Gino Rago, Due poesie inedite da I platani sul Tevere diventano betulle, con una Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa
Bernardo Bertolucci

 

Gino Rago nato a Montegiordano (CS) il 2. 2. 1950, residente a Trebisacce (CS) dove, per più di 30 anni è stato docente di Chimica, vive e opera fra la Calabria e Roma, ove si è laureato in Chimica Industriale presso l’Università La Sapienza. Ha pubblicato le raccolte poetiche L’idea pura (1989),Il segno di Ulisse (1996), Fili di ragno (1999), L’arte del commiato (2005). Sue poesie sono presenti nelle Antologie curate da Giorgio Linguaglossa Poeti del Sud (EdiLazio, 2015) Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, Roma, 2016). È membro della redazione dell’Ombra delle Parole.   Email:  This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.

 

Giorgio Linguaglossa mi (e ci) pone altre tre domande.

 

1) quali sono le esperienze significative che la poesia deve prendere in considerazione?
2) la mancanza di un «luogo», di una polis, quali conseguenze hanno e avranno sull’avvenire e il presente della poesia?
3) è possibile la poesia in un mondo privo di metafisica?

 

Tre domande terribili, da far tremare i polsi.

 

Queste istanze nel loro enorme peso di etica e di estetica, di forma e di contenuto, di lingua e di stile, di metrica e di tono, di senso e di suono, interpellano le nostre coscienze e il nostro stesso modo di stare in poesia, di fare poesia in un rinnovato spirito del tempo.

Alle tre domande provo a dare una risposta mettendo tra di loro in relazione di prosa poetica o di poesia in prosa due reziari-uomini-di-questo-tempo scagliati nell’arena-mondo-del-nostro-tempo con pochi arnesi-parole-senza-più-suono allo scopo di irretire il vuoto con il gesto-atto-poetico-di-questo-tempo, nella poesia 1, e il tentativo del superamento della ‘metafora tridimensionale’ spazio-tempo-passato verso il quadridimensionalismo spazio-tempo-percezione passato-memoria, secondo la prospettiva dell’osservatore proustiano…[dal dialogo Maurizio Ferrari-Giorgio Linguaglossa, in  Critica della ragione sufficiente, (pagine 74-77)].

 

(Gino Rago)

 

Due poesie di Gino Rago dalla Sez. 1 de I platani sul Tevere diventano betulle [di prossima pubblicazione con le Edizioni Progetto Cultura, Roma*

 

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

 

Gino Rago
1) L’atto poetico nel vuoto

 

«Ci interessa la forma del limone
non il limone».*

*[Questo scrissero sul manifesto formalista quegli artisti
Nell’ammutinamento sui battelli del figurativismo
E del narrativismo.
Ma fu sera e mattina sulla Forma]

[…]
Un reziario nell’arena. Con un altro reziario un po’ più antico
Ma nella stessa arena. Verso chi tridenti e reti?

 

Chi o cosa vogliono irretire, senza corazza ed elmo?
Il Vuoto? Vogliono imprigionare il Vuoto

 

con un balzo estetico.
Perché la bellezza è nel vuoto?
[…]
I due reziari all’unisono: «Perché se sei nel vuoto,
se davvero ti senti nel vuoto, devi agire prima che il vuoto ti risucchi…

 

È il gesto che salva. È l’urto tra l’atto poetico e il vuoto
che genera lo spazio e il tempo,

 

perché il vuoto e il nulla non coincidono affatto.
La forma-poesia non è l’inizio

 

ma il risultato dell’urto dell’atto nel vuoto che fluttua.
Perché il vuoto si può costruire, come al silenzio si può insegnare a parlare,

 

ma occorrono le parole-stringhe a cinque dimensioni».

 

II

 

Roma. Due reziari seduti a un tavolino.
Il bar di via Gaspare Gozzi [la linea B della Metro sferraglia]

 

A una parete gli occhi e le rughe di Samuel Beckett.
Il barista si avvicina con due tazze fumanti, sorride.

 

L’uomo somiglia a José Saramago, dice: «Vi ammiro,
voi conoscete la doppiezza delle parole, nelle vostre poesie una parola

 

tira l’altra e con la stessa parola si può dire la verità».
– «Una parola davvero scomoda» -, pensa l’interlocutore non visibile

 

che siede qui accanto nel bar,
la verità fa rima con varietà, questo lo affermava il Signor K. nella omonima

 

poesia di Linguaglossa, dove il Signor K. fuma
un sigaro italiano e cincischia con il revolver…

 

«Ma voi non siete ciò che dite, siete dei truffatori, siete…
il credito che le vostre parole vi danno».

 

2) 

Quadridimensionalismo

 

La madeleine*. Il selciato sconnesso.
Il tintinnio di una posata.

 

Le chiavi di casa perdute in un prato.
Diventano in noi la resurrezione del passato?

 

Fanno riapparire il tempo nello spazio?
[…]
Il passato si ripete nella materia grazie alla memoria.
Il tempo perduto esce dalle profondità delle quattro dimensioni.

 

Perché l’uomo è spaziotempo,
al profondo, nel lungo e nel largo

 

soltanto l’uomo lega ciò che è stato,
il tempo perduto, il tempo passato.

 

Gli infiniti punti dello spazio e gli infiniti istanti del tempo
possono vibrare insieme solo nella Memoria.

 

E il presente è la scheggia di tempo che ricorda il passato.
La morte qui non c’entra.

 

*La «madeleine» è il dolce di Marcel Proust

 

Giorgio Linguaglossa

 

Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

 

In queste poesie di Gino Rago, come in quelle di Mario Gabriele e, come in genere accade in varia misura nei poeti della nuova ontologia estetica, le poesie non hanno un oggetto specificato, un referente o un insieme di referenti circoscritti e riconoscibili, un significato, nulla di tutto ciò. Quello che noi chiamiamo il referente in questo tipo di poesia diventa il «dicibile» (il lékton degli stoici), ma ciò non comporta che tutto ciò che è dicibile abbia anche un significato. I due «reziari» che combattono nella arena non hanno un significato, sono dei «dicibili» che scavalcano qualsiasi significato. La poesia si preoccupa di «imprigionare il vuoto», di dare un significato al «vuoto», di renderlo in qualche modo manifesto, «dicibile»:

 

La forma-poesia non è l’inizio
ma il risultato dell’urto dell’atto nel vuoto che fluttua.

 

La poesia di Rago è un mirabile esperimento di cattura di quello che il poeta chiama «vuoto che fluttua», poiché «La forma-poesia non è l’inizio/ ma il risultato dell’urto dell’atto nel vuoto che fluttua». Il «vuoto» per Rago è quella dimensione incorporea dove fluttuano le parole ancora non pronunciate, fonetizzate. Tutto il problema è il pronunciare quelle parole, ed ecco che le cose diventano dicibili. Il «vuoto» di Rago è quello spazio incorporeo nel quale fluttuano le parole incorporee perché ancora non-pronunciate, quello che la filosofia contemporanea denomina «la patria metafisica delle parole»; esse non sono né i nomi di cose, né i nomi di concetti, né i nomi di pensieri erranti. È la scoperta che le parole abitano la patria metafisica, e non dipendono per la loro esistenza né dai concetti né dalle cose. Il «senso» non è una cosa nascosta che si tratta semplicemente di scoprire, il «senso» è un analogon di un mito che noi possiamo interpretare in quanto fatto di linguaggio.

 

«Il bisogno di interpretare un linguaggio può sussistere unicamente per qualcuno che (per un istante o in permanenza) si colloca all’esterno di esso; e non può essere soddisfatto e scomparire solo quando ci si sente totalmente a proprio agio in quel linguaggio, quando ci si è appropriati di esso, in breve quando lo si parla. Una interpretazione è buona non quando non siamo in grado di interpretare ulteriormente ma quando non lo facciamo e non avvertiamo il bisogno di farlo. Se il senso è l’ultima interpretazione, quella che non si interpreta, è solo perché tale interpretazione ci soddisfa, perché abbiamo (la sensazione di aver) compreso. “Ciò che avviene” osserva Wittgenstein “non è che questo simbolo non può più essere interpretato, bensì: io non interpreto. Non interpreto perché mi sento a mio agio nell’immagine presente. Quando interpreto, avanzo sul cammino del pensiero innalzandomi da un gradino all’altro».1

 

Ad un certo punto Rago rimescola le carte, chiama in causa una mia poesia e un personaggio contenuto in alcune mie poesie, il Signor K., e lo fa interagire nella sua poesia:

 

«Vi ammiro,
voi conoscete la doppiezza delle parole, nelle vostre poesie una parola

 

tira l’altra e con la stessa parola si può dire la verità».
– «Una parola davvero scomoda» -, pensa l’interlocutore non visibile

 

che siede qui accanto nel bar,
la verità fa rima con varietà, questo lo affermava il Signor K. nella omonima

 

poesia di Linguaglossa, dove il Signor K. fuma
un sigaro italiano e cincischia con il revolver…

 

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

 

Tutte le cose sono confuse, si mischiano, si dividono, si trasformano e diventano altro, il reale e l’immaginario sono posti sullo stesso piano scosceso che ci conduce verso il «nulla», «la stessa parola» è afflitta da «doppiezza», «la verità fa rima con varietà» e, come nella poesia del novecento, «una parola tira l’altra e con la stessa parola si può dire la verità». È questa, propriamente, la dimensione del lékton, del «dicibile» degli stoici, quella dimensione che non è composta da parole, o da pensieri, o da cose definite, palpabili… ma da qualcosa che sfugge e per le quali dobbiamo cercare le parole…

 

Facciamo un passo indietro. Agamben ci scrive:

 

«Ammonio ci informa che gli stoici inserivano, secondo lui inutilmente, fra il concetto e la cosa un terzo, che chiamavano dicibile (lékton).
Il passo in questione proviene dal commento di Ammonio al De interpretazione. Qui Aristotele definiva il processo dell'”interpretazione” attraverso tre elementi: le parole (phoné), i concetti (più precisamente le affezioni dell’anima), di cui le parole sono segni, e le cose (tà pragmata), di cui i concetti sono le similitudini. Il “dicibile” stoico, suggerisce Ammonio, non soltanto non è qualcosa di linguistico, ma non è nemmeno un concetto e neppure una cosa. Esso non ha luogo nella mente né semplicemente nella realtà, non appartiene né alla logica né alla fisica, ma sta in qualche modo fra di essi. È di questa situazione particolare fra la mente e le cose che si tratterà di tracciare una cartografia. È possibile, infatti, che questa situazione fra la mente e le cose sia propriamente lo spazio dell’essere, che il dicibile coincida, cioè, con l’ontologico.
[…]
Il significante (la parola significante) e l’oggetto (la cosa che vi corrisponde nella realtà, nei termini moderni il denotato) sono evidenti. Più problematico è lo statuto del semainomenon incorporeo, che gli studiosi moderni hanno identificato col concetto presente nella mente di un soggetto (simile al noema aristotelico secondo Ammonio) o col contenuto oggettivo di un pensiero, che esiste indipendentemente dall’attività mentale di un soggetto (come il “pensiero” – Gedanke – in Frege). 2]

 

1]  J. Bouveresse in L. Wittgenstein, Nachlass Verwalter (1967) Note sul “Ramo d’oro” di Frazer, Adelphi, 1975 p. 73

2] G. Agamben, Che cos’è la filosofia?, Quodlibet, Macerata, 2016 pp. 63-64