I libri di poesia visti da una nuvola. Letti da Giorgio Linguaglossa – Tiziano Scarpa, Le nuvole e i soldi, Einaudi, 2018, pp. 114, € 11,50 – Marcello Fois, L’infinito non finire, Einaudi, 2018, pp. 69, € 10

 

Giorgio Linguaglossa

 

La parola è il significante di un significato rimosso dalla coscienza del soggetto. La parola è un sintomo. Un Simbolo scritto sulla sabbia del linguaggio. La parola copre un «vuoto».

 

La mia scarsa versatilità a scrivere haiku, e nemmeno «pseudo haiku» alla maniera di Zanzotto, deriva dalla mia formazione culturale. Nell’haiku ho sempre la sensazione che ci sia da qualche parte, nascosto, il soggetto che ammaina le vele o le mette a dritta per la navigazione in quell’oceano di sabbia che è il linguaggio. Perché parto dalla evidenza che: dove c’è il soggetto non ci sono io. E viceversa. ho il presentimento che nell’haiku ci sia sempre da qualche parte nascosto il soggetto che si gode la rappresentazione. Ho questo sospetto che non riesco a zittire.

 

Però sono convinto che nel circolo iconico e simbolico dell’haiku affiori, anzi, si riveli una grande evidenza: che dobbiamo a tutti i costi far sloggiare il soggetto (l’io) dal centro dell’universo e dal centro del discorso. Questo sospetto diventa certezza quando leggo certi libri come quelli di Tiziano Scarpa e Marcello Fois i quali ci consegnano una scrittura che si è completamente arenata e arresa alla frase narrativa. Di fatto, qui entriamo nella narrativa. Bisogna dirlo per onestà verso noi stessi e verso gli sparuti lettori di poesia. Sono libri di «poesia» totalmente narrativizzata, cioè sottoposti alla egemonia della forma-narrativa.

 

Non so se gli autori in questione abbiano scelto consapevolmente questa soluzione: la fine della forma-poesia e la sua fluidificazione nella forma-narrativa. Se così è va bene, buon per loro e per noi che possiamo subito chiudere i libri perché pensavamo che in una collana di poesia trovassimo dei testi di poesia; se invece non è così, dovremmo cercare la ragione perché la «poesia» è scomparsa per diventare completamente «prosa». Personalmente, sarei curioso di chiederlo agli autori stessi.

 

Il discorso sul perché la poesia si sia «suicidata» è molto complesso e risale a tanto tempo fa, quando qualcuno ha pensato di liberalizzare, democratizzare la «forma-poesia» per adattarla alla nuova civiltà mediatica. Nei primissimi anni settanta fu Montale a porsi questo problema che risolse a suo modo con Satura (1971) aprendo la «forma-poesia» alla penetrazione della «prosa». Ma sarebbe bene ricordare che Montale ci aveva anche avvertiti che si trattava di «falsa» prosa perché c’era un contro movimento interno alla «prosa» che interrompeva e disturbava lo scorrimento frastico della «prosa», e questa era appunto la poesia, che esisteva pur sempre frammezzo alla prosa anche se in una condizione saltuaria, di instabilità e di estrema vulnerabilità. Ma tant’è, nessuno ha più fatto caso a questa avvertenza di Montale e le cose da allora sono andate per il loro verso, cioè sono precipitate sempre più in basso.

 

Da allora, è avvenuto che non è stato posto nessun argine a questa resa totale della poesia alla prosa, e il risultato è questo che vediamo, questo che possiamo leggere nei libri di poesia di questi ultimi decenni e di oggi. Sarebbe stato bene che qualcuno in tutti questi decenni avesse avvertito di questo rischio, ma ormai è tardi per porvi riparo, oggi non possiamo che levare un grido postumo di allarme, è troppo tardi per porvi riparo. Si dirà: ma la poesia si è democratizzata, si è adattata all’uditorio mediatico! Può darsi, ma si è trattato di un rimedio peggiore del male che voleva curare. Adesso è troppo tardi per cercare un altro rimedio. Penso che allo stato degli atti bisognerà fare una conversione ad “U”, pur infrangendo le norme del codice della strada, è un rischio che ci dobbiamo accollare.

 

Penso che bisognerebbe de-localizzare il soggetto per localizzare la soggettività. Quando leggo la poesia di oggi, vengo preso dall’ambascia che sia una poesia scritta dall’io per l’io degli altri, come una scrittura pubblicitaria, una scrittura mediatica. È un sospetto terribile, che basta di per sé a farmi passare la voglia di leggere oltre le prime righe, quelle righe infatuate di encomiastica fiducia nel soggetto e di falsa soggettività. Quel «pieno» che è il soggetto con l’adiacenza delle sue parole mi mette letteralmente la nausea. Quel geroglifico (l’io) che tutti danno per scontato mi fa sorridere di noia.

 

Però l’esercizio dell’haiku è importantissimo, penso, per quei «tagli» (kireji è “parola che taglia”). Quanto poco utilizziamo i «tagli» in una poesia! – Eppure, i «tagli» sono essenziali nell’haiku! – Ecco, questo aspetto è una caratteristica preminente della poesia che qui stiamo pensando e facendo e che abbiamo chiamato la «nuova ontologia estetica». Senza i «tagli» la nuova poesia non esisterebbe nemmeno! I «tagli» e i «cambi di marcia» e le «peritropè» (i ribaltamenti, le conversioni), sono elementi assolutamente essenziali per la nuova poesia.

 

Leggiamo qui la poesia messa in copertina dal libro di Tiziano ScarpaLe nuvole e i soldi, Einaudi, 2018:

 

Nel cimitero della mia città
vengo a rubare i fiori.

 

Non li darò a una donna.
Non sono per nessuno.

 

Con gli occhi bassi, li offro
alla parola amore
che ho imparato dai morti.

 

Lasciando da parte per un momento se la poesia sia bella o brutta (esercizio che lascio volentieri ai numismatici), quello che mi suona posticcio è quell’«io» che soggiace ovunque e sottende tutta la poesia, quell’io invasivo e pervasivo che continua a guidare e governare il rapporto fraseologico. Ecco, di questo «io», di questo «io» epicentro avverto il suono fesso, incautamente imbonitorio, vi leggo un messaggio egolalico, con un qualcosa di ammonitorio e intimidatorio…

 

Giorgio Linguaglossa

[di questo «io», di questo «io» epicentro avverto il suono fesso, incautamente imbonitorio,
vi leggo un messaggio egolalico, con un qualcosa di ammonitorio e intimidatorio…]

 

Leggiamo un’altra poesia messa in copertina delle edizioni Einaudi, 2018 di Marcello FoisL’infinito non finire:

 

Esiste un altro tempo
Io l’ho visto
Prima che dal suolo scaturisse sangue
Prima del magma che forzava le crepe
Disteso con la bocca a terra
Ho atteso che si compisse a stagione

 

Qui addirittura l’«io» è nominato al secondo rigo. Tutti gli altri righi sono superfetazioni catacretiche dell«io» egolalico, sono sue emanazioni variopinte.

 

Indubbiamente, «la forza delle chiese risiede nel linguaggio che esse hanno saputo conservare».1] Anche il linguaggio poetico è diventato un linguaggio chiesastico, un catechismo che passa di mano in mano, di generazione in generazione come un sussidiario nel quale i catecumeni mettono le proprie generalità. È la forza di un linguaggio chiesastico dove il sacerdote è l’«io» e la messa sono le sue omelie pronunziate in pubblico. Penso che tutta questa materia lessicale metricamente posta nelle sue forme sia il prodotto di una presupposizione, di una congettura da tutti presa per vera e sul serio, al pari dell’esistenza di un «io» che legifera nel suo universo di parole. L’«io» di cui si discute nella poesia italiana degli ultimi cinque decenni e si continua a discutere nei libri di poesie pubblicati è nient’altro che un simulacro in similpelle di una presupposizione, simil plastica inzuppata nel deodorante di una cultura da supermarket. L’«io» di cui tratta la poesia epigonica altro non è che il surrogato di un simulacro in simil plastica.

 

Il linguaggio poetico non è affatto fatto per trovare l’oggetto: «io m’identifico nel linguaggio, ma solo perdendomici come un oggetto. Ciò che si realizza nella mia storia non è il passato remoto di ciò che fu perché non è più, e neanche il perfetto di ciò che è stato per ciò che sto per divenire».2]
Il linguaggio poetico non è il responsorio dove sono custodite le risposte alle istanze pulsorie e persuasorio dell’«io», ma è esattamente l’opposto, è il luogo dove risuonano le parole dell’Altro e degli Altri in un linguaggio estraneo, allotrio…

 

In questi ultimi giorni ho letto alcuni libri di poesia di vari autori. Che dire? Sono scritti in un buon italiano, un italiano accettabile, nulla quaestio, ci sono dei giri frastici al punto giusto, degli incisi morbidi, l’a-capo è sempre (o quasi) azzeccato, non ci sono indugi, né incertezze, ci sono delle belle strofe con le spaziature per far sembrare interessante l’acqua corrente. Tutto è a posto, sono scritture con i tacchi a spillo e la cravatta, ma non c’è il tema, non c’è quello che il titolo delle poesie indica. Si vede che non c’è un «Progetto» (scusate la parola maiuscola), si vede che gli autori non si sono mai posto alcun problema di cosa vuoi farci con il linguaggio, che cos’è la composizione poetica, se è una chiacchierata dell’io che sciorina le sue considerazioni o altro, si tratta di libere considerazioni, più o meno brillanti, ricchi di trovate e battute di spirito. Direi che c’è una ingenuità o sconoscenza di fondo sui fondamentali, su ciò che si intende debba essere una poesia… mi trovo in imbarazzo… non saprei proprio che cosa dire di questi libri, tranne che mi sembrano scritti in base ad un impulso irrefrenabile dell’io che vuole presentarsi sul palcoscenico… quando invece la poesia proviene di preferenza, anzi direi sempre, da un filtro, da una rarefazione. Moravia diceva che una poesia è un romanzo ma scorciato fino in fondo. Ecco, credo che Moravia abbia colto nel segno. Ma questi sono racconti prolissi e compositi, scritti proprio come dei racconti ma senza capo né coda. E questo proprio non è sufficiente per annoverare questi libri tra i libri di poesia.

 

(Giorgio Linguaglossa)

 

1] J. Lacan, Scritti, vol I, trad. it. a cura di Giacomo Contri, Einaudi, 1976. p. 276
2] Ibidem p. 293

 

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

 

[Tiziano Scarpa, da Le nuvole e i soldi, Einaudi 2018]

 

Mi fa venire

 

un corpo nudo mi fa venire
la foto di un corpo nudo mi fa venire
il video di un corpo nudo mi fa venire
un piede di donna che calpesta la marmellata mi fa venire
l’idea che ci sia chi viene per un piede di donna che calpesta la marmellata mi fa venire
una suola che spiaccica una gomma sul marciapiede mi fa venire
il marciapiede mi fa venire
un tubo di scappamento mi fa venire
un semaforo mi fa venire
una vigilessa mi fa venire
un viale alberato mi fa venire
un supermercato mi fa venire
le nuvole mi fanno venire
la luna mi fa venire
il sole mi fa venire
l’universo mi fa venire
gli angeli mi fanno venire
dio mi fa venire
il terremoto mi fa venire
le catastrofi mi fanno venire
la morte mi fa venire
i fulmini mi fanno venire
la luce mi fa venire
il mare mi fa venire
la gente nuda al mare mi fa venire
tutta la gente che viene mi fa venire
una persona particolare che so io che viene mi fa venire
fare l’amore mi fa venire
venire mi fa venire

 

Poesia scritta dalle parole #9

 

Non sei credibile
perché sei maschio.

 

Làsciatelo dire da noi parole
che in italiano infatti siamo femmine
la nostra desinenza è femminile.

 

(tra l’altro, è indicativo
che il sesso delle parole stia alla fine,
sulle estremità. Sarebbe come avere
cazzi e vagine aperte
sulle mani, sui piedi,
invece che protette fra le cosce
di due sillabe interne,
per esempio lamApad,
sofOfitt, temApest,
oppure sul cocuzzolo
Ofuoc, Aguerr, Efulmin, Odisastr)

 

Qualunque cosa dici
sei maschio quindi porco
puerile irresponsabile
ambizioso narciso.
E anche se soffri sarà sempre meno
della sofferenza femminile
che infatti è femminile.

 

Se il dolore è maschile
è perché è inferto dai maschi.

 

Lascia che siamo noi a rappresentarti,
a farti da avvocate.
Ogni riga è un processo
intentato da noi nei tuoi confronti
e questo ti conviene
perché mostrarti accusato
ti procura indulgenza
se non proprio una vera assoluzione.

 

*

 

Giorgio Linguaglossa

 

Marcello Fois da L’infinito non finire (Einaudi, 2018)

 

Congedo

 

Parti da te, figlio… da quello che sei.
Bisogna morire per imparare?
Mi chiedi.
Sì, figlio, per imparare qualcosa deve morire.
Tu non lo sai e non devi saperlo,
ma il cuore, con l’età, si restringe.
Non è più tanto capiente, immenso,
come all’inizio dei giorni.
Tra non molto gli abbandoni conteranno anch’essi.
Ma ora il tuo cuore è una piazza sconfinata,
e ti fa credere che sopravviverai
senza dover rinunciare a niente,
capirai, col tempo, quanto sia difficile trattenere
ogni cosa, ogni pensiero, ogni persona…
Sei nell’euforia di tutti gli inizi.
Qualcuno dovrà morire perché tu viva.

 

Domani, quando chiamerai, io non ci sarò,
ma solo perché tu possa esserci,
quando chiameranno te.

 

Arandona Star

 

Lunghezza: 163 metri.
Posti in prima classe: 364.
Velocità di crociera: 60 nodi.
Tonnellaggio lordo: 12 847 tonnellate,
prima di essere riarmata fino a 15 501 tonnellate…
Arandora festeggia il primo anno,
diventando Arandora Star, nave da crociera
di gran lusso…
Come un adolescente che si svegli, d’improvviso, donna.
Avreste dovuto vedere come svettava fiera e sfacciata
Nella sua livrea brillante al porto di Southampton.
Dieci anni a viaggiare dall’Inghilterra alla Costa est
del Sudamerica:
Vittoria, rio de Janeiro, Santos, Florianopolis,
Montevideo, Mar del Plata,
fino al 1939.
Oh sì, verso il ’39 c’è poco da ridere,
l’Europa è uno zerbino scosso da una massaia energica
che pretende pulizia.
All’Arandora si toglie l’abito da sera,
dodici operai lavorano per quattro giorni
ininterrottamente
per ridipingerla di grigio.
Questi sono gli ordini.
La signora elegantissima è diventata un’anziana dimessa
Che stenta a mantenere i segni dell’antica eleganza
Negli intarsi di legni africani, nelle modanature decò,
nei tappeti persiani, nelle travature di ghisa…
Di quella e delle altre navi tuttavia
non si ricorderanno gli arrivi,
ma solo le partenze, che le partenze valgono
solo per chi resta…