Due poesie di Mario Gabriele da Registro di bordo, Gino Rago da I platani sul Tevere diventano betulle (di prossima pubblicazione) e Una poesia di Anna Ventura, Paola Renzetti, Giuseppe Gallo con Il Punto di vista di Giorgio Linguaglossa, Penso dove non sono, dunque sono dove non penso – Il Punto di vista di Umberto Galimberti

 Giorgio Linguaglossa

 

Due poesie di Mario Gabriele, da Registro di bordo (di prossima pubblicazione)

 

5

 

Un fiorire di nuvole dopo un cocktail flambè

con sette aromi di frutti di bosco.

 

Nel resort turisti in quarantena

attendevano il volo della Ryanair.

 

L’uomo su risciò preparava tragedie ed esche.

– Che muoia come gli altri -, disse il Gran Giurì.

 

Mosur lasciò 7 peccati capitali

in onore del Signore.

 

Michael Rottmayr è con Abele a Vienna

nella Osterreichische Galerie.

 

A Coney Island rimanemmo

a raccogliere le polveri di Ground Zero.

 

Un benefit donammo ai ragazzi del Bengala.

 

Te l’avevo detto Ray che tra gli avari del quartiere

c’era anche la famiglia Hobbs.

 

Padre Orwell parlò con Burton

dicendo: -fai questo in memoria di me-.

 

-Sorry! ma non so come uscire da questo labirinto.

Capisci, è come stare davanti a una partita a scacchi-.

 

Da quando daddy è andato via è rimasto solo il serenase.

Le chaussons di Bovaline sono ouverture.

 

Jodie vive a Norwich.

Non so come dirle ma è tutto un diverbio con la natura.

 

Matsuo Basho ha ristretto il mondo in 17 sillabe haikai.

Ci stiamo dentro come un soffio di mistral sulla Camargue.

 

6

 

Berenice non ha altro da fare

che mettere blazer di vecchia data.

 

La stagione resiste all’epitaffio.

Ci vorranno mesi per sistemare la biblioteca,

 

Perilli è tornato a chiedere il XVI volume

della Letteratura Italiana.

 

Scrivere è un viaggio come il pensiero di Heidegger.

Al vicolo 7 di Piazza Bologna nessuno ha una vita privata.

 

In un inverno del 93 cademmo nel crinale.

Vennero voci dal buio. Soccorsi stradali.

 

Il fiume era rientrato nell’alveo.

Carlo già pensava alla brossura della Gita domenicale.

 

Ada, la magnifica Ada dai sette lumini e corde di chitarra,

si era concentrata sugli steli di gramigna.

 

Una piccola colazione portò fantasmi e sentimenti abrasi.

Tengono ancora i profumi di Calvin Klein.

 

Lo stato delle cose è nel tempo.

La Canducci ha azzerato il debito.

 

Siamo in bilico. Ofelia si trastulla con l’oboe.

La notte ha rubato la luna.

 

Arrivo sul fronte delle dislocazioni verbali

con Dibattito su amore e Il Dente d’oro di Wels.

 

Brillano i fuochi d’artificio la notte di San Giuseppe.

 

El Paradise, ci pensi, è tutto un tremore di sogni!

Un paesino di sintassi crudele ha aperto check-in e ogni limite.

 

Giorgio Linguaglossa

 

Una poesia di Anna Ventura (traduzione in francese di Edith Dzieduszycka)

 

La neve di ovatta

 

Da bambina accendevo
le candeline vere
sull’alberello vero;
ci mettevo anche la neve di ovatta,
col rischio di bruciare la casa;
la stufa di terracotta emanava
un calore buono, mentre,
fuori,
l’aria tagliava come una lama.
Oltre i vetri incrostati di ghiaccio,
c’era il cielo, carico di stelle; qualcuna,
ogni tanto, si staccava,
precipitava verso la terra buia.
Aspettavo di crescere,
aspettavo di non essere più bambina
per uscire da quella prigione di ghiaccio.
Il viaggio è stato
più lungo del previsto.

 

La neige de ouate

 

Petite fille j'allumais

les vraies bougies

sur l'arbre vrai;

j'y mettais aussi la neige de ouate,

en risquant de brûler la maison;

le poêle de terre cuite émanait

une bonne chaleur, tandis que

au dehors,

l'air tranchait comme une lame.

Derrière les vitres incrustées de glace,

il y avait le ciel, chargé d'étoiles; l'une d'elles,

parfois, se détachait,

précipitait vers la sombre terre.

J'attendais de grandir,

j'attendais de n'être plus petite fille,

pour sortir de cette prison de glace.

Le voyage a été

plus long que prévu.

 

 

Due poesie di Gino Rago da  I platani sul Tevere diventano betulle (di prossima pubblicazione)

 

4 Dio chiede una recensione...

il femminile di Dio il suo lato destro

ha chiesto una recensione ai poeti della «nuova ontologia estetica».

di certo le poetesse dell’ombra lo sanno che Dio è dappertutto,
che rovista con garbo nella pattumiera

 

Il maschile di Dio  il Suo lato sinistro
frequenta le bische clandestine, i ricoveri


aperti  tutta la notte, staziona tra le vetrate,

tra i bassifondi dei porti

e gli slums delle periferie di Hopper.

 

Ci ha provato anche con Lucio Mayoor Tosi, Grieco-Rathgeb e Talia
ma non gli hanno dato retta, andavano di fretta,


per una recensione sulla sua creazione
perché i tre lasciano di sé frammenti dappertutto


e cercano il tutto in ogni frammento,
un seme di cocomero, un chiodo, un filo di spago.

 

Dio si è rivolto ai cacciatori di immagini
perché i tre in poesia rapinano banche,


la poesia è una rapina in banca: si entra, si spiana la rivoltella,

si cattura l’ attenzione, si prendono i soldi e si scappa,


si scompare, per poi ricomparire in altre banche

ebbene, questi versi annoiano Dio, l'Onnipotente

 

non sopporta questi ladruncoli che giocano a fare
scaccomatto.


Cicche e carte stracce sui marciapiedi,
dalla tavola calda aperta tutta la notte odore di cipolle,

 

un fiore nel vaso parla con lo specchio:
«è perfettamente inutile che Lei caro signore si ecciti,


faccia quello che sa fare. Faccia lo specchio»

 

15  Risponde il filosofo Erésia

Alla  domanda di Herbert: «Dove passerai l’eternità?»,

risponde il filosofo Erésia: «cara Signora Circe, caro Signor Nessuno,

 

il poeta da finisterre parla con l’oceano e scrive le sue parole sull’acqua:

non mi aspetto l’eternità e so che nessun verso oltrepasserà la morte.

 

I poeti lo sanno da sempre: le poesie sono mortali».

 

Giorgio Linguaglossa

 

Una poesia inedita di Paola Renzetti

 

Le margherite

 

Tra rive d’erba
giacciono gigli rifiutati
una sedia e una dispensa
dalla bocca aperta.

 

Si passa oltre e non è pianto.

 

Non offende il cibo ingoiato
non c’è più nulla
nella mano che getta, niente
nei cassetti spalancati.

 

Per l’accumulo, finti castori
demiurghi maldestri, siamo
già tutti assolti

 

reintegrati per nuove imprese
con denti affilati, lassù sugli spalti.

 

A Gennaio si parte:
nel posto riparato del prato
in solitaria ascesa riverberano
delle piccole e strane margherite.

 

 

Una poesia inedita di Giuseppe Gallo

 

La spesa

 

I dollari al collo
Le sterline pendule alle orecchie
Gli euro di carta sugli occhiali.

 

Gioiosamente vibra
il capo che va e viene
lungo la scala mobile e il vuoto.
Saetta la mano d’unghie rosse
tra i flutti amaranto e viola delle extentions.

 

Gioiosamente esamina e ricorda.
Inquieti sentieri
anelli d’argento.
Quartieri malfidi
scarpette d’alluminio.
Marine deserte
cappelli di fibra di cocco.

Altri robot, naturali e innaturali,
inghiottono salive e rimorsi e brividi malfermi
sulle rotaie che incavano muri di buio.

 

Soppesa la borsa, la plastica rigonfia fa da specchio.
Di sé rimira
la candida fuliggine sul volto
il fervido stridore della gonna
la nuova curva dei seni.
Soppesa il momento, ma il tempo straripa.
Bisogna riandare, avanti e indietro, gioiosamente.
Gioiosamente.
Refusi di noi stessi.

 

Giorgio Linguaglossa

 

Il punto di vista di Giorgio Linguaglossa

«Penso dove non sono, dunque sono dove non penso»1]

«L’io è strutturato esattamente come un sintomo. Non è altro che un sintomo privilegiato all’insegna del soggetto. È il sintomo umano per eccellenza, la malattia mentale dell’uomo».2]

 

Umberto Galimberti scrive che:

 

«la poesia, di cui si alimenta il mito, è una produzione di significati, che non lascia parlare le cose come sono, ma impone alle cose il parlare dell’uomo. Questa imposizione non è l’imporsi delle cose ma ciò che l’uomo impone alle cose, la violenza poetica sul contenuto quale si dà».3]

 

La scrittura poetica è «una produzione di significati», un atto di im-posizione del linguaggio alle cose, quando invece la posizione del poetico dovrebbe essere un ritrarsi dal linguaggio, sostare un passo indietro, un attimo prima che la parola ci raggiunga, dall’esterno, con la sua dote di «imposizione», di Gestell avrebbe detto Heidegger; se invece andiamo oltre, se procediamo verso il linguaggio, con attese, con im-posizioni, con Gestell, ecco che quel linguaggio ci imporrà le sue regole di condotta e le sue scelte, il nostro linguaggio verrà intaccato dalla «imposizione» dei linguaggi che provengono dall’esterno, dal mondo dell’utilitarietà, dal mondo delle condotte, da ciò che è redditizio, dagli interessi in competizione, dall’interesse dell’io alla propria auto conservazione e alla propria im-posizione.

 

Il problema è molto complesso e non è riducibile in poche battute, ma certamente l’ideologema dell’io che impera nel mondo tecnologizzato delle società mass-mediatiche non aiuta a pensare in poesia e a scrivere buona poesia, l’io ha bisogno dei linguaggi dell’utilitarietà, della comunicazione, della im-posizione, non può farne a meno pena la sua implosione; l’io è una macchina infernale che lavora sempre per la propria sopravvivenza, lavora per i progetti di auto organizzazione dell’io, non può fare altrimenti, è un epifenomeno delle ideologie utilitaristiche che imperversano nella comunità linguistica e mediatica, non può sfuggire alla ontologia della im-posizione.

 

La totalità della poesia che si fa oggi nell’Occidente mediamente acculturato, anche tra i poeti più accreditati, altro non è che un epifenomeno dei linguaggi mediatici, scrittura utilitaria, impositiva, progettante, narrativizzante, quella che più volte ho chiamato scrittura assertoria, suasoria, incantatoria, che è l’altra faccia della medaglia di una scrittura definitoria, che va con un linguaggio imperativo, giustificato e giustificatorio.

 

Qualcuno mi chiederà: «che cosa intendi per linguaggio giustificatorio»? Risponderei così: con linguaggio giustificatorio intendo la posizione del «poeta» che si pone in un angolino del «creato» e di lì si interroga e interroga il «creato» alla ricerca di un «senso» che giustifichi la propria esistenza. Ebbene, questa è una finzione e un falso, è una posizione imbonitoria, assolutoria, in quanto si assume un Gestell, un podio, e ci si mette in posa, in alto sullo zoccolo, proprio come una statua, e di lì si sciorinano pensieri meditabondi, efflorescenze di narcisismi. La poesia che si fa oggi è ricchissima di cotali «poeti» che oggi sono di moda e vengono celebrati. Un nome per tutti: Franco Arminio, incomparabile nell’adamismo della sua positura assolutoria dalla quale sciorina incensamenti alla pacificazione, buonismi e banalismi in grande quantità.

 

Quando si sale su un podio, qualsiasi podio, la Musa fugge a gambe levate.

 

Qualche giorno fa un poeta mi ha scritto che non «condivide affatto il [mio] giudizio apocalittico» sulla morte della poesia italiana, che invece godrebbe, a suo parere, di ottima salute. Al di là dei convincimenti personali sull’argomento, tutti legittimi e tutti opinabili, penso, e ho tentato di argomentare questo mio pensiero in varie mie pubblicazioni, che la poesia di questi ultimi decenni sia stata fatta per esigenze privatistiche, psicologiche, per ragioni di status symbol, per personalismi, per narcisismo, senza alcun progetto culturale e consapevolezza storico culturale della poesia del novecento. La mia impressione, spero di sbagliarmi, è che la poesia italiana che è stata scritta in questi ultimi decadi e che si continua a fare oggi è una forma di scrittura privata priva di valore culturale, un genere di scrittura che non contiene alcuna regola, alcuna episteme direbbe un filosofo. Una scrittura imbonitoria.

 

 

Giorgio Linguaglossa

 

Il punto di vista di Umberto Galimberti

«Sta forse giungendo a compimento il senso espresso da più di duemila anni della nostra cultura che, come dice il nome, è “occidentale”, cioè “serale”, avviata a un “tramonto”, a una “fine”. L’evento occidentale è sempre stato presso la sua fine, ma solo ora, con Nietzsche, e poi con Heidegger e Jaspers, comincia a prenderne coscienza. Ma che cosa davvero finisce proprio oggi quando sembra che tutto il mondo insegua senza esitazione la via occidentale, fino ad annullare la specificità che finora ha reso riconoscibile l’Occidente e soprattutto la sua distanza dall’Oriente? Finisce la fiducia che l’Occidente aveva riposto nel progressivo dominio da parte dell’uomo sugli enti di natura, oggi divenuti, al pari dell’uomo, materiali della tecnica.»*

 

* U. Galimberti Gli equivoci dell’anima, Feltrinelli, 1990 p.93

 

«Per staccarsi dal pensiero rappresentativo occorre, a parere di Heidegger, un salto. Saltando ci lasciamo cadere. Dove? Là dove già siamo: nell’appartenenza all’essere. Dal salto nasce “già” in cui si era. Il rilassamento (Gelassenheit) che sorge dal “ritrovarsi” nel “già” in cui si era. Il rilassamento vive la serenità (Gelassenheit) del “ritorno” nel luogo in cui “da sempre” si era, e col ritorno il piacere del ricordo e del recupero.

[…]
Se salvezza, come dice Heidegger, è “ricondurre qualcosa alla sua essenza”, in modo che il qualcosa non vada perduto, la tecnica potrà salvare se, invece di appropriarsi dell’ente, si dispone all’essere che, nel suo appropriarsi originario (Er-eignis), ospita l’accadimento di ogni ente.
Di fronte all’incondizionatezza dell’accadimento, l’uomo si rilassa, depone l’ansia che accompagna ogni calcolo e ogni progetto e si dispone nella Gelassenheit, che significa a un tempo “abbandono delle cose alle cose (die Gelassenheit zu den Dingen) e “apertura al mistero (die Offenheit fur das Geheimnis)”.

 

Il mistero è l’incalcolabilità dell’essere, di ciò che ci fa pensare, del “proprio pensiero”, in cui si custodisce il destino (Geschick) che fa dell’uomo un pensante, un appropriato (zugeeignet) all’essere. Rispetto a questo mistero, la Gelassenheit, come pensiero meditante in cerca del senso (besinnliche Denken), pur superando il pensiero calcolante delle rappresentazioni tecniche (das rechnende Denken) non approda a una trasparenza assoluta.

 

Gelassenheit significa allora ritrovarsi nell’essere come pensosità purificata da ogni residuo soggettivistico, e quindi silente per l’inadeguatezza del linguaggio a disposizione, oppure affidantesi alla parola poetica che non enuncia ma evoca. Gelassenheit significa anche lasciar essere (ein-lassen), quindi non volere. Il silenzio, la parola poetica, il non volere si profilano così come possibilità alternative al calcolo, all’enunciato, alla volontà di potenza con cui l’Occidente, nelle sue espressioni tecniche, annuncia se stesso. L’alternativa richiama l’ambiguità della provocazione e lascia le possibilità dell’epoca nella sospensione del “salto (Sprung)”, nell’attesa che aspetta il dischiudersi dell’ambito di ciò che ci viene incontro (das Gegnen). In questo senso, scrive Heidegger:

 

“Il fatto fondamentale della Gelassenheit è restare in attesa (Warten). Restare in attesa vuol dire lasciarsi ricondurre all’Aperto di ciò che ci viene incontro. […] L’uomo infatti è affidato (gelassen) a ciò che viene incontro in quanto gli appartiene originariamente. E gli appartiene perché, fin dall’inizio, è ad-propriato (ge-eignet) a ciò che viene incontro. Per questo l’attesa si fonda sulla nostra appartenenza a ciò di cui siamo in attesa.”

 

Nell’attesa, l’unico atteggiamento da assumere, proporzionato all’ambiguità della provocazione e consono alla carenza del tempo in quanto tempo d’attesa, è quello, scrive Heidegger, di:

 

“Dire contemporaneamente di sì e di no al mondo della tecnica. Ma in tal modo la nostra relazione a tale mondo non si spacca in due e non diventa incerta? Al contrario, la nostra relazione al mondo della tecnica diventerà invece semplice e serena. Lasceremo entrare i prodotti della tecnica nella nostra vita quotidiana e nello stesso tempo li lasceremo fuori, li abbandoneremo a se stessi come qualcosa che non è nulla di assoluto, perché dipendono a loro volta da qualcosa che non è nulla di assoluto, perché dipendono a loro volta da qualcosa di più alto. Tale atteggiamento del contemporaneo dir di sì e dir di no al mondo della tecnica vorrei chiamarlo, con un’unica parola: abbandono di fronte alle cose, abbandono delle cose alle cose (die Gelassenheit zu den Dingen)”

 

L’abbandono e il rilassamento che ne consegue sono atteggiamenti che nascono quando il pensare tecnico non si costituisce come unico pensare, ma si lascia comprendere in quel più ampio orizzonte dischiuso dal pensare meditante (besinnliche Denken) che non ha nulla di tecnico, perché la sua attenzione non è rivolta all’impiego delle cose, ma alla ricerca del loro senso, ivi compreso il senso sotteso allo stesso impiego tecnico delle cose. L’estinguersi del pensiero meditante “ci sottrae il terreno su cui poter sostare senza pericolo all’interno del mondo della tecnica” e allora, scrive Heidegger:

 

“La rivoluzione della tecnica che ci sta travolgendo nell’era atomica potrebbe riuscire ad avvincere, a stregare, a incantare, ad accecare l’uomo, così che un giorno il pensiero calcolante sarebbe l’unico ad avere ancora valore, ed essere effettivamente esercitato”.

 

In questa eventualità, secondo Heidegger, si nasconde per l’umanità il pericolo “più grande di una terza guerra mondiale”, perché in gioco è l’essenza dell’uomo, la sua possibilità di essere apertura e dischiusura al mistero dell’essere».4]

 

«Di fronte all’incondizionatezza dell’accadimento, l’uomo si rilassa, depone l’ansia che accompagna ogni calcolo e ogni progetto e si dispone nella Gelassenheit, che significa a un tempo “abbandono delle cose alle cose (Die Galassenheit zu den Dingen)” e “apertura al mistero delle cose (die Offenheit fur das Geheimnis)”.

[…]

 

Gelassenheit significa allora ritrovarsi nell’essere come pensosità purificata da ogni residuo soggettivistico, e quindi silente per l’inadeguatezza del linguaggio a disposizione, oppure affidantesi alla parola poetica che non enuncia ma evoca. Gelassenheit significa anche lasciar essere (ein-lassen), quindi non volere. Il silenzio, la parola poetica, il non volere si profilano così come possibilità alternative al calcolo, all’enunciato, alla volontà di potenza con cui l’Occidente, nelle sue espressioni tecniche, annuncia se stesso…

 

Scrive Heidegger:

 

Il tratto fondamentale della Gelassenheit è restare in attesa (Warten). Restare in attesa vuol dire lasciarsi ricondurre all’Aperto di ciò che ci viene incontro. […] L’uomo infatti è affidato (gelassen) a ciò che viene incontro in quanto gli appartiene originariamente. E gli appartiene perché, fin dall’inizio, è ad-propriato (ge-eignet) a ciò che viene incontro. Per questo l’attesa si fonda sulla nostra appartenenza a ciò di cui siamo in attesa (…)

 

Dire contemporaneamente di sì e di no al mondo della tecnica. Ma in tal modo la nostra relazione a tale mondo non si spacca in due e non diventerà incerta? Al contrario, la nostra relazione al mondo della tecnica diventerà invece semplice e serena. Lasceremo entrare i prodotti della tecnica nella nostra vita quotidiana e nello stesso tempo li lasceremo fuori, li abbandoneremo a se stessi come qualcosa che non è nulla di assoluto, perché dipendono a loro volta da qualcosa di più alto. Tale atteggiamento del contemporaneo dir di sì e dir di no al mondo della tecnica vorrei chiamarlo, con un’unica parola: abbandono di fronte alle cose, abbandono delle cose alle cose (Die Gelassenheit zu den Dingen)» ».5

 

 

 

1] J. Lacan tr. it. L’istanza della lettera dell’inconscio o la ragione dopo Freud, in Scritti, Einaudi, Torino, 1974 vol. I p.512
2] Id., Il seminario, vol. I Gli scritti tecnici di Freud, Torino, 1978, p. 20
3] U. Galimberti Il tramonto dell’Occidente, Feltrinelli, 2005, pp. 407 e segg.
4] Ibidem p. 408
5] Ibidem p. 409