Giorgio Linguaglossa
Intorno al 1919 Osip Mandel’štam scrive un saggio Sull’Interlocutore e punta la sua attenzione critica sul problema ignorato dai simbolisti: «Con chi parla il poeta?». Punto cruciale della nuova poesia acmeista era, nel pensiero del poeta russo, di ripristinare un corretto rapporto con l’«interlocutore», anzi, il presupposto filosofico sul quale si basava il suo concetto di poesia acmeista era quello di individuare un «nuovo» rapporto con il «pubblico» e con l’«interlocutore». La «nuova poesia» avrebbe dovuto identificare un nuovo pubblico e un nuovo concetto di «interlocutore». Era una posizione strategica e una posizione filosofica.
Oggi mi sembra che questo sia il problema centrale per la poesia italiana: Con chi parla la poesia di Bacchini? Con chi parla la poesia di Attilio Bertolucci? La poesia di Bertolucci, penso a La camera da letto, richiede una grande lentezza. La poesia paragiornalistica che verrà dopo Satura di Montale richiede invece una grande velocità. Come mai questo fenomeno? Che cosa è cambiato nella poesia italiana? Con chi parla la poesia post-montaliana (post Satura, del 1971)? Quale è l’«interlocutore» della «nuova poesia»?
Io penso che la poesia del presente e del futuro debba avere al centro della propria ricerca la questione della memoria e dell’oblio della memoria. E riproporrei la storica domanda di Mandel’štam: «con chi parla il poeta?». Rispondo: «con la Memoria».
La Signora Miniver sembrava un’opera d’arte.
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Mario M. Gabriele, dalla raccolta di prossima pubblicazione Registro di bordo
La Signora Miniver sembrava un’opera d’arte.
Risalimmo le scale fino alla mansarda
per vedere La Bella Elena di Offenbach
-Portami fuori da questo luogo – disse Catherine.
Le ricordai I canti dell’esperienza e dell’infermità.
Uno chiese un calice d’oro per l’altare
senza aver mai incontrato le carmelitane.
A Vladivostock pagammo in sogno 30 kopejki
per passare il Golden Bridge.
Un avvoltoio si posò nella steppa
scegliendo il meglio della rappresaglia.
– Presto- disse Cristian,
-bisognerà rivedere i passepartout -.
E non eravamo ancora certi se ricaricare gli orologi,
dare il veleno ai topi.
Paulin si fece avanti tenendo tra le mani
un biglietto per Okinawa.
Le condizioni anomale del tempo toccarono le rose
tranne la Primavera di Botticelli.
.
Mauro Pierno
un tempo, quale tempo,
se la figurazione sfugge
se oltre la siepe un confine spinge
se nella mano
un vortice appare di consolanti nubi
che non dovrai schiarire
che non dovrai riscrivere
mai.
un cielo sereno,
profondamente sereno e sgombro di nuvole.
Un antefatto.
Inquietante.)
.
Francesca Dono
Non conosco la donna che cammina.
Neanche gli altri spinti solo da un invisibile risacca.
Sono tutti qui. Al mercato rionale dei vestiti incrociati. Una folla vagante. Fedra raccoglie quello che trova nel pantano. In un minuto qualunque.
L’autunno sale alle bocche spogliate
anche quest’anno. A dispetto dei sospiri più fitti. Sound di
onde a digiuno. Un déjà-vu palpitante. Nero crostaceo del freddo.
Appendix
(Lacera et misera bestia non orare pro nobis .Tuos utero feroce. In abbundantia disordinem ordinatus pescis )
.
Gino Rago
Versi da alcune meditazioni sul Quadridimensionalismo
Su La Quarta Dimensione
“La madeleine*. Il selciato sconnesso.
Il tintinnio di una posata.
Le chiavi di casa perdute in un prato.
Diventano in noi la resurrezione del passato?
Fanno riapparire il tempo nello spazio?
[…]
Il passato si ripete nella materia grazie alla memoria.
Il tempo perduto esce dalla profondità delle quattro dimensioni.
Perché l’uomo è spaziotempo.
Perché al profondo, nel lungo e nel largo
soltanto l’uomo lega ciò che è stato.
Il tempo perduto. Il tempo passato.
Gli infiniti punti dello spazio e gli infiniti istanti del tempo
possono vibrare insieme solo nella Memoria.
E il presente è la scheggia di tempo che ricorda il passato.
La morte qui non c’entra. […]”
Mario M Gabriele
Un giorno ho chiesto a uno psichiatra, amico di vecchia data, se l’uomo è in grado di vivere senza la memoria. È possibile, mi disse, solo se è una sua libera scelta o se è un paziente affetto da Alzheimer. Il ricordo può essere positivo, se gli elementi che lo determinano si correlano al piacere della vita, o negativo se i dati ad esso correlati, sono dolorosi e incancellabili e quindi di sradicamento dall’archivio della memoria.”Il cervello, scrive Sergio della Sala su “Micromega” n7 -2010 – pag. 37 ha una doppia funzione, anche secondo Umberto Veronesi, che si lascia attrarre dall’idea del cervello double face.”
Nota è la sua intuizione nell’affermare che “siamo largamente imperfetti con le nostre debolezze e le nostre difficoltà, con un cervello che ha un emisfero cognitivo, razionale, logico, matematico, e l’altro emisfero che elabora sentimenti, emozioni, fantasie”.
Su questi indirizzi operativi il cervello conserva o abbandona la memoria secondo il rapporto che essa ci propone.
Ma c’è anche un altro punto di vista: quello di Edoardo Boncinelli, che in fatto di funzionalità della mente e del suo operare con la memoria ne spiega la ragione osservando che “la mente è tutto ciò che accade nella nostra testa. C’è anche una periferia che noi chiamiamo cuore, perché molte delle nostre emozioni le sentiamo nei vasi che passano vicino al cuore”. Da qui l’accettazione o il rifiuto di ciò che domina la nostra vita con il ricordo.
Scrive Barbara Spinelli su “Il Corriere della sera” che Il Novecento è stato il secolo ammalato di amnesia: Non a caso, Claudio Magris citando il libro della Spinelli: Il sonno della memoria, rileva che” tutto il tema del volume ruota intorno al sonno della ragione e sottolinea il valore razionale, oggettivo e non elegiaco-sentimentale della memoria. Come il sonno della ragione, anche quello della memoria può generare mostri”.
Giorgio Linguaglossa
Trascrivo un commento di Annalisa Arci all’ultimo libro di Maurizio Ferraris, Postverità e altri enigmi, Il Mulino, 2017 –
«Secondo i postmoderni il pensiero forte o metafisico non è più in grado di fornire fondamenti e principi assoluti del conoscere. Dal momento che l’uomo deve abituarsi a vivere senza certezze e solo con opinioni, la sfida che il pensiero debole vuole lanciare è sul piano della ragione o, meglio, sul piano dell’idea di ragione, per sostenere una concezione della stessa che sia in grado di farsi carico della contraddizione dell’esistente e di incontrare l’essere come ombra, traccia, ricordo, un essere consumato indebolito e proprio per questo degno di attenzione. I referenti essenziali sono Nietzsche, Heidegger, Gadamer, Deridda, Ricoeur, Foucault e i decostruzionisti francesi. Il punto saliente di questo modo di fare filosofia consiste nella critica di ogni tecnica e prodotto scientifico e di ogni forma di filosofia che non attinga ad una dimensione originaria a cui la scienza non può avere accesso, di fronte alla quale le scienze naturali rivelano la loro impotenza.
Pensiero debole ed ermeneutica sono le due declinazioni del postmoderno più note in Italia e che hanno suscitato reazioni da parte di Pietro Rossi (Le città filosofiche. Per una geografia della cultura filosofica italiana nel Novecento, Il Mulino, 2004), Carlo Augusto Viano (Và pensiero. Il carattere della filosofia italiana contemporanea, Einaudi, 1985) ed Enrico Berti (Le vie della ragione, Il Mulino, 1987). Reazioni convincenti, con cui concordo.
In Postverità e altri enigmi si parte proprio da qui. Da una domanda sui tratti che qualificano e definiscono l’epoca contemporanea ma anche (implicitamente) sul modo in cui nel dibattito contemporaneo si intendono la ragione, la verità e la filosofia stessa.
Nella prima dissertazione Ferraris dimostra che il postmoderno è l’antefatto della postverità, in quanto quest’ultima non è altro che la diffusione del postmoderno al di là delle mura universitarie. La postverità non è un fenomeno marginale, ma aiuta a “cogliere l’essenza della nostra epoca, proprio come il capitalismo costituì l’essenza dell’Ottocento e del primo Novecento e i media sono stati l’essenza del Novecento maturo”. Esaltare il falso, l’irragionevole e la volontà di potenza equivale a parlare alla pancia della gente, veicolando al tempo stesso una convinzione molto più pericolosa: la verità è solo un’antica metafora e ciascuno di noi ha la sua verità che diffonde e difende a colpi di mouse.
Nella seconda dissertazione troviamo il passaggio dal capitale alla documentalità, ossia il medium tecnico che rende possibile la postverità. Con un sempre maggiore senso di onnipotenza da parte delle masse, assistiamo al tramonto della stagione del capitale (le merci sono sostituite dai documenti e il lavoro salariato da una quantità spropositata di lavoro gratis sul web). All’era del sostentamento segue l’era del riconoscimento, in cui uno vale uno e di cui i selfie sono la più evidente espressione.
L’ultima dissertazione propone un rimedio alla postverità. Il rimedio poggia sul riconoscimento dell’insufficienza delle teorie della verità ermeneutiche (che Ferraris chiama ipoverità) e analitiche (che chiama iperverità). La verità non è più una relazione a due posti, tra ontologia ed epistemologia, ma a tre posti. Esiste anche la tecnologia. È attraverso la tecnologia che facciamo la verità. Ferraris conclude che ci sono fatti proprio perché ci sono interpretazioni e che per “fare la verità” bisogna ricorrere ai fatti.»
Io penso che proprio il concetto di de-materializzazione impiegato da Ferraris ci può aiutare a comprendere il valore irrefutabile della memoria per l’azione umana e per la stessa ontologia della condizione umana. La memoria è quella «cosa» per eccellenza de-materializzata che ha il suo luogo nella mente, ma non in una zona localizzata della mente ma, a quanto pare, in un luogo-senza-luogo-della-mente, in un non-luogo. La condizione umana semplicemente non potrebbe esistere senza la memoria, altrimenti saremmo ridotti a un algoritmo, l’uomo sarebbe un robot.
Ecco perché la memoria assume un ruolo così importante nella poesia di livello di questi ultimi decenni e nella «nuova ontologia estetica», o «nuova fenomenologia estetica», come piace dire a Petr Kral. Non sarebbe stato possibile la costruzione della tecnologia senza l’ausilio della memoria, se l’uomo non avesse potuto contare su questa straordinaria risorsa filogenetica.
Nei tempi attuali quando la memoria viene minacciata da torme di barbari (vedi il trionfo della Trump Truth e della Salvini-Di Maio Truth che si configura come solidarietà di una massa, di webeti, contro le macchinazioni della élite dei “poteri forti”) in arrivo, è bene che la poesia e l’arte ritornino a creare sulle fondamenta della memoria individuale e collettiva.
http://www.filosofia.rai.it/speciale/la-memoria/345/13936/default.aspx
[ “Questa conoscenza, o re, renderà gli egizi più sapienti e più capaci di ricordare, poiché con essa è stato trovato il farmaco della memoria e della sapienza.”
Platone, Fedro
A cosa serve la memoria? A ricordare, certo, ma più profondamente, serve a pensare, a riflettere, a conoscere. Su questi temi si concentra la prima puntata di “Zettel. Filosofia in movimento”.
Maurizio Ferraris evidenzia come le nuove tecnologie ci abbiamo fornito archivi e strumenti sempre più potenti, e sempre più facili da utilizzare, tramite cui conservare la memoria. Platone, nel Fedro, criticò la scrittura proprio perché stimolava la memoria esteriore a discapito della memoria interiore. Ma già in lui si affacciò l’idea della mente come tabula scriptoria, un concetto che arrivò fino a Locke e poi a Freud.
Nella sua rubrica, Paolo Virno si interroga sulla possibilità di ricordarsi del presente e, partendo da questa osservazione apparentemente contraddittoria, affronta il tema del deja vu, inteso come un pervertimento del ricordo del presente. La memoria assume un ruolo fondamentale, riprende Ferraris, perché abbiamo l’impressione che perdendone anche un solo pezzo potremmo perdere parte della nostra identità. Mario De caro, però, non è d’accordo in proposito e porta i suoi controesempi. Seguono gli esperimenti mentali di Maurizio Ferraris, che chiariscono l’importanza che nella vita quotidiana diamo alla memoria.
Dalla Columbia University di New York Achille Varzi, compie un excursus all’interno della storia del pensiero occidentale sul tema della memoria, offrendo il controcanto della tradizione analitica. Il discorso poi passa a Mario De Caro che affronta all’interno dell’aula diversi aspetti del problema – il troppo ricordare o il falso ricordo – per poi tornare a Maurzio Ferraris e alla sua risposta alla domanda: a cosa serve la memoria? ]
Lucio Mayoor Tosi
Le parole destano l’inconscio, su questo non vi è dubbio. Danno modo alla coscienza profonda di esprimersi con altrettante parole, anziché con le immagini sfigurate dei sogni. Quando le parole chiamano, altre parole dovranno rispondere; in eco diversa perché si sta compiendo, con la poesia, uno scavo veritativo: l’inconscio è verità, la ragione cosciente no. E tuttavia le parole hanno il limite di essere scatti fotografici, o riprese di breve durata assoggettate a un solo punto di vista. Ecco perché la frammentazione, la molteplicità dei punti di osservazione che ruotano intorno all’oggetto. Il che fa supporre che l’inconscio sia vita multidimensionale, o di diversa dimensione rispetto al conscio. Il nulla che ci appare è dato da sostanze tra loro incompatibili; due dimensioni non possono comunicare con una terza, una quarta o più, se non parzialmente. Le parole vanno gettate, ok soppesate, ma poi gettate nella caverna dell’inconscio di modo che ne derivi l’eco – di un fiore che non c’entra, di una nave sul tavolo in cucina…
Le prime parole, il primo verso, sono sassi che buttiamo su ferite che sembrano rimarginate. Gioie e dolori. Se gettassimo farfalle, altre farfalle apparirebbero. La natura a specchio dell’inconscio è piena di risorse, visive e linguistiche.
Oscuramente:
Antonio Riccardi agisce con più poesie-ricordi sullo stesso tema, da punti di vista che offrono pensieri e ricordi diversi. Nella Nuova ontologia estetica si tenta invece l’emersione in un diverso spazio temporale, appunto multidimensionale, dove tutto coesiste. Donatella Costantina Giancaspero, ad esempio, nelle poesie che ho letto chiarisce nell’adesso i suoi ricordi; ne emerge il non detto, ma nelle vicende anche anche il rumore dei passi; dettagli trascurabili, che non sarebbero propri dei ricordi che (ci)raccontiamo. Ma dice bene Giorgio Linguaglossa, queste sono proprietà esclusive della letteratura.
Io, tra una cosa moderna e l’altra, dipingo ritratti; dico sempre che col ritratto ci puoi parlare per sempre, finché vivi. Con la fotografia, no; perché lì eravate in montagna, lì era il bisnonno a cavallo… la fotografia conserva i ricordi, il ritratto rende possibile il dialogo ininterrotto. Abita l’assenza, la rende costantemente viva. Ma le poesie riescono a fermare le zone d’ombra, momenti del tempo interiore.
Gino Rago
Antonio Riccardi fra tempo e spazio premoderni e quadridimensionalismo poetico.
Da Il profitto domestico del 1996 a Gli impianti del dovere e della guerra del 2004 fino a questi Tormenti della cattività del 2018 cui Giorgio Linguaglossa indirizza efficacemente la sua ermeneutica mi pare che a ben guardare Antonio Riccardi, con una sua coesione interiore e una fedeltà tematico-stilistica di rara sobrietà linguistica , si cimenti ancora nelle sue meditazioni liriche intorno a un mondo circoscritto che nella sua mitologia personale il poeta avverte come totale, attraversando la memoria.
Ma la memoria non ha senso compiuto se non interpella l’idea di tempo, la percezione dello spazio e il come il poeta si colloca nel tempo e nello spazio.
Il tempo e lo spazio con i quali si misura questa recente poesia di Antonio Riccardi sono tempo e spazio premoderni. Ma in che senso premoderni? Detto in estrema sintesi Antonio Riccardi adotta il tempo ancora scandito dai ritmi delle stagioni e della vita, con tutti i riti a tali ritmi collegati, e adotta lo spazio come luogo antropologico di identità forte e di comunità coesa.
In questo tempo e in questo spazio-luogo antropologico giocano un ruolo decisivo ancora la mano e la memoria. Perché ho detto ancora la mano e la memoria? Perché, ciascuno con il proprio linguaggio poetico e con il proprio vissuto, anche nella esperienza poetica di Edmond Jabès, com’è oggi in Antonio Riccardi, furono individuati sia da Donatella Bisutti, sia da Giorgio Linguaglossa la mano e la memoria come nuclei poetici centrali del loro fare poesia. Quindi la memoria è scrittura, possiamo dire anche nel caso di Antonio Riccardi che tornando a Cattabiano, nel 1930, in un tempo e in un luogo precisi, il cimitero, alla lunghezza, all’altezza, alla profondità, Riccardi aggiunge la memoria. Dunque, approda alla poesia quadridimensionale, quella cui si riferisce in punto preciso sull’io poetante la nota critica di Giorgio Linguaglossa (“[…] un «io» analogale che è in grado di osservare se stesso e lo spazio e il tempo, analogamente a quanto accade all’io che si muove nelle quattro dimensioni, ciò che consente all’io «speculare» di prendere le misure dell’io reale e di muoversi in contiguità ad esso[…]”
Esemplari sono questi 6 versi di Antonio Riccardi
1930
Alla prima foliazione del podere
dopo la morte invernale di Antonio
Riccardi, solo la siepe di bosso
alla fine del giardino, confine
sul dirupo tra casa e coltivo,
era rimasta forte e splendente.
Giorgio Linguaglossa
La memoria, il tempo, lo spazio e l’oblio della memoria
Caro Gino Rago,
tu sollevi qui una questione gigantesca: il ruolo e la funzione che il tempo e lo spazio hanno nella fondazione della «memoria», e come questa memoria fitta di tempo e di spazio entri nella
forma-poesia. Hai toccato un punto cruciale della nuova poesia, chiamiamola «nuova fenomenologia estetica» come dice Petr Kral o «nuova ontologia estetica», come diciamo noi, la cosa non cambia granché.
E qui entriamo in una materia incandescente: la «cattività della memoria» ed i suoi «tormenti». Io, ad esempio, mi sento libero da qualsiasi «tormento» della «memoria». Negli ultimi due giorni sono stato tormentato dalla mancanza di un ricordo, non ricordavo il nome di un mio carissimo amico morto di cancro 20 anni fa; ieri ho telefonato ad un amico comune che me lo ha detto. Incredibile, qualcuno aveva cancellato dalla mia memoria quel nome, proprio il nome di un carissimo amico. Perché? Perché proprio lui e non altri? In realtà in questi ultimi anni sono stato letteralmente soverchiato dalla dimenticanza della memoria, tendo a non ricordare nulla, o meglio, c’è qualcuno nella mia mente che mi sottrae furtivamente i ricordi dalla memoria, e così sono costantemente impegnato a ricostruire con la volontà quel po’ di memoria che mi resta… no, no, tranquilli non è l’Alzheimer, è l’oblio della memoria che mi ossessiona, ho questa malattia, penso che vivo in un tempo che fabbrica su scala industriale questa malattia. E il bello è che gli altri uomini non se ne accorgono, o fingono di non accorgersene. La mia poesia di questi ultimi dieci anni è governata da questa categoria, o malattia, dall’oblio della memoria, non posso farci niente per arrestare questo sisma 9 della scala Mercalli.
Come tu ben dici: «Dimmi che uso fai del tempo e dello spazio e ti dirò che poesia scrivi». È profondamente vera questa massima. La Musa è figlia di Mnemosine, questo i greci ce l’hanno insegnato… senza memoria si scrive sull’acqua, quelle che si scrivono oggi sono poesie scritte sull’acqua, non basta mettere in fila delle parole per fare poesia; se la poesia non contiene la memoria, è aria fritta, parole in libertà.
Nella poesia di Riccardi la memoria c’è ma come un fondale sul quale si stagliano gli eventi della memoria. Ma la memoria è ancora integra! Almeno, io la percepisco come integra, ancora
non colpita dalla febbre dell’oblio della memoria. Ho citato non a caso la poesia di Brodskij Lettera a Telemaco del 1972, perché lì c’è l’albeggiare di questa terribile sindrome che ha invaso silenziosamente il mondo moderno e gli uomini del nostro tempo. Sono passati davvero molti anni e la malattia si è aggravata. Così, io ogni giorno sono costretto a recuperare i miei ricordi, a passarli in rassegna, uno ad uno, per non perderli. La mia poesia non è altro che la registrazione in parole sulla carta di questa costante perdita di tracce. Anche il primo libro Uccelli (1992), a rileggerlo oggi, reca vistose tracce di questo esantema della memoria che si disfa lentamente, poi sempre più velocemente…
Dicevo che la poesia di Riccardi ha questa caratteristica, che lui in mente ha, chiara e potente, la visione ricordo del podere di famiglia di Cattabiano. Da questa chiarezza memoriale ne deriva che la sua poesia posata è su uno zoccolo unidirezionale, ancora governata, anche se in penombra, dall’io legiferante… io purtroppo ho perduto per sempre la chiarezza denotativa dell’io legiferante, e quindi la mia poesia recherà le tracce di questa perdita. Ad esempio, nella nuova ontologia estetica (o nuova fenomenologia estetica) il tempo e lo spazio, questi Fattori T ed S entrano vigorosamente nella forma-poesia distruggendone la «forma», la struttura lineare che governa il tempo e lo spazio; ecco la ragione dei «frammenti» che invadono la nostra poesia (nostra dei poeti della nuova ontologia o fenomenologia estetica).
In fin dei conti, un poeta è un prodotto di potentissime forze storiche, anche le forme sono il prodotto di potenti forze estetiche; non c’è niente da fare contro questa soverchiante forza nientificante che ha prodotto la crivellazione della forma-poesia. Chi leggesse la poesia di Mario Gabriele, la tua o quella di Donatella Costantina Giancaspero, di Steven Grieco Rathgeb, di Alfonso Cataldi e di altri non potrebbe non rendersene conto. È un fenomeno ineluttabile che sarebbe da insani tentare di rigettare, anzi, proprio accogliendo e rielaborando queste forze telluriche la poesia si può rinnovare dall’interno, dalle sue profonde ragioni ontologiche e fenomenologiche…