Vincenzo Petronelli POESIE INEDITE in italiano e nei dialetti di Barletta e di Andria con traduzione in italiano e una Dichiarazione di poetica dell’autore

Giorgio LinguaglossaGiorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa

(Grafiche di Lucio Mayoor Tosi con i poeti della Nuova
Ontologia Estetica e Vincenzo Petronelli)

 

Vincenzo Petronelli è nato a Barletta l’8 novembre del 1970. Sono laureato in lettere moderne con specializzazione storico-antropologica, risiedo ad Erba in provincia di Como, dove sono approdato quattordici anni fa per amore di quella che sarebbe poi diventata mia moglie ed ho una bambina 10 anni. Dopo un primo percorso post-laurea che mi ha visto impegnato come ricercatore universitario nell’ambito storico-antropologico-geografico e come redattore editoriale, ho successivamente intrapreso un percorso professionale nel campo della consulenza aziendale, che mi ha condotto al mio attuale profilo di consulente in tema di comunicazione ed export; nel contempo proseguo nel mio impegno come ricercatore in qualità di cultore della materia, occupandomi in particolare di tematiche inerenti i sistemi di rappresentazione collettiva, l’immaginario collettivo, la cultura popolare e la cultura di massa. Inoltre abbraccio un ampio spettro di interessi culturali che spaziano dalla letteratura, alla linguistica, alla musica, al cinema, allo sport. Per quanto concerne la poesia, è una passione che mi accompagna ininterrottamente dall’età di sedici anni e che ho coltivato in modo febbrile nel corso del tempo, divorando libri di opere di poeti provenienti dalle più disparate tradizioni ed aree geografiche, per poi cominciare a comporre mie poesie in modo più consapevole dall’età di ventinove anni. Attualmente faccio parte del gruppo letterario Ammin Acarya di Cantù.

 

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

 

Vincenzo Petronelli. Dichiarazione di poetica

 

La  poesia ha sempre costituito per me il punto di convergenza e sublimazione della totalità del mio “cosmo” intellettuale, il ganglio attorno cui si annodano i miei amori per la letteratura e la storia, le scienze sociali e la linguistica, il folklore e la musica, il cinema e lo sport, in un concetto di “poesia totale” o come più mi piace definirla, poesia antropologica. In ciò risiede la diversità di canoni linguistici e moduli espressivi che da sempre cerco di perseguire, attitudine figlia di una formazione poetica eclettica maturata assiduamente nel corso degli anni e snodatasi attraverso l’incontro con poeti, tradizioni e filoni i più disparati nello spazio e nel tempo; dalla poesia italiana novecentesca, alle tradizioni poetiche di area ispanofona e lusofona, slava, anglofona (irlandese in particolare), persiana, araba, cinese (in particolare la produzione dell’epoca T’ang), interessandomi tanto alla poesia culta che a quella di espressione popolare. E’ così che partito da un’impostazione iniziale prevalentemente lirica, sono poi giunto, incarnando tale visione “olistica” (incapace per natura di rimanere ingabbiato dentro definizioni stilistiche o concettuali)  a cimentarmi con scritti di impostazione più narrativo – prosastica giungendo anche ad abbracciare il genere comico, poiché da sempre l’ironia è uno degli elementi caratterizzanti la mia personalità. Dal punto di vista linguistico, amo passare dall’italiano alle miei idiomi locali (barlettano e andriese, mare e terra insieme) alternando occasionalmente anche scritti in alcune delle lingue straniere di mia conoscenza. Nuclei centrali della mia poesia sono il rapporto con la terra (in una sorta di interscambio continuo tra materia e spirito), il rapporto con la memoria, il mondo e le culture popolari mediante la narrazione della loro quotidianità che inevitabilmente si fa storia.

 

Il mio afflato per la poesia è sempre stato accompagnato dall’amore per la parola e per la straordinaria possibilità offerta dall’arte poetica di plasmare, modellare, disarticolare e ricomporre lo stesso suono o lemma in universi di significato continuamente cangianti, facendone materia plastica, sino a giungere alla sublime possibilità di sovvertire e rimodulare i canoni precostituiti di ogni sistema linguistico. Ovviamente la catalizzazione verso la parola sussume l’interesse per la lingua, veicolatrice di cosmologie di significato culturale e strumento privilegiato di espressione antropologica; ciò mi ha condotto, già agli albori dei miei cimenti poetici ad abbinare le proprietà espressive di una lingua “colta”, quale è la nostra lingua nazionale, con le suggestioni “naturaliste” delle lingue locali (nel mio caso i dialetti o idiomi locali – che dir si voglia –  delle mie due città, Barletta ed Andria), creando una sorta di “sincretismo stilistico” che culmina in una “popolarizzazione” del registro linguistico italiano ed al tempo stesso in una “liricizzazione” dei miei dialetti, storicamente estranei ad una vera eredità poetica che non sia quella macchiettistica dell’elzeviro paesano. Peraltro, ho sempre trovato che questo scomposizione e sovvertimento di canoni espressivi estremamente stimolante in termini creativi, grazie all’estrema libertà compositiva offertami, in cui il “meticciato” dei linguaggi si completa mediante il trapianto, nella mia versificazione, di modelli poetici derivanti da altre tradizioni legate alla mia formazione e maggiormente orientate verso una concezione popolare alta della poesia, attinente alla visione del mio progetto poetico. Lo si evince in particolare nei confronti del mio uso dei dialetti, in cui ho potuto godere dell’enorme privilegio di ritagliare loro su misura una sintassi poetica originale (essendo loro sconosciuti come accennavo, dei veri modelli pre-esistenti) per cui ad esempio diversi componimenti realizzati in dialetto, traggono in realtà motivo d’ispirazione in modelli irlandesi, slavi, ispanici, ecc. Tutto ciò mi consente oltretutto di rimanere al riparo, proprio per ciò che concerne le composizioni dialettali, dal rischio di una percezione “localistica” o peggio ancora “etnica” della mia produzione (elementi dai quali rifuggo decisamente) ed al contrario di evidenziarne i caratteri universali, poiché pur avendo per ontogenesi un rapporto forte (materico a volte) con la terra,in realtà ho sempre visto in tale matrice il trampolino e la bussola per proiettarmi verso il mondo. In tale contesto si pongono anche sperimentazioni che pur comparendo – finora almeno – in maniera più rarefatta, costituiscono parte dell’orizzonte del mio corpus poetico e che mi conducono alla composizione in alcune delle lingue estere di mia conoscenza, alla sovrapposizione di più lingue, fino al pastichelinguistico.

 

Giorgio Linguaglossa
foto Richard Vergez

 

Giorgio Linguaglossa

 

statualità del linguaggio poetico e meridionalismo poetico degli autori del Sud

 

Pur con tutte le scriminanti a discarico della poesia di Vinvenzo Petronelli, mi sento di scagliare una freccia in parziale suo favore: direi che il suo meridionalismo è tipico della poesia in dialetto del Sud, tipica anche della autrice forse «migliore» della poesia in dialetto del Sud: Assunta Finiguerra. Il meridionalismo della poesia in dialetto del Sud purtroppo è una malattia endemica del Sud. Ci sarà pure una ragione di questo fatto? E infatti c’è, e la ragione sta nel mancato sviluppo nel Sud di una borghesia attiva e progressista, nel mancato sviluppo del Sud come, oserei dire, stato unitario (anche se aggregato alla repubblica italiana). La statualità di uno stato è molto importante anche per la poesia e per il linguaggio poetico. Voglio dire che c’è una equazione tra statualità o mancata statualità di uno stato e i linguaggi delle sue comunità linguistiche. E questo ha senz’altro una ripercussione anche sul linguaggio poetico di quelle comunità linguistiche,

 

Però, un elogio che mi sento di fare a carico di questa poesia è che non si tratta di una poesia low cost, come moltissima poesia romano milanese e di Pordenone e Mantova e altre località della villeggiatura poetica disseminate in italia; almeno qui siamo davanti ad una poesia che un tempo si definiva “onesta”. Certo l’onestà non basta a fare una poesia, così come l’onestà non basta a fare dei politici capaci, come vediamo nei 5Stelle, però è già qualcosa.

 

Esemplificando un po’ potremmo dire che c’è una poesia low cost che si può acquistare in ogni buon supermercato dello stile, in specie in epoche di saldi e compri tre paghi due: abbassando il registro stilistico, lo schema prosodico, espungendo le metafore, le metonimie, le anadiplosi, le catacresi, le anafore etc., desertificando la tradizione, succede che alla poesia non rimanga altro da fare che registrare, come succede in alcuni autori contemporanei, le ubbìe della vita quotidiana: una sorta di cronachismo borderline del tipo: “al mattino quando si alza a mio marito gli puzza l’alito”, oppure una sorta di iperrealismo ingenuo del tipo: “fontana, finestra, albero, mare”. Si tratta di un vero e proprio deposito di tecniche stilistiche ampiamente provate e assimilate dal corpo sociale della piccola comunità letteraria, e in tal senso queste tecniche sono ampiamente leggibili e digeribili. Per il vero, il problema della costruzione di una “nuova” poesia avrebbe richiesto un processo del pensiero molto più elevato e una gestazione molto più complessa che gli autori del minimalismo e dell’iperrealismo non sono affatto capaci di offrire.

 

 Vincenzo Petronelli

 

U SPUSALIZZIE

 

Atténəmə jêrə də Cérəgnolə

manəsciavə i parolə accomə e curtiddə;

mamminəmə jêrə andrəsànə,

propriə u pajeisə d’i zappatourə e di bbábunə

ndò i dìibbətə pəsèvenə 

accomə a na zochə ngánnə.

 

Na sciurnàtə appêsə də Márzə,

nonònnə facèttə mbáccə ‘a figghjə:

“Nan nə tənéimə daggè abbastánzə de uájə,

ng’i vuléimə scì a truè a fòrzə? Cə jə, tə fêtə

l’árjə ca tə nə vu scì da ddò?”, chə l’ucchjərə appəcciàtə.

 

‘A sêrə, doppə ca fərnavə də cusì,

mamminəmə assavə i fotograféje

da ìində o tərèttə,

adunénnə i pənzìirə nzìimə o ppànə da sope a távələ;

méndrə atténəmə sə sciavə a còlchə e sə sciuscelavə 

ch’i rraggiunamìinde sou; u prèstətə da cercà a bánghə, a máchən-a novə,

i bastárdə ch’ i mannèvənə a schəmmunəchə.

 

Traduzione

 

Il matrimonio

Mio padre era di Cerignola

maneggiava le parole come coltelli;

mia madre era andriese,

proprio la città dei contadini e dei “va bene”

dove i debiti pesavano

come una corda intorno al collo.

 

Un giorno incerto di Marzo

mio nonno disse rivolgendosi a sua figlia:

“Non abbiamo già abbastanza guai,

da andarceli a cercare a tutti i costi? Cosa c’è, ti puzza

l’aria, che vuoi andar via da qua?”, con gli occhi accesi.

 

Alla sera, dopo che finiva di cucire,

mia madre tirava fuori le fotografie

dal cassetto,

raccogliendo i pensieri insieme al pane sul tavolo;

mentre mio padre andava a dormire e si gingillava

con i suoi ragionamenti; il prestito da richiedere in banca, la macchina [nuova,

i bastardi che gli portavano sfortuna.

 

 

IL VOLO

 

Gli occhi tornano sempre

dove si sono posati.

 

Così ogni notte

liberato il mio inquieto colombo,

raccolgo

come contrabbandiere di confine

il povero bagaglio dei miei ricordi

ed attraverso i sentieri tracciati.

 

Sono ampi spazi 

disseminati nel bianco fragore di case

col volto dei millenni,

e suoni

riecheggianti nelle stanze 

dalle strade mute,

voci di bambini 

sospinti dal vento

per le valli.

 

Sono mani dure 

ed occhi rugosi di contadini 

asserragliati nelle loro memorie

squarciate dagli inverni,

e donne che cuciono

la trama sottile di un tempo impari,

inebriate di sole

che esonda dai muri d’ombra

le loro ali di cera.

 

Sono stazioni scomparse

tra anfratti di treni a vapore,

che rinfrangono accenti di giorni passati

mescolati

agli odori del mezzogiorno

ed alle grida dei venditori.

 

Sono sfumature di bianco e nero

e contorni di terra e sangue

che la storia

non cancellerà.

Gli occhi tornano sempre

dove si sono posati.

 

                                                                                                  

ENDRE ADY

 

Sopə a Murge l’alt-a déjə è assoutə l’autunnə;

ndruppəchènnə, d’a stràtə d’u Parədàne

nzìimə a l’árjə prênə d’a salzə de pumədourə,

u  sendibbə.

 

Mə nə sciavə ch’a rámbə d’i Mònàchə a joscə

e tuttə ‘na vòltə u foumə d’i calarounə

mə jagnèttə də voucə ca sfuscèvənə vəlocə,

vùulə de sckázzamurìiddə.

 

M’attucchèttə l’autunnə, scialpəscènne i parolə

ca mə zumbèrənə ngánnə da rêtə ‘e prêtə d’i cásərə

e u sendibbə fuscì p’i trasunnèddə, ‘i scàlə, 

i fənèstə maravəgliàtə.

 

Po ndrəsèttə a staggionə jalzèttə a cotə

e chə na rəsàtə l’autunnə sparəscèttə ‘o recone.

‘U pajéisə se ne scurdèttə a lèstə a lèstə, ma jej u vətìibbə

rêtə all’ômbrə du trênə p’a maréinə

 

Traduzione

 

Sulla Murgia è arrivato l’autunno l’altro ieri;

inciampando, dalla strada del Paredano

insieme all’aria pregnante della salsa di pomodori

mi arrivò.

 

Me ne andavo per la scalinata delle Monache nel pomeriggio

ed improvvisamente il fumo dei calderoni

mi riempì di voci sfuggenti, rapide, 

folletti in volo.

 

Mi toccò l’autunno, balbettando parole

che mi fecero trasalire dalle pietre delle case

e lo sentì fuggire per le stradine, le scale,

le finestre sorprese.

 

Poi improvvisamente l’estate tornò ad agitare la coda

e con una risata l’autunno si nascose al riparo.

Il paese se ne dimenticò velocemente, ma io lo vidi

dietro l’ombra del treno per la marina.

 

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

 

 

CUNGÊDE

(P‘A MÓRTE DE NU PUÊTE GIARGIANÊSE)

 

Josce

allassàtə i fənèstə apèrtə 

ca o segnôrə sté a murì!

 

A fənèstə sopə a Murgə

jə nu spècchiə,

na travèttə;

 

ddò jə uguàlə a ddéice 

solə o marángə,

pelonə o cìilə;

ddò jə uguàlə 

bənədittə

o pàne nèrghə,

lénguə də màrə 

o de tèrrə.

 

(“Os meninos subiram pela figueira

para eles comerem os frutos;

desde aquì os posso olhar;

desde aquì os posso ouvir;

Ah, que dìa tão lindo 

para eu animar a vida!”).

 

Joscə

allassàte i fənèstə apèrtə

ca o səgnôrə va déicə l’orazzionə!

 

Na saittêrə,

a Murgə jə na saittêr-a d’orə

d’orə biánghə

ca sə spəcchiascə

mbáccə o cìilə.

N’arcəpéinə,

a Murge je n’arcəpéinə d’argèndə

ca sciuppascə

u maləvèrmə

Íində a làne d’i nnuvələ .

 

(“Os camponesês sairam aos campos

para eles cortarem o trigo;

desde aquì os posso olhar;

desde aquì os posso ouvir:

que dìa tão lindo

para eu cantar da vida!”)

 

joscə

pə favorə

allassàtə i fənèstə apèrtə!

 

Hoje

por favor

deixai as janelas abertas!

 

 

CONGEDO

(IN MORTE DI UN POETA STRANIERO)

 

Oggi

lasciate le finestre aperte

che il signore sta morendo!

 

La finestra sulla Murgia

è uno specchio,

un miraggio;

qui è uguale dire

sole o arancio

pozzanghera o cielo;

qui è uguale 

agnello

o pane nero,

lingua di mare

o di terra.

 

(“I bambini sono venuti verso gli alberi di fico

per poter mangiare i frutti;

da qui posso vederli,

da qui posso udirli,

Ah, che bel giorno

per poter animare la vita!”)

 

Oggi

lasciate le finestre aperte

che il signore deve pregare!

 

Una feritoia,

la Murgia è una feritoia d’oro

d’oro bianco

che si specchia

di fronte al cielo.

 

Un erpice,

la Murgia è un erpice d’argento

che estirpa

il verminaio 

nella lana delle nuvole.

 

(“I contadini sono andati nei campi

a tagliare il grano;

da qui posso vederli,

da qui posso udirli,

Ah, che bel giorno

per poter cantare della vita!”)

 

Oggi

per favore

lasciate le finestre aperte!

 

Oggi 

per favore

lasciate le finestre aperte!

 

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

 

 

‘U TRABBUCCHE (22 ottôbrə d’u trəndanovə)

 

Na nòttə de chìitrə e trùunə

(lámbə ìində o cìilə d’a guèrrə)

rêtə ‘o stradonə d’a piccòlə

a reconə d’u mourə.

 

Na fəréitə ca jusckə

dôlcə, me stròzzə ngànnə,

d’o còrpə tou ca s’abbəgnascə

e ca u sèndə arrəspərè.

 

Ìində ‘o moute d’i pássə,

n’ômbrə affuchàtə de suldàtə

fáccə də bandéitə;

 

n’addorə də nêv ə

sopə‘a tèrr-a jársə;

po  m’avvrázzə u màrə.

 

Traduzione

 

IL CAPANNO DA PESCA (22 ottobre del trentanove)

 

Una notte di pietre e tuoni

(lampi nel cielo di guerra)

dietro lo sterrato della “piccola”

a riparo del muro.

 

Una ferita lancinante 

dolce, mi strozza in gola

dal corpo tuo che si soddisfa

e che sento respirare.

 

Nel silenzio dei passi

un’ombra soffocata di soldato,

faccia di bandito;

 

un odore di neve

su questa terra arsa,

poi mi abbraccia il mare.

 

 

SETTEMBRE

 

Dójə də finə Séttémbrə,

addaurə de chiouv-a préinə

i də mirrə nùuvə da rə candòinə.

 

M’arrecordə na uagnédd-a chiàinə

a l’appitə rèitə a u strataunə,

rə sckàimə sordə də rə uagneunə

da fourə a rə casərə d’u quartìirə,

povərə caserə də zappateurə,

ndò rə stéddə jérənə vaucə

də mùurtə, də sandə, də féstə.

 

   26/11/2011 

 

Traduzione

 

Una giornata di fine Settembre,

odore carico di pioggia

e di vino nuovo dalle cantine

 

Mi ricordo una ragazza incinta

camminare a piedi dietro lo sterrato,

le grida sorde dei ragazzi

fuori le case del quartiere,

povere case contadine,

dove le stelle erano voci

di morti, di santi, di festa.

 

 

NEVICATA

 

La volta di ruggine che accarezza i comignoli ai tetti, distilla come malva-

sia, i fumi ed i volti dell’inverno. Tra poco la neve coprirà l’antracite della 

strada; tra poco con i passi infeltriti echeggeranno abbrunati nel crepu-

scolo, contrappunti di voci, canti e risa di mani rudi e fate, di fuorilegge di vento, di nomi sorpresi dal tempo.

 

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

 

 

ANDONJÈTTƏ

 

Andonjèttə, ca stasêrə 

stè a ddè ffoure assolə,

assəttàtə tra u ləmonə 

e a rosamaréinə

(A bavèttə de tèrrə

allèndə u fagugnə).

 

A sêrə də fìnə staggionə

tênə nu ziffrə de vocə:

assummègghjə a na cáppə də réisə

de criatourə lundànə.

(A bavèttə də tèrrə

arrəzzəcascə u musckə).

 

Chéss-a nòttə appêsə ‘o màrə

tə pupətascə parolə jágrə

də lágrəmə e bərlándə,

də jòcchjərə stutàtə nzéinə.

 

19/5/2008

 

Traduzione

 

Antonia

 

Antonia,  che stasera 

sei fuori casa da sola,

seduta tra il limone

ed il rosmarino,

(Il refolo da terra

spezza il favonio).

 

La sera di fine estate

ha un vortice di voce:

somiglia ad un mantello di risa

di bambini lontani.

(Il refolo da terra

accapona la schiena).

 

Questa notte sospesa sul mare

ti bisbiglia parole aspre

di lacrime e brillanti,

di occhi spenti in grembo.

 

                                                                                           

UN AMORE DI ROSA

 

Mia cugina lasciò la scuola all’età di nove anni;

smise di svolazzare tra i campi del nonno

per trascorrere le giornate tra un angolo della cucina

ed il laboratorio di biancheria intima.

 

A quindici anni cominciò a ricamare il corredo 

nei pomeriggi di maggio di campane in penombra,

alla domenica quando le sartine affollavano i cortili;

tutto andava “come sempre fu e come sempre sarà”.

 

In quelle sere d’estate del millenovecentosettantanove

aveva serpi di sette canne ad arroventarle il ventre

nel tramestio di lettere che le ragazze del quartiere

si passavano di nascosto dagli spioncini sulle scale,

 

mentre dalla gradinata attendeva i “giargianesi”

che le avevano tracciato itinerari negli occhi,

truccati da parole di cristallo ed ossidiana

annodate attorno a promesse di fili di perle.

 

L’avvolgevano il profumo di tigli e di lavanda,

mescolati all’aroma dei fioroni e dei gelsi appena colti,

della menta  e delle piante di basilico, dell’odore terrigno

di lumache ed “acquasale” che inondavano le case contadine. 

 

Fu un attimo: poi il vento dal Castello voltò il suo sguardo ad est 

detergendo gli occhi dall’afrore di salsedine increspata dal favonio 

ed impolverando gli altari delle chiese già ammanniti;

così, tutto tornò ad essere “come sempre fu e come sempre sarà”.

 

 

PUGLIA

 

Scarno profilo calcareo

di pietre violate

nella luce in declivio

del tramonto d’oriente.

 

Rugoso sorriso d’ambra

segnato dall’afrore di stagione,

cicaleccio di giorni immoti

che rincorrono il tempo.

 

Aromi aspri ed inebrianti

di terra,

di sangue e vita

avvinghiati a recessi pagani.

 

Bianche lenzuola appese

ad un raggio di sole

esile linea di confine

tra pensieri e ferite.

 

Miraggio che assale

nelle brume del giorno,

creature d’argilla 

ubriache di storie e di ieri.

 

Giorgio Linguaglossa

 

 

NOVECENTO

(da un’intervista ad Edit Brück)

 

“Quanta stella c’è nel cielo

quanta cattiveria nel cuore dell’uomo?”

 

Echeggiavano nei miei giorni invernale di bambina

i versi slavati di Petőfi

tra i muri di scuola scrostati;

attendevamo l’uscita per correre,

raccolti i capelli nei foulards ed i passi appesantiti dalla neve

incuranti 

dei volti scheggiati dal vento dall’Alföld.

 

Amavo osservare nel pomeriggio

il destino imperscrutabile della Puszta

che adombrava i confini dell’Ucraina,

appena distinti dal fiato vitreo dalle stalle 

ed alla sera dalle luci a petrolio della csàrda,

dove le famiglie condividevano con gli stessi accordi

le morse della storia 

e l’alito della redenzione.

 

D’improvviso

vidi il cielo di cristallo della Tisza

abbrunarsi sotto un lugubre mantello corvino

come un’infinita notte polare, 

sulla stessa terra di mille e più natali ormai straniera

e la faccia e le mani sporcarsi di fango,

in un’agonia di ingiurie,di risa di scherno, di sputi.

 

Sentì il vento di violini farsi macabro,

nel dissolversi del volto di mio padre oltre il filo spinato

in un pomeriggio senza più sera,

con addosso l’odore acre della mortificazione 

e l’orizzonte inspiegabile prima, poi silente 

della cenere nell’aria.

 

Vidi corpi nudi, piagati, sezionati 

come cavalli in fiera dal respiro affannoso

ed avvertì il sapore dell’odio rappreso

sulle vesti e sulle cicatrici,

fino ad un’inattesa anestesia di mani pietose

a cingere le corazze ormai svuotate dei nostri accenti.

 

Ritrovai la libertà, ormai esangue 

con le sue nuove itineranti celle,

a soffocare il mio impeto di abbracciare il mondo per inveire,

quando capì di essere solo nuova carne 

per antichi rituali.

 

……………………………………………………………………...

 

Dopo sessant’anni

salpando di porto in porto a ricucire le vele,

mi accompagnano ancora quei versi slavati di Petőfi:

“Quanta stella c’è nel cielo,

quanta malvagità nel cuore dell’uomo?”

 

 

LA VISITA

 

Sairə də vuzzə

də finə agostə,

rə ciamareuchə annəsəlévənə

ndrəpəcannə,

appənneutə a na bavéttə d’ariə

ìində a la céstə.

 

Nzəghərdeunə na stascəddàitə,

la cambàin-a sordə də la Treneté,

na facci-a bianghə de fémmene,

na cappətéddə nérvə,

nu rəsariə.

 

Traduzione

 

Serata livida 

di fine agosto,

le lumache annaspaavano

inciampando ,

appese ad un filo d’aria

nella cesta.

 

Improvvisamente una sferzata,

la campana sorda della Trinità,

una faccia bianca di donna,

una mantellina nera,

un rosario.

 

 

MEMENTO

 

Vertigini di un tempo gitano

sgranavano gli occhi alla notte

come sguardi fuggenti in attesa

del viaggiatore in dissolvenza.

 

Improvviso un eco di danze popolari,

carezza di lievi pieghe di vesti plebee,

riflesso te(pe)rso di memoria.

 

 

OLOCAUSTO GITANO

 

La fornace esalava acre odor di morte

ma sotto ignari cantavano la sorte

uguale da mille anni di angherie:la sorte

che anneriva il cielo di acre odor di morte.

 

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

 

TEATRO

 

Oggi mi è tornato in mente

nella penombra di novembre

quel pomeriggio di quasi trent’anni fa;

il tuo respiro affannoso

prorompente dalla scala condominiale

(in perpetua sfida 

con il tuo asma bronchiale)

nell’ansia di raggiungermi in magazzino

prima che potessi sfiorare i fili 

nel quadro elettrico.

 

Teatro

erano le tue stanze,

le tue giornate affollate 

di plausibili orizzonti metafisici

in quei giorni di lanugine 

dei polverosi anni ottanta;

ammiravo gli infiniti spazi 

dei tuoi possedimenti

inestimabili

a qualsiasi stima di mercato.

 

Seppi per telefono

un giorno di marzo dell’altr’anno

che eri tornato;

il referto parlava di pochi mesi 

di prugnole selvatiche

e di tabacco da masticare.

Ripensandoci oggi,

ho sentito scrostarmi di dosso 

la vernice degli eventi.

Era teatro

ancora e sempre, solo, teatro,

la scena perfetta del congedo

rimasta immemore,

tra un volto di madonna illirica

e la processione dei creditori.

 

Giorgio Linguaglossa

 

PUESÉJƏ DƏ VÌIRNƏ

 

Quánnə s’arrəcurdavə də chiddə ddéjə lònghə də vìirnə 

pənzavə soprattuttə ‘a chiovə

ca affucavə i trasunnèddə d’u quartìirə

e jagnavə i vəgnàlə ddé vəcéinə.

 

S’arrəcurdavə précéisə-précéisə 

i fémmənə ca scèvənə fuscènnə-fuscènnə

accomə u cìilə sə faciavə də chiòmmə,

téndə ch’i mourə sə dèvənə vocə ìində a còrtə 

e i ffigghjə e e nəpotə s’accucchjèvənə lorə e lorə addé forə 

a aduné i pénnə da sopə ‘e firrə.

 

P’i criatourə jèrrənə déjə də fèstə

mmèzzə a cuddə mərvəronə də vocə 

ch’i ggiôvənə a cəcərəgghjé ìində o moutə addé fforə

(fòrsə dəcèvənə u rəsárjə o facèvənə

i mascéinə pə nan fángə sckatté l’òssərə)

mèndrə i vvècchje scèvənə arrəsədjènnə i vacéilə

pə méttələ sôttə e tèttə d’i lamiounə

pə tené l’ácquə p’a càsə (pənzavə ca jêrə strànə a véitə d’i ffémmənə,

chə tuttə cuddə tìimbə ca struscèvənə rêtə a ll’ácquə, mmèzzə a chiovə

e e fféilə a’ fundànə); po’ stənnèvvənə i rráchənə p’accumməgghjé i firrə,

a motə, a bəcəclèttə, i libbrə də l’attànə (ca cə mmògghjə a madònnə

facèvənə a palascéinə, scomodavə a tuttə a sacra famigghjə).

 

Tìimbə ddo jorə, scapulèvənə ll’ummənə d’a cambágnə e jêrə 

na côrsə a prəparé da mangé accomə ‘a vəscigljə də Natàlə;

jêre na pəfanéje də zjànə, cuggéinə, də mònnə 

rêtə ‘o Castiddə, də suldàtə e masciàrə, də stizzə də véinə,

də gastèmmə o guvèrnə, a guèrrə, a Mussoléinə e se cunzəlèvənə ch’a bənédəzzionə d’a chiovə e d’a musəchə. 

 

N’o səndibbə mé parlé d’i ddéjə də solə;

“u solə assucavə a tèrrə e affagugnavə a càpə” dəciavə; na nòttə

də quécchə énnə ndràtə, préimə də pəgghjé sunnə, me dəcèttə

ca spəravə d’arrué a féinə də cuddə vìirnə, ca jêrə picchə e bbunə

ca nan vədavə téndə ácquə e l’árvərə acchəssì bérəfáttə.

 

U vìirnə spəccèttə e partibbə suldàtə; 

mə chiamèttə u cumannéndə na matéinə də lugljə də fagugnə, pə ddirmə də chiamé a càsə, ca m’avèvənə cərcàtə.

 

 

Traduzione

 

POESIA D’INVERNO

 

Quando ricordava quei lunghi giorni d’inverno

pensava soprattutto alla pioggia

che inondava le strade del quartiere

e riempiva i vignali lì vicino.

 

Ricordava precisamente 

le donne che si affrettavano

appena il cielo diventava color del piombo,

tanto che i muri si avvisavano tra loro 

e le figlie e le nipoti si riunivano tra loro all’esterno 

per ritirare i panni da dagli stendini in ferro.

 

Per i bambini erano giorni di festa

in quella a cuddə ridda di voci

con le donne giovani a chiacchierare fuori in silenzio

(forse recitavano il rosario o facevano

gli scongiuri affinché non ci si spezzassero le ossa)

mentre le anziane andavano raccogliendo i catini

per sistemarli sotto i tetti dei depositi

per avere l’acqua per casa (pensava che la vita delle donne era strana,

con tutto quel tempo che perdevano per l’acqua,tra la pioggia 

e le file alla fontana); poi stendevano i teli per coprire gli attrezzi,

la moto, la bicicletta, i libri di suo padre (che se disgraziatamente

si fossero ammuffiti, avrebbe scomodato tutta la sacra famiglia).

 

Dopo un paio d’ore, rientravano gli uomini dalla campagna ed era  

una corsa a prəparare da mangiare come alla vigilia di Natale;

era tutta un’epifania di zii, cugini, di mondi 

oltre il Castello, di soldati e streghe, di sorsi di vino,

di bestemmie verso il governo, la guerra, Mussolini e si consolavano con la benedizionə della pioggia e della musica. 

 

Non lo sentì mai parlare di giorni di sole;

“il sole prosciugava la terra e soffocava la testa” diceva; una notte

di qualche anno fa, prima di prendere sonno, mi disse

che sperava di arrivare alla fine di quell’inverno, perché da parecchio

non vedeva così tanta acqua ed alberi così rigogliosi.

 

L’inverno finì ed io partì per il servizio militare; 

mi chiamò il comandante una mattina afosa di luglio, per dirmi 

di chiamare casa, perché m’avevano cercato.