che queste certezze consentono a chi le possiede. Proprio le certezze rappresentano un sostegno insopprimibile dell’azione, oltre che la logica – logica e non empirica – conseguenza di un atto di coscienza.

 

A farla breve, il “penso dunque sono” di Cartesio è senz’altro una verità indiscutibile, anche se non ci dice niente su questo io e anche se le conseguenze che Cartesio deriva non hanno più lo stesso sentore di verità.

 

Ma la verità cartesiana pone un fondamento meno malfermo al metodo scettico, un fondamento che a ben vedere sostiene solo il metodo scettico, non lo scetticismo. E in effetti lo scetticismo è stato bollato avventatamente come inattuabile e destinato all’impraticabilità. Non è così, perché lo scettico ha certezze, ossia gli esiti degli accertamenti che attua quotidianamente, e anche se non le considera nel loro valore assoluto, ossia anche se esse non rappresentano per lui delle verità, se non ipotetiche, sono però fondamenti fenomenici e quindi dell’azione quotidiana. Per di più, alla base di questa alacrità dello scetticismo c’è una verità non accertabile che viene assunta come certezza e addirittura come verità ontologica, e quindi ipotetica, in virtù del suo carattere apriorico: il possibile. È questo possibile a validare, ben più della ontologica verità cartesiana, l’azione scettica. Il possibile è certo anche senza poter essere accertato, non si può negare che tutto possa accadere, quindi l’accadimento del possibile è vero fin quando non si accerta una verità assoluta che lo invalidi, cioè mai, perché il possibile non è invalidabile neppure dalla sua realizzazione, o non si determina una condizione che lo falsifichi, fatto improponibile in quanto il Possibile ontologico concede possibilità anche all’impossibile. Inoltre tutto ciò che è possibile è ipotizzabile, quindi la verità sull’Essere, essendo ipotetica, conferma l’Essere come Possibile.

 

Conseguenza di questo è che possediamo un’altra verità indiscutibile all’interno della logica estensionale: il possibile. Il quale, tuttavia, non essendo “falsificabile” (Popper) non rappresenta una verità scientifica ma metafisica, direi logico-metafisica. In ogni caso lo scetticismo si installa tra il regresso finitodel dubbio cartesiano e il progresso infinito della Possibilità. Se vogliamo crearci a tutti costi un dio, questo dio è il Possibile, nel facsimile della Materia. Ed è una divinità potente e ausilio indispensabile dell’agire sotto l’egemonia dello scetticismo, il quale non potrà mai aderire al volto che essa assume di volta in volta – aderirà invece ai segni certi che essa lascerà man mano sulla carta fenomenica – ma che sarà sempre nutrito dalla sua generica sembianza.

 

Il certo non è il vero, e quindi lo scetticismo, che riguarda appunto la verità e non la certezza, che sa essere sempre relativa, permane inalterato, con la giustificabilità dell’azione. Si potrebbe obiettare che questo non è il vero scetticismo, ma perché mai? Lo scetticismo riguarda i fondamenti ontologici, non quelli fenomenici. Fenomenicamente lo scettico è giustificato nelle sue scelte e azioni dalla Possibilità. Ciò significa che lo scetticismo resta integrale nel momento in cui, nonostante i dubbi, lo scettico agisce, perché i suoi dubbi sono radicati ontologicamente e continuano a riguardare la verità, non in atto la certezza fenomenica, la quale è falsificabile ma fino a quel momento percorribile.

 

Lo scettico accetta, pur dubbioso sulla loro portata ontologica, gli accertamenti esistenziali. Tutto ciò che accerta, esiste, anche se forse non è o non è come appare. Il fatto che tutto è possibile avvalora lo scetticismo ma giustifica allo stesso tempo l’operare dello scettico. Il possibile scredita il certo quanto il vero, beninteso, ma proprio l’inesauribile Possibilità, facendo del vero un’ipotesi e del certo un compromesso falsificabile, stimola alla continua ricerca. Non solo: l’azione dello scettico non è minata dalla falsificabilità delle certezze, anzi a livello fenomenico tali certezze fungono da fondamento scientifico come fossero “il migliore dei fondamenti possibili”.

 

I grandi esiti dello scetticismo sono allora la tolleranza, la ricerca, l’antidogmatismo, la libertà, ecc. Lo scetticismo dona una ricchezza sociale ineguagliabile. Esso, ammettendo l’esistenza senza ammettere inevitabilmente l’essenza e la qualità dell’apparenza, ammettendo la soggettività senza dare per scontata la datività fenomenognomica dell’oggetto, ma concedendo in sua vece la datività fenomenica, consegna all’uomo tutte le potenzialità.

 

[1] Il mondo che nei miei libri ho chiamato fenomenognomico è, in breve, il mondo fisico, del darsi ancora inconsapevole delle forme materiali meramente sensorie.

 

[2] «Se scompongo il processo che si esprime nella proposizione “io penso” ho una serie di asserzioni temerarie (…) come per esempio che sia io a pensare, che debba esistere un qualcosa, in generale, che pensi, che pensare sia un’attività e l’effetto di un essere che è pensato come causa, che esista un “io”, infine che sia già assodato che cos’è caratterizzabile in termini di pensiero (…). Donde prendo il concetto del pensare? Perché credo a causa e effetto? Che cosa mi dà il diritto di parlare d’un io come causa dei pensieri?» (Friedrich Nietzsche, Al di là del bene e del male, Adelphi, Milano 1977, pp. 20-21; orig. Jenseits von Gut und Böse, 1885). 

 

[3] Cfr. “Coscienzialismo e soggettivismo”, nel mio Istinto e logica della mente, Mimesis, Milano 2013, pp. 39-70.

 

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

 

 

Roberto Bertoldo nasce a Chivasso il 29 aprile 1957 e risiede a Burolo (TO). Laureato in Lettere e filosofia all’Università degli Studi di Torino con una tesi sul petrarchismo negli ermetici fiorentini, svolge l’attività di insegnante. Si è interessato in particolare di filosofia e di letteratura dell’Ottocento e del Novecento. Nel 1996 ha fondato la rivista internazionale di letteratura “Hebenon”, che dirige, con la quale ha affrontato lo studio della poesia straniera moderna e contemporanea. Con questa rivista ha fatto tradurre per la prima volta in Italia molti importanti poeti stranieri. 
Dirige inoltre l’inserto Azione letteraria, la collana di poesia straniera Hebenon della casa editrice Mimesis di Milano, la collana di quaderni critici della Associazione Culturale Hebenon e la collana di linguistica e filosofiaAsSaggi della casa editrice BookTime di Milano.

 

Bibliografia:

 

Narrativa edita: Il Lucifero di Wittenberg – Anschluss, Asefi-Terziaria, Milano 1998; Anche gli ebrei sono cattivi, Marsilio, Venezia 2002; Ladyboy, Mimesis, Milano 2009; L’infame. Storia segreta del caso Calas, La vita felice, Milano 2010;

 

Poesia edita: Il calvario delle gru, Bordighera Press, New York 2000; L’archivio delle bestemmie, Mimesis, Milano 2006; Pergamena dei ribelli, Joker, Novi Ligure 2011;

 

Saggistica edita in volume: Nullismo e letteratura, Interlinea, Novara 1998; nuova edizione riveduta e ampliata, Mimesis, Milano 2011; Principi di fenomenognomica, Guerini, Milano 2003; Sui fondamenti dell’amore, Guerini, Milano 2006; Anarchismo senza anarchia, Mimesis, Milano 2009; Chimica dell’insurrezione, Mimesis, Milano 2011, Rifondazione dello scetticismo, Mimesis, Milano, 2017. Gli ultimi libri di poesia sono: Pergamena dei ribelli Joker 2011, Il popolo che sono, Mimesis Hebenon, 2016