Pino Corbo, Poesie da La logica delle falene LietoColle, 2018 pp. 120 € 13.00 con Il Punto di vista di Giorgio Linguaglossa

 

Giorgio Linguaglossa
“L’incapacità ad essere normale” (Pino Corbo)

 

Pino Corbo è nato a Cosenza nel 1958.Ha pubblicato tre libri di poesia,Cerco nel vento, Schena, Fasano (BR), 1978; Il segreto del fuoco, Hellas, Firenze, 1984; In canto, Campanotto, Udine, 1995; sei plaquettes, Autodafé, En plein, Milano, 1996; Di notte, Pulcinoelefante, Osnago (LC),1997; Desiderio, Pulcinoelefante, Osnago (LC), 2000; Epifanie, Pulcinoelefante, Osnago (LC),2002; Iscrizioni dell’ora, Sagittario, Genova,2004; Dittico, L’arca felice, Salerno, 2008; il saggio Il mondo non sa nulla. Pasolini poeta e “diseducatore”, Ionia, Cosenza, 1996.  È stato redattore delle riviste “Inonija” (CS), “Quaderno” (MN), “Il rosso e il nero” (NA); attualmente lo è di “Capoverso” (CS).

 

Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa

 

Il Punto di vista di Giorgio Linguaglossa

 

«La logica delle falene», è il titolo emblematico di questa raccolta del poeta calabrese Pino Corbo, ed è anche una metafora e una chiave di lettura del libro. Le falene, questi misteriosi esseri volatili la cui vita può variare da qualche giorno fino a sei o otto mesi è l’insetto scelto a designare la filosofia di vita che ha ispirato le composizioni del libro. Innanzitutto, la distanza tra la falena e il suo circondario, la solitudine della sua esistenza e il silenzio. Distanza, solitudine, silenzio, questa triade costituisce il profondo ipocentro di questa poesia, così raccolta e aristocratica. «L’incapacità ad essere normale», il distacco dalle cose e da se stesso, la consegna a quell’essere sospesi nell’atto, la rinuncia, anzi, la revocazione della rinuncia per un rigetto ancora più completo per tutte le cose, il distacco dalle cose e dagli umani; la solitudine, che è il segreto del silenzio, l’atto della sospensione e l’esitare, sono il nucleo profondo del rigetto di cui dicevamo, rigetto di qualsiasi decisione o atto di volontà.

 

Direi che la poesia di Pino Corbo porta in sé ben evidenti i segni della rinuncia, della revocazione della rinuncia ad apparire, la rinuncia al vestito linguistico, la rinuncia alla adozione di qualsiasi linguaggio che non sia il linguaggio del proprio epicentro interiore. L’esercizio del silenzio, della morigeratezza e della distanza è il vero esercizio spirituale al quale si è sottoposto il poeta calabrese in tutti questi anni, dall’opera di esordio, Cerco nel vento, del 1978, ad oggi. Dal post-moderno al Dopo il Moderno.  Dice di sé: «in definitiva reo di diserzione, opacità pensosa, disfattismo etico, distìmie energetiche, opportunista o giocoliere di sintagmi stucchevoli, di stati d’animo sospesi».

 

C’è un esercizio al quale un poeta degno di questo nome deve ogni giorno sottoporsi, una sorta di preghiera laica del mattino, una predisposizione spirituale e lessicale: rinunciare al linguaggio, allo stile, al lessico maggioritario, alla retorica, ai tropi, ai riti, ai siti della «normalizzazione». Corbo fa poesia come si mangia, in una sorta di romitaggio, in modo frugale, senza stile, senza addobbi, senza orpelli con un lessico limitatissimo: pochi i verbi, quelli essenziali ed inevitabili, poche le parole, quelle essenziali e significative: il pane, il vino, il vento, morte e poche altre; poche le tematiche: il padre, la madre, il non-amore, il disamore. Corbo dice con semplicità: «metto in versi la vita», ma è una bugia, è la non-vita quella che il poeta calabrese mette in versi, la propria «invisibilità» la storia del proprio non-esserci. Ecco quanto dichiara il poeta: «I poeti devono essere invisibili», in quanto «la dimensione poetica / è un’aberrazione».

 

 Bastano queste parole a delineare la poetica di Corbo: l’evitamento, la Gelassenheit, l’abbandono e la reticenza, la rinuncia alla azione e al dominio sul linguaggio e sugli oggetti. È tutta qui la poesia di Corbo, non c’è altro. Ed è molto, moltissimo, c’è una acutissima cognizione del dolore delle cose e delle parole, una consapevolezza acutissima della insufficienza del linguaggio e della sua retorica a penetrare nelle stanze interiori del dolore; la poesia è nient’altro che una iniziazione, una pratica della vita di tutti i giorni, prima che linguistica, spirituale, una pratica della soggettività, una autocoscienza della sospensione, della rinuncia, perché non è importante lo stile quanto la rinuncia allo stile, non l’esistenza ma la rinuncia alla esistenza.

 

Direi che Corbo giunge un millimetro prima di inabissarsi nel «nulla».

 

«Cosa è la presenza? La presenza è la presenza del togliersi, cioè l’attualità del togliersi. […] La presenza non è un immediato. […] Il negarsi del presente è il suo esser atto, esser in atto, esser presente, attuale […]. Il nulla giustifica, fonda l’originarietà dell’attuale. Appunto perché il nulla è attuale. L’attuale non contiene il nulla staticamente, come un recipiente, ma attualmente, negandosi, togliendosi.» 1]

 

La assoluta co-originarietà o simultanea coincidenza di essere e nulla, di identità e non-identità nel principio, viene ancora di più messa in gioco in quest’altro passo di Emo, in cui viene indicato anche il motivo per cui il nulla è nell’Inizio, motivo che risiede nel fatto che l’origine è proprio l’annullarsi stesso dell’Inizio, un distanziarsi da se stesso in quanto Abisso infinitamente imploso nel non darsi assoluto: «Il nulla è l’assoluto che si annulla, appunto perché il nulla è l’assoluto […] L’origine è il nulla, in quanto è l’origine che si annulla […], cioè è l’annullarsi dell’origine; l’origine è l’atto dell’annullarsi, del suo annullarsi».2]

 

Il «tempo» che ci è concesso sul pianeta terra è il reddito di cittadinanza concessoci dalla «presenza» del nulla, il quale attualizzandosi si eventua nell’esserci.

 

1] Cfr. Andrea Emo, Il Dio negativo. Scritti teoretici 1925-1981, a cura di Massimo Donà e Romano Gasparotti, Marsilio Editori, Venezia 1989. pp. 10-11. [Libro esaurito]

 

2] Ivi, p. 53

 

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

 

Ha scritto di sé Pino Corbo:

 

Atto di fede, proclamazione della propria sedicente innocenza o della compiaciuta condizione ereticale: intervenire sulla mia poesia (o più pomposamente sulla mia poetica) mi crea quell’imbarazzo dell’accusato che deve difendersi, del reo che deve in qualche modo giustificarsi. Basterebbe più semplicemente dichiararsi colpevole, o meglio corresponsabile, nell’ammissione di una certa incapacità ad essere normale, cioè normatizzato rappresentante della collettività sociale, lusingato dalla conseguente renitenza agli obblighi precostituiti, al consapevole conformismo. Colpevole di che cosa? Corresponsabile di chi? Colpevole (finalmente libero di esprimere un fastidioso senso di colpa o di inferiorità) di non essere produttivo, anzi in qualche modo di essere uno spreco per l’economia nazionale (forse planetaria) colpevole di occupare spazi nascosti, interspazi, senza avere il coraggio di comiziare, di trascinare masse; in definitiva reo di diserzione, opacità pensosa, disfattismo etico, distìmie energetiche, opportunista o giocoliere di sintagmi stucchevoli, di stati d’animo sospesi, astratti come i pensieri che li nutrono. Corresponsabile (ora diranno i più che si tratta di un puro escamotage) di tutti coloro che rappresento e che si possono chiamare (data la situazione tribunalesca) complici; non dico che essi si riconoscano in toto in me, perché, malgrado l’omogeneizzazione di massa ognuno è virtualmente irripetibile e insostituibile, almeno i miei compagni di strada, che condividono con me il senso estremo delle cose, la coscienza dell’insondabile e del sublime effimero; ripeto, non parlo per tutti loro, ma, pure se colpevole appaio, il mondo fortunatamente continuerà a ruotare senza minimamente variare per la colpevolezza mia e di chissà quanti altri correi, costretti anche essi da un atto di fede pubblico a un manifesto atto di accusa.

 

(1992)

 

Giorgio Linguaglossa

 

Giorgio Linguaglossa

 

 

Scrive Pier Aldo Rovatti:

 

«Per Carlo Sini, l’esercizio con cui dobbiamo cercare di entrare in sintonia con il ritmo del nostro esistere è una “iniziazione” del soggetto. Che cosa può significare? Chiamare la pratica della soggettività “iniziazione”, e farlo in un contesto filosofico, significa prendere congedo da un’idea semplice e tradizionale di “autocoscienza”: potenza del lumen ed efficacia degli specchi, il normale regime o registro delle immagini, o ancor meglio dell’immaginario, dovrebbero essere “sospesi”. Ma, di nuovo, che significa “sospendere” se non proprio, nell’atto stesso del sospendere (o dell’esitare), mettere in questione il dominio delle leggi ottiche del mondo-oggetto, il mondo “cosale” del pleroma che dà semantica e sintassi al nostro discorso comune?


Allora il mettere fra parentesi, e il mettere tra parentesi le parentesi in un gioco distanziante e “abissale”, non potrà essere né gratuito né disinteressato, non potrà nutrirsi alla filo-sofia: nessuna amicizia e amore intellettuale per la verità, nessun rilancio sublimante (uno sguardo che si alza) verrà in soccorso all’esercizio, alla possibilità pratica di esso. Infatti, se qualcosa se ne può dire (poiché ha un suo rigore), è che, rispetto alla verità comunque intesa come una forma di “possesso” (reale o possibile), cerca un evitamento, una difesa, una resistenza: e ingaggia conseguentemente una lotta, o almeno una contesa, un contenzioso. Se si tratta di iniziarsi al soggetto come a ciò che ha da prendere ai nostri occhi una “figura inaudita”, ancorché noi lo siamo ogni giorno e in ciascun istante (dato che si tratterebbe di “ascoltare” qualcuno che ci dice che non siamo noi stessi ma altro, alterità), occorre predisporre uno spazio, dei margini, un’intercapedine, una zona di vuoto.
Per “lasciar essere” le cose, dobbiamo con molta fatica alleggerirci di molta zavorra, anche se ci dispiace (ecco la fatica) perché questa “zavorra” è fatta di saperi, strumenti, piccoli e grandi apparati vantaggiosi per la nostra personale potenza. Non si tratta di rinunciare a essi per chi sa quale “povertà”: bensì di ritirare identificazioni e investimenti, lateralizzare, togliere valore e importanza. Rispetto, per esempio, al credere che “conoscere è sempre un bene”. Il problema della “sospensione”, insomma il senso da attribuire alla “iniziazione”, si condensa sulla possibilità di praticare la persuasione (penso a Carlo Michelstaedter) che vi sono zone di “non consapevolezza” che non solo è opportuno conservare, ma che vanno “attivate” proprio per permettere al soggetto di entrare in gioco con se stesso». 1]

 

1] Pier Aldo Rovatti, Abitare la distanza, Raffaello Cortina, 2010, pp. 6,7

 

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

 

Pino Corbo, Poesie da La logica delle falene

 

I fari accecano,
attraggono nella scia luminosa –
è nella logica delle falene
confondere la luce con la notte.

 

.

 

La mia immagine

 

Mi infastidisce la mia immagine
allo specchio – se non so salvare
proteggere prevenire cambiare
il destino.

 

Mi infastidisce anche scrivere
questi versi – se sono davvero versi –
perché è una debolezza (lo so)
e non riesco a fare di meglio.

 

Ognuno degli orologi intorno
segna un’ora diversa
e mi sembra quasi di sfidare
attraversare il tempo,
di scomporre la mia immagine.

 

.

La mia morte, i miei versi

 

Stanotte ho sognato la mia morte,
poi di scrivere versi –
al risveglio ero senza 
la mia morte, senza
i miei versi.

 

Ero nudo, senz’anima
senza peso per camminare
per lasciare un’orma sulla terra.

 

.

La mia poesia

 

La mia poesia
è una vecchia serva
a cui permetto poche volte
di mostrarsi in pubblico.

 

La mia poesia
è una muta aguzzina
che mi sottopone
ai suoi capricci
al suo imprevedibile
desiderio di parole.

 

.

 

La dimensione poetica

La dimensione poetica
è un’aberrazione –
non esiste una misura
come la larghezza, l’area, il perimetro.

 

Esistono gli occhi di chi guarda,
la parola che si fa nome,
la voce che diventa eco.

 

.

 

Blasfemia

Perdonate la blasfemia:
tra il vino e dio
non c’è poi molta differenza.

 

Ma col vino si è meno esigenti,
si arriva invece a bestemmiare dio.

 

Rettifico la blasfemia:
tra il vino e dio
c’è almeno questa differenza.

 

.

 

Routine

 

Camminiamo sopra mine scoperte
disposte per delega da noi stessi

 

nel tentativo di eluderle
ci dichiariamo innocenti,
convinti di farla franca comunque.

 

.

 

Il peso del tempo

 

Due anni sopravvisse Isabella
due mesi Filomena.

 

Si ritrovano ora senza più il peso
del tempo vissuto,
attraversato finalmente.

 

.

 

I poeti

 

I poeti devono essere invisibili,
quasi non esistessero:
devono somigliare – se è possibile – ai morti

 

i più fingono malamente
di essere vivi, pochi
non lo danno a vedere.

 

*

 

Davvero non c’è condizione
migliore: lasciarsi vivere,
arginando le memorie
superstiti, libero
finalmente da aspettative,
con il peso dei giorni
che non prendono più fuoco.

 

*

 

I morti guardano 
senza vedere –
gli occhi inespressivi
come quelli dei ciechi

 

le orbite fissano un punto –
seguono sempre la stessa direzione –
non distolgono mai lo sguardo.

 

*

 

Lo specchio è la coscienza
che riflette altri se stessi,
immagine impalpabile del mondo
sospesa fra lo sguardo e il nulla
il movimento e la quiete.