Il senso di sgomento che coglie necessariamente chiunque voglia tracciare un quadro, sia pure approssimativo, dell’attività letteraria di Lars Gustafsson, “senza alcun dubbio uno degli intellettuali con la maggior quantità di ottani che oggi esistano in Svezia”, come ha scritto recentemente Tommy Olofsson, critico letterario dello Svenska Dagbladet, è stato espresso in modo esemplare da Carl-Gustaf Bjurström nell’introduzione alla traduzione italiana del romanzo
di Gustafsson Preparativi di fuga del 1991. Dopo avere infatti sottolineato più volte la straordinaria intelligenza dello scrittore, la sua particolare capacità di far sentire intelligenti anche i suoi
lettori per dimostrare poi loro di colpo di trovarsi comunque ad un livello intellettuale
di gran lunga superiore al loro, il suo adolescenziale gusto per il gioco, avvertibile ovunque nella sua produzione, la componente “aerea” della sua prosa musicale, sconfinante nel verso, Bjurström forniva un elenco delle competenze di Gustafsson che merita di essere citato in extenso: “Sa tutto (filosofia, linguistica, scacchi, giardinaggio, letteratura, geografia, economia, pedagogia,
aerostatica, geologia, politica, musica, storia della letteratura, astronomia, informatica, golf, alpinismo, cucina, archeologia, tennis, fisica, comunicazioni, tedesco, tabacco, strategia, matematica, storia della filosofia, storia della fisica, avvenire dell’Europa, sociologia,
economia, diritto, paleografia, paleontologia, parapsicologia, parafulmini, Mozart, Monteverdi, Marx, Moby Dick ecc.).”
Anche cercando infatti di dividere in tre soli blocchi principali (narrativa, saggistica, lirica), senza entrare in più complesse questioni tematiche, la produzione dello scrittore tra l’anno dell’esordio,
il 1957, e oggi, il panorama che si presenta è già numericamente sterminato, dal momento che Gustafsson ha pubblicato (e continua a pubblicare) una media di due libri all’anno. E se Bjurström
all’inizio degli anni Novanta, nel suo elenco leonardesco, lo accreditava, senza esagerare, di circa 64 volumi (“romanzi, poesie, saggi, trattati di filosofia, resoconti di viaggi, racconti, articoli,
riassunti, antologie, collezioni scelte, serie...”) oggi lo scrittore ha superato le cento opere a stampa, senza contare gli interventi su giornali e riviste, i contributi scientifici isolati, le conferenze e
così via. E tutto questo senza interrompere, fino all’età di settant’anni nel 2006, l’attività di ordinario di filosofia all’Università di Austin, in Texas, dove lo scrittore si era trasferito nel 1982. In precedenza era stato redattore per un decennio, dal 1962 al 1972, della più prestigiosa rivista letteraria svedese, “Bonniers Litterära Magasin”, si era addottorato a Uppsala nel 1978 con uno studio, ormai classico, Språk och lögn (Lingua e menzogna), sulla capacità della comunicazione verbale di trasmettere in modo esaustivo le esperienze individuali, e si era imposto all’attenzione, nel dibattito nazionale e internazionale, per le sue prese di posizione, spesso provocatorie, su temi politici e letterari.
Al grande pubblico Gustafsson è noto soprattutto come romanziere e non è senza significato che il suo precoce debutto sia avvenuto proprio con un romanzo, Vägvila (Sosta), seguito, tra il 1959 e il 1966, da altre opere narrative di ampio respiro, fra le quali si distingue soprattutto Den egentliga berättel- sen om Herr Arenander. (La vera storia del signor Arenander), una serie di appunti e di riflessioni in prima persona sul senso profondo della vita, sui rapporti tra scienza e letteratura, sulla densa ed inestricabile rete di ricordi dai quali si alimentano tanto la nostra vita intellettuale quanto l’interscambio con gli altri. È un’opera paradigmatica e assai rappresentativa della tecnica di Gu- stafsson, tenuta miracolosamente in bilico, come una sorta di autobiografia spirituale, tra la meditazione filosofica, il ricordo personale e l’immagine immediatamente poetica anche nella sua for ma prosastica.
Il libro, che non a caso concludeva una trilogia interpretabile anche come un viaggio all’interno della propria anima, apriva così la strada all’impresa più ardua tentata dallo scrittore in campo narrativo, la complessa pentalogia, apparsa tra il 1971 e il 1978, che avrebbe consolidato definitivamente, anche in campo internazionale, la sua fama. Già il titolo emblematico del lavoro, Spric- korna i muren (le crepe nel muro), lascia intuire come lo scrittore intenda indagare a fondo non solo una sua crisi individuale di valori e certezze ma il problema, molto più vasto e scoraggiante, del fallimento dei miti e degli pseudo capisaldi della società occidentale nella seconda parte del Novecento. Partendo dal primo romanzo della serie, Herr Gustafsson själv (Il signor Gustafsson in persona), chiaramente autobiografico e nel quale è raffigurata un’infanzia complicata da problemi scolastici, da un difficile rapporto con i coetanei e da una precoce solitudine, Gustafsson analizza in Yllet (La lana) la Svezia rurale di una malintesa parità sociale, passa attraverso l’apparente sicurezza della bene ordinata burocrazia svedese, che attacca violentemente in Familjefesten (La festa in famiglia) e in Sigismund (Sigismondo), per approdare infine alla calma disperazione delle pagine di En biodlares död (Morte di un apicultore), che conclude la pentalogia. Qui il dolore fisico, espresso di nuovo in forma di appunti, lasciati questa volta da un apicultore in fuga dal mondo, sembra essere, alla resa dei conti, l’unica realtà tangibile in un mondo che forse comincia e finisce con la nostra sola dimensione corporale. L’opera, che s’impone come una profonda meditazione filosofica sul significato ultimo della vita umana, è tra le più significative dello scrittore.
Né la vena narrativa di Gustafsson ha dato il minimo segno di affievolirsi dopo l’exploit della pentalogia, perché nel 1991 lo scrittore – con En kakelsättares eftermiddag (Il pomeriggio di un pia- strellista), storia di un posatore di maioliche ormai ai margini della società, abbandonato da tutti, ma con uno sguardo ancora lucido sugli interrogativi fondamentali della vita – ha scritto un nuovo capolavoro sullo sfondo di un’Uppsala invernale e quasi pietrificata dove il paesaggio ostile e la presenza inquietante di una casa abbandonata, nella quale il piastrellista è chiamato a prestare la sua opera, divengono gradualmente una summa dei temi dello scrittore e, nello stesso tempo, una metafora della condizione umana. Più recentemente con Dekanen (Il decano) del 2003 e con Den amerikanska flickans söndagar (Le domeniche della ragazza americana) del 2006, il romanziere ha impresso una nuova svolta alla sua narrativa dimostrando di sapersi muovere con la stessa abilità affabulatoria e la stessa profondità speculativa anche nel campo del giallo. Se, nel primo dei due libri, la storia – apertamente e provocatoriamente autobiografica come tutta l’opera di Gustafsson – di un professore universitario del Texas fuggito in circostanze misteriose e rifugiatosi in una località alle porte del deserto, lascia ancora ampio spazio alla fantasia e all’invenzione ludica pur con un contorno di misteriosi de-litti, quella del secondo libro è ispirata a fatti realmente accaduti e ricostruisce, pur riaffermando l’esigenza dell’invenzione da parte dell’autore, la vicenda della ventottenne Colleen Reed brutal-mente uccisa dal serial killer Kenneth Mc Duff poi giustiziato nel 1998. Qui l’osmosi tra poesia e prosa, tra narrazione e lirica, che è caratteristica dell’opera di Gustafsson, trova la sua piena compiutezza nella forma del romanzo in versi.
“Se Gustafsson infatti – come ha scritto ancora Tommy Olofsson – è un opinionista politico, un filosofo appartenente al mondo accademico, un drammaturgo, un grande romanziere, egli è però soprattutto un poeta”. Il suo esordio come lirico avvenne nel 1962 con la raccolta Ballongfararna (I viaggiatori in pallone), cui hanno fatto seguito, nel corso di mezzo secolo, almeno una ventina di altre sillogi nel segno di una poesia spesso a metà strada fra l’idillio e la speculazione filosofica, come è evidente nella raccolta Kärleksförklaring till en sefardisk dam (Dichiarazione d’amore a una dama sefardita) del 1970, ispirata al romanzo di Defoe, con un Robinson Crusoe che, attraverso le esperienze legate al suo naufragio, riesce a conoscere meglio sé stesso e a scoprire l’amore nello stesso modo in cui la donna ebrea del titolo libera la capacità d’amare del poeta e modifica la sua vita. In Förberedelser för vintersäsongen (Preparativi per la stagione invernale) del 1991, domina invece un’atmosfera di malinconia ironica con il tema dell’inverno-vecchiaia che si approssima invitando il poeta a chiudere bene, contro il freddo del corpo e dell’anima, le fessure delle sue finestre. Qui, come altrove nelle poesie di Gustafsson, sono i ricordi lontani e trasfigurati – descritti in termini metafisici che ricordano, come ha acutamente osservato Lars Forssell, i quadri del miglior Dalì o di De Chirico – ad ispirare la vena lirica del poeta con un senso tutto nuovo di riscoperta e con un invito alla meditazione filosofica.
Certamente non insensibile ai richiami della migliore tradizione poetica del suo Paese (da Heidenstam a Ekelöf fino al coetaneo Tranströmer), Gustafsson ha dimostrato con la raccolta Sonetter (Sonetti) del 1977 di saper padroneggiare magistralmente anche la rima, ma la struttura preferita delle sue liriche è altrimenti quella della poesia-racconto, capace di esprimere compiutamente, nella scelta essenziale dell’immagine e della parola poetica, la combinazione tra ricordo e speculazione filosofica, tra introspezione e analisi. “La poesia – ha scritto nel 1973 – similmente alla dimostrazione matematica può riuscire o fallire. Quando riesce è come se una verità fosse stata portata alla luce. L’archeologo passa la sua spazzola sulla sabbia. Strato dopo strato viene rimosso da una mano cauta. Improvvisamente appare qualcosa: si rivelano i contorni di un oggetto”.
L’immagine del poeta-archeologo, che pazientemente cerca di arrivare alla concretezza di una scoperta, è stata ripresa da Per Svenson e Lars Gustaf Andersson in un importante studio critico del 2008 sulla poesia di Gustafsson, Rit- ten över Bodensjön (La cavalcata sul la- go di Costanza), che riprende assonanze tematiche e stilistiche presenti non solo nella produzione di classici come Goethe e H.G. Wells, ma anche in quella dei nostri Calvino e Zanzotto. Per Calvino viene nominata la familiarità con un sistema di passaggi ultrarapidi grazie ai quali il lettore può muoversi avanti e indietro nelle pagine senza mai ripercorrere la stessa strada, mentre, a proposito di Zanzotto, il punto di contatto con Gustafsson viene individuato nel tema della sfera legato a quello dell’innocenza.
Ma l’analisi più attenta e accurata della produzione lirica di Gustafsson rimane con ogni probabilità quella effettuata nel 1998 da Per Wästberg (scrittore egli stesso e attualmente presidente della commissione Nobel) nell’introduzione al primo volume dell’opera omnia del grande poeta svedese. Wästberg – partendo da un’immagine simile a quella che Camilleri ha usato recentemente a proposito dell’opera di Sciascia definendola come una sorta di personale elettrauto cui egli ricorre nei momenti in cui sente scariche le sue batterie – caratterizza la lirica di Gustafsson come il suo “armadietto delle medicine [...] sempre più necessario con il passare degli anni e a cui si ricorre per trovare atmosfere, condizioni, impulsi, echi della propria storia, intuizioni che si sentono proprie ma che non si è mai riusciti ad afferrare del tutto”. Secondo Wästberg, ciò che più affascina nella poesia di Gustafsson è la sua capacità di destare un così grande numero di associazioni, di essere attraversata da così tante illuminazioni, conversazioni interne, ardite scalate: “Sfoglio le sue pagine e trovo un verso, un’immagine, che fa espandere di colpo il senso della vita, che inumidisce le mucose, che prepara il pensiero a lunghe peregrinazioni seguendo la propria bussola”. Inattaccabile dall’usura del tempo la lirica di Gustafsson non appartiene a un adesso o a un allora, ma a qualcosa che li trascende e che il poeta riesce a fermare miracolosamente sulla carta, continua Wästberg, come una palla da tennis ferma per un centesimo di secondo sopra la rete.
Si può senz’altro essere d’accordo con il presidente della commissione Nobel per quanto riguarda la straordinaria capacità di Gustafsson di trasportare il lettore in un universo poetico di immagini e di pensieri che di colpo schiudono soluzioni inattese e lasciano intravedere ciò che si credeva di aver irrimediabilmente perduto o di non essere mai in grado di visualizzare completamente. In questa sua funzione il poeta è “un illuminista e un augure” e il suo mondo lirico può essere paragonato a un arcipelago dove “dall’alto le isole si assomigliano e formano un disegno che abbiamo imparato a distinguere sulla carta “, ma dove in qualsiasi momento lo scenario può cambiare di colpo e dove il lettore viene messo di fronte a una nuova dimensione, a un nuovo mondo. L’uomo di Lars Gustafsson forse non ha misteri ma vive comunque in un mondo misterioso, in cui ogni disegno ne cela un altro e dove interpretazioni diverse aprono la strada a sale e caverne sotterranee diverse, simili a quelle descritte da Jules Verne, nel cui interno forse si trovano le parole cifrate capaci di diradare l’enigma della vita.
Al centro dell’opera del poeta campeggia l’inesausto desiderio dell’indagine speculativa, della ricerca insistente di una verità, ma il verso si presenta sempre limpido e cristallino e le sue poesie, come ha osservato felicemente Per Wästberg, “possono correre come cani impazziti sul ghiaccio senza però incontrare mai qualche ostacolo”.
Enrico Tiozzo
Kjell Sundström, KM idé
A cura di ENRICO TIOZZO
Poesie di Lars Gustafsson
Vita
La vita scorre attraverso il mio tempo,
e io, un volto non rasato,
dove le rughe sono profonde, analizzo le tracce.
Pensieri come bestiame,
avanzano sulla strada per bere,
estati perdute ritornano, ad una ad una,
profonda come il cielo viene la malinconia,
per la pianta di carice che fu,
e le nuvole che allora rotolavano più bianche,
eppure so che tutto è uguale,
che tutto è come allora e irraggiungibile;
perché sono al mondo,
e perché mi prende la malinconia?
E gli stessi lillà profumano come allora:
Credimi: c’è un’immutabile felicità.
Ballata sui sentieri del Västmanland
Sotto la scritta visibile di stradine,
viottoli di ghiaia, passaggi, spesso con un pettine
d’erba nel mezzo tra profonde orme di ruote,
nascosta sotto i mucchi di rami secchi in zone nude,
ancora chiara nel muschio screpolato,
c’è un’altra scritta: i vecchi sentieri.
Vanno di lago in lago, di valle
in valle. S’affondano talora,
si rendono palesi e grandi ponti
di pietre medievali li trasportano sopra ruscelli scuri,
si sperdono alle volte sopra rocce nude,
li si smarrisce facilmente nei terreni paludosi, così
inavvertiti che un attimo ci sono,
e l’altro no. C’è una continuazione,
c’è sempre una continuazione, se solo
la si cerca, questi sentieri sono testardi,
sanno cosa vogliono e con la conoscenza
combinano una significativa astuzia.
Tu vai ad est, la bussola insistente mostra l’est,
il sentiero fedele segue la bussola, come una linea,
tutto è a posto, allora il sentiero svolta a nord.
A nord non c’è niente. Che vuole adesso il sentiero?
Presto arriva una palude gigantesca, e il sentiero lo sapeva.
Ci fa girare, con la sicurezza di uno
che là c’è stato prima. Sa dove si trova la palude,
sa dove la montagna diventa troppo ripida, sa
cosa succede a chi scambia il nord con il sud
del lago. Il sentiero ha fatto tutto
tante volte prima. È questo il senso
di essere un sentiero. Che lo si è fatto
prima. Chi ha fatto il sentiero? Carbonai, pescatori,
donne con braccia magre che raccoglievano la legna?
Gli inquieti, timidi e grigi come il muschio,
ancora in sogno col sangue del fratricidio
sulle mani. Cacciatori d’autunno sulle tracce
di fedeli bracchi col latrato di ghiaccio chiaro?
Tutti e nessuno. Lo facciamo insieme,
anche tu lo fai in un ventoso giorno, quando
è presto o tardi sulla terra:
noi scriviamo i sentieri, e i sentieri rimangono,
e i sentieri sanno più di noi,
e sanno tutto ciò che volevamo sapere.
Il cane
“Verso casa in un paese più tranquillo”
Non c’è un paese più tranquillo di questo.
C’era il sole e camminavo sui ghiacci,
i grandi ghiacci aperti che il vento spazza,
ed era domenica. Allora vidi una cosa strana,
un cagnolino nero, completamente solo,
che correva più rapidamente possibile, avanti,
allontanandosi dalla riva e verso lo spazio aperto,
dove tutto spariva come nebbia all’orizzonte.
Correva rapidissimo e senza guardarsi intorno,
ed era come un gomitolo nero sul blu lucido,
che il vento ha sollevato e porta con sé.
Rimasi fermo a lungo e lo guardai,
ma non sembrò fermarsi e infine sparí.
Non c’è un paese più tranquillo di questo.
Lo svasso maggiore
Nelle chiare pure sere d’autunno
in gruppetti davanti alla prua delle barche a motore.
E sparente senza timore, senza fretta,
solo perché questo,
lo sparire, è il suo ovvio tipo d’arte.
Ho spesso desiderato
di poterlo seguire
anche nella sua seguente fuga.
Vede lo specchio d’acqua
come un secondo cielo?
Com’è il suo pesante battito d’ala sotto l’acqua?
Crede d’essere
lo stesso uccello in due diversi spazi?
L’uno dominato dai venti,
l’altro da fresche correnti profonde?
L’albero con le foglie tremolanti.
I lunghi fili delle alghe alla corrente
dove dal fondo sgorga fredda fonte.
Come può portare
cose così diverse nella stessa vita?
Oppure crede d’essere
due uccelli
che un attimo s’incontrano
nella vertigine del confine muto sullo specchio d’acqua?
Lettera a un giovane poeta
La prima riga solitaria.
Il primo verso solitario sulla carta.
recano sempre una promessa. La più grande.
E i colori ritornano, uno dopo l’altro,
come in un’alba nel mese di giugno,
e prendono i loro posti senza indugio o dubbio.
Le cose sono così abili:
insieme ricordano i loro colori
dopo tutta la lunga notte.
Ed ecco un grido. Un chiurlo maggiore,
e là una cicogna.
Suoni di uccelli, suoni di acque.
Abitano in questa primissima cosa
ma troppo lontano per sapere.
Presso di loro l’attimo luminoso.
Il resto per lo più fastidio. Conferenze
dove tutti all’unisono testimoniano
su quanto tutti siano unici.
Impara a tenere i tuoi occhi lontani
dal telegrafo della Borsa. Ah queste strisce
buone soltanto da incollare sugli occhi delle mummie!
Quando il tempo cambia pelle (Perché il tempo è un serpente!)
i grandi poeti si rattrappiscono in foglie brune
trasportate da qualche fiume notturno verso la prossima curva.
E al di là di quella c’è una potente cascata.
Ah penna stanca, mano stanca, torna indietro adesso
alla prima luce, alla voce degli uccelli sull’acqua,
indietro all’attimo prima!
Lars Gustafsson
Visita dall’oculista
I colori sono meno forti adesso?
Non so, io li vedo più netti.
Ma è negli occhi che comincia a fare scuro.
I titoli dei libri si ritirano nello scaffale
come se volessero adesso starsene da soli.
La vite caduta è perduta senza scampo,
nella penombra sotto il banco. Le persone
d’altra parte, molto più nitide adesso.
Le persone della mia gioventù, vaghe ombre
dai contorni deboli nella periferia. Devo
avere guardato qualcos’altro.
Questo qualcos’altro adesso non si vede affatto.
Abitudini
Arrivano volando come uccelli.
E si accomodano.
Solo un modo di fare un cenno col capo agli sconosciuti.
Il bicchierino la sera. La corsa la mattina
uguali con ogni tempo. Le visite
alla spiaggia. Perché dare il pane alle anatre?
Non si sa mai per quanto tempo
o da dove arrivino.
6
Hanno così poco da spartire con noi.
Potremmo comodamente averne avute delle altre.
Ma quando alla fine si sono decise
a fermarsi qui, in questo bosco,
noi ne siamo materiati.
E ci si ricorderà di noi
come un fascio di abitudini.
E non colui in cui abitavano.
Vedo sulla neve le orme di mia figlia
Vedo sulla neve le orme di mia figlia.
Sono così leggere, delle sue impronte resta
solo questo debole blu dove si ferma l’ombra.
Tutto rimane sospeso dove cammina mia figlia.
Nella passeggiata domenicale di un altro anno
mio padre che mi tiene per mano e capisce.
In modo così strano e capriccioso camminano i nostri orologi!
E la neve è l’unico resto delle orme.
Exit Jean Paul Sartre: aprile 1980
Da tanto abbiamo preso appuntamento
con Pierre, un amico, in un caffè.
Lui non viene.
Tutti quelli che vengono,
e che non aspettiamo,
lui li rende irreali.
L’essere è sempre qualcosa di molto fragile.
E in ultima analisi è fatto da noi stessi.
Gli altri sono, ombre,
a seconda delle condizioni;
la speranza o l’inferno.
Gli espulsi in barche che fanno acqua
arrivano a ondate nel nostro tempo:
estoni, lettoni, vietnamiti, cubani.
Tutto è in mare
e nessuno si fida di una terraferma.
Guardando meglio
troviamo sempre noi stessi in qualche barca.
Tutti prima o poi passano davanti a
questa osteria senza pretese.
Uno di loro non vuole venire.
Jardin des Plantes, Paris
Dov’è adesso il Leopardo di Rilke?
O mondo rettilineo
dove ogni pianta al suo posto
indugia per sempre,
in attesa dell’archiatra
che come Buffon
sa mettere in ordine per ascendenza
il Leone, il Rinoceronte e l’Elefante
orto d’erbe, dove il Fior di stecco pasquale
fiorisce sempre presto –
cosa vuole da noi il tuo ordine tassonomicamente casto
che senza ordine, senza nome, cresce
nei boschi dimenticati delle nostre vite?
I cani
Le loro zampe sono ferme e forti.
Le poggiano senza suono sul terreno.
I loro nasi sono freddi e umidi,
e sanno ogni odore sotto il tappeto delle foglie marce.
Vengono in molti e da tempo,
e nessuno sa da dove. Sono svelti.
Vengono di giorno e di notte.
E il male che fanno, non si può
separare dalle loro buone azioni.
I loro occhi sono dighe grigio piombo di
una stagione prima che ci fossero stagioni.
Nell’acqua nera cadono petali opachi
uno dopo l’altro. E non lasciano ombra,
che copra il muro della casa diroccata,
dove solo la lucertola sta immobile,
e attende il suo attimo.
Nelle giornate chiare s’ode il loro abbaiamento
che va da altura ad altura,
e scompare un attimo in qualche valle
troppo profonda per dare un’eco.
Immaginiamo la strada della caccia tra le alture
ma sappiamo che siamo noi che cercano.
Sono le nostre anime, annusanti e indaganti,
che una volta lasciammo in boschi quieti.
E ci cercheranno per sempre.
Vecchia campionessa
Gli ultimi giorni
è stata una vecchia campionessa quest’estate.
Saprà raccogliere le forze
e riuscirci un’ultima volta?
E all’inizio di settembre accade;
il cielo si schiarisce, bruciano le bacche del sorbo,
fa caldo un’ultima volta
e il tono del luppolo sale, borbotta come a maggio.
Pure non è proprio lo stesso.
Il blu è appena troppo blu
quando il vento fa rabbrividire l’acqua, brucia
un po’ troppo forte nelle cime degli alberi.
Qui è in agguato una retorica.
La moglie di Lot
Non fu così
che non mi si mise in guardia.
Al contrario, mi si disse varie volte
che non dovevo voltarmi.
Chi sa vedere la fine non può vedere l’inizio.
Lo feci lo stesso
e sento che i miei piedi
già sono troppo pesanti.
Il sale adesso si cristallizza in me,
e non può restare più di qualche secondo.
Per alcuni è inevitabile
esitare all’ultimo minuto.
Per alcuni è inevitabile
guardare indietro con occhio gelido,
restare per sempre in una città natale
che allora non esiste più.
Com’erano gli inverni una volta
Quella fredda striscia verde
che era il mattino
non aveva niente in comune
con noi.
E il fumo dei camini saliva solennemente
dritto in su.
A qualche dio che amava
questi movimenti verticali.
E lo scricchiolio sotto i piedi!
O questo indescrivibile scricchiolio:
nessuno poteva avvicinarsi non udito
questo era poco ma sicuro.
E il sospetto che la vita
forse davvero fosse senza senso
e non solo in Schopenhauer
e negli altri arditi, vecchi tipi.
Ma anche qui
sotto i fumi bianchi del cielo.
Il castello di Maccastorna
Il castello di Maccastorna
dalle parti di Cremona
appartiene, da tempo, alla famiglia Bevilacqua.
Gli Appennini visibili
come ombre azzurre dalle finestre a ovest
e i calabroni sopra la polenta che ingiallisce
un giorno di tarda estate quando il vento soffia.
Rondini nel vortice sopra
la torretta interna
costruita più o meno nel Duecento
da un Visconti
che invitò i suoi vicini latifondisti
a una cena che non finiva mai.
Vale a dire: finí con la loro morte
inflitta dai rapidi pugnali dei servi.
Nelle molte stanze
che oggi mai s’adoperano
qua e là qualche scuro ritratto
di qualche dama col soggolo alto
coperto adesso da ragnatele e polvere.
In queste cupe stanze
dove la giornata estiva
è solo un suon di grilli
c’è un odore buono
di vecchio vino sparso
sementi asciutte
e polvere pulita.
E arrivai a una piazza
E arrivai a una piazza.
Era un tramonto di settembre.
Qualche ragazzo giocava a pallone
in mezzo alla strada
e il rumore del pallone echeggiava
tra i muri alti.
Ed era una specie di casa.
E poteva essere stato
quasi qualsiasi posto.
E io calciai indugiando
indietro questo pallone.
Tra i muri echeggianti.
Sulla ricchezza dei mondi abitati *
In alcuni mondi è stata confermata
la supposizione di Riemann sui numeri primi
In alcuni mondi si ottengono da
antichissimi funghi ampie confessioni
In qualche mondo il profondo buio è
illuminato da meravigliose pietre parlanti
In parecchi mondi l’estate dura
un secolo, e chi ha la sfortuna
di nascere nel secolo invernale
passa la vita in sonno
appeso nella parte impellicciata di
bozzoli color grigio chiaro
In alcuni mondi anche questa poesia è
già stata scritta da innumerevoli poeti
La lampada*
Prima che la lampada s’accendesse
stavamo completamente fermi.
La voce rude di una gazza
e il profumo improvviso del trifoglio
con un calore dolciastro
attraverso questo saliente buio.
L’uccello volò
il più vicino possibile
sopra la sua ombra.
E il calabrone, di molte estati
il fedele amico,
urtò contro il vetro di una finestra
che era un muro del mondo
e il tuffolo volò di lago in lago.
Poteva essere tardi
o presto in diverse vite.
Poteva essere nell’ombra di una farfalla.
Nell’ombra di qualunque vita.
Le stradine
L’agente sulla bicicletta blu
aveva un orgoglio professionale.
Conosceva il paesaggio,
anche le strade piccolissime.
Quelle che fiancheggiavano il Canale
e dove il vento tra i pioppi
passava insieme con il suono dell’acqua,
prima quasi muto qualche chilometro
e poi potente e udibile
dove si aprivano le chiuse
attraverso viali alti
di pini spaventosamente alti
e dritti come scure chiese
e in quelli indicava la strada al ragazzo.
Sapeva dove c’erano le fragole di bosco
ma anche i cani aggressivi
che potevano correre per tutto un villaggio.
E mostrava tutto al ragazzo.
E il ragazzo imparava.
Senza sapere in realtà cosa imparava.
Epilogo
Fa scuro.
Prendi la mia mano.
Non è paura
che sento
ma il dolore
di aver abitato troppo di rado
con i buoni
nella terra dei buoni.
Traduzione di Enrico Tiozzo
Le poesie sono tratte dalle seguenti raccolte: “Vita” (Ballongfararna,
1962); “Il cane” (En förmiddag i Sverige, 1963); “Jardin des Plantes, Paris”,
“Exit Jean Paul Sartre: aprile 1980”, “I cani”, “Vecchia campionessa”,
“La moglie di Lot”, “Epilogo” (Fåglarna och andra dikter, 1984);
“Lettera a un giovane poeta”, “Visita dall’oculista”, “Abitudini”, “Vedo
nella neve le orme di mia figlia (Förberedelser för vintersäsongen: elegier
och andra dikter, 1990); “Ballata sui sentieri del Västmanland”, “Lo
svasso maggiore” (Valda skrifter, I,1998); “Le stradine”, “Com’erano gli
inverni una volta”, “Il castello di Maccastorna”, “E arrivai a una piazza
(En tid i Xanadu, 2002) sono testi inediti scelti da Lars Gustafsson per
“Poesia”.