Prefazione a materia redenta di Marina Petrillo, Progetto Cultura,
Roma, 2019, pp. 100 € 12 di Giorgio Linguaglossa
Nel saggio giovanile Tradizione e talento individuale del 1917 Eliot mette a fuoco il problema con pragmatica chiarezza: «La tradizione non è un patrimonio che si possa tranquillamente ereditare; chi vuole impossessarsene deve conquistarla con grande fatica. Essa esige, anzitutto, che si abbia un buon senso storico». Nella sua opera successiva il poeta inglese annuncia l’esaurimento della modernità.
Una delle caratteristiche principali della post-modernità è la critica alla modernità e il suo oltrepassamento all’indietro: all’idea del «nuovo» e di innovazione ininterrotta della letteratura, subentra l’idea del ri-ciclo e del ri-uso, della citazione, della de-costruzione. Questo è chiaro in molti autori post-moderni oggi inquadrati come neoclassici. Il mondo salvato dai ragazzini (1968) di Elsa Morante è un’opera tipicamente post-moderna, con il libero impiego di vari generi narrativi che si sovrappongono e si elidono nell’ambito di un discorso poetico ormai vulnerato; Trasumanar e organizzar (1971) di Pasolini segna l’ingresso di un discorso poetico sostanzialmente non dissimile dal discorso giornalistico e narrativo; La Beltà (1968) di Zanzotto è un superlavoro di microcitazioni e di variazioni… siamo arrivati alla summa del Moderno che si autocita e si fagocita. Altre foto per Album (1996) di Giorgia Stecher è una riscrittura del passato attraverso la lente di ingrandimento di alcune fotografie dimenticate nei cassetti di vari comò; il passato viene ripescato e rivissuto mediante vecchie fotografie dimenticate. Incredibile!, la vera rivoluzione della poesia la si fa mediante delle fotografie dimenticate in un cassetto, ripescate messe in forma poetica; la vera rivoluzione la fa Maria Rosaria Madonna con Stige del 1992 adesso ripubblicata insieme agli inediti da Progetto Cultura, Stige, Tutte le poesie (1985-2002) con la sua poesia in neolatino, fitta di scalfitture semantiche, ibridazioni lessicali dal tardo latino ieratico medievale ad un italiano arcaicizzato.
Ormai è chiaro che le rivoluzioni artistiche non si fanno più in avanti ma all’indietro, di lato, ripescando i brandelli e i sintagmi di un mondo trascorso. Auden e Brodskij sono autori tipicamente post-moderni, tornano al ri-uso della metrica tradizionale, la ribasano su un materiale sostanzialmente estraneo e refrattario alla gabbia metrica della tradizione qual è il parlato. Il Moderno, con tutte le sue avanguardie e post-avanguardie, tende a diventare un fenomeno del passato, un circo equestre, un patrimonio amministrato, un museo, mercato, rigatteria, vintage. Entriamo nel Postmoderno. All’idea del progresso estetico subentra l’idea di un regresso estetico, di una diffusione dell’estetico in tutte le direzioni, fuori dagli ambiti privilegiati e protetti della tradizione stilistica del Moderno. Il nichilismo antitradizionale delle avanguardie è progressivo, tende al futuro, vuole andare sempre oltre e al di là, distrugge il passato per costruire un mondo nuovo, distrugge in quanto c’è ancora un patrimonio da dilapidare e distruggere e c’è anche un mondo nuovo da abitare e conquistare.
Oggi, nelle nuove condizioni del Dopo il Moderno, non c’è più un passato da distruggere, anzi, non c’è più un passato, non c’è più nemmeno alcuno spazio per il Futuro.
La poesia di Marina Petrillo la si può inquadrare in questo ambito storico: un tentativo di scavalcamento all’indietro della modernità ripristinando le tematiche «alte» e quelle «basse», il lessico «alto» e quello «basso», il registro del «quotidiano» e quello del periechon.
Ne risulta un libro costituito da un conglomerato di due stili e due approcci metodologici completamente diversi: tendenzialmente ieratico il primo e tendenzialmente cronachistico e pragmatico il secondo. Ne risulta una divaricazione lessicale, prima ancora che stilistica; concettuale. Lo stile tendenzialmente gnomico-aforistico è agglutinato allo stile tendenzialmente cronachistico, ed è in questa ambivalenza, in questa oscillazione tra due stili contraddittori che si rivela la non pacificazione di ciò che non è stilisticamente conciliabile. Il problema della coesistenza di linguaggi disparati e divergenti, caratteristica delle scritture del Dopo il Moderno, non può essere avviato a soluzione con un atto individuale o con una opzione privata dello stile. Ma è qui che si gioca e si giocherà la partita della scrittura poetica del futuro: il bisogno di attraversare i linguaggi detritici e di riporto della tradizione del Moderno (hic facit saltus!) evitando di compromettersi con i detriti della cronaca e del quotidiano come ingenuamente fa il minimalismo.
[La sposa fetale, installazione di Marina Petrillo]
Molto dispari nella resa metrica, la scrittura della Petrillo è attraversata da una inquietudine stilistica e materica per tutto ciò che sfugge al calco mimetico. È l’ibridazione materica di cui si fa carico il discorso poetico di Marina Petrillo che rende questa scrittura sabbiosa, petrosa, scagliosa, acuminata, irrisolta.
Marina Petrillo, seguace di Mallarmé e adepta prediletta di Mnemosyne, considera la pratica poetica al pari di una liturgia nel senso letterale del termine che comprende una dimensione soteriologica, in cui è in argomento la salvezza spirituale, e una dimensione performativa, in cui l’attività creativa è un semplice comportamento pragmatico. La poesia si dà come celebrazione di un significato che sta al di là dei significati intramondani, di un significato trascendibile e trascendente. Detto questo, si capirà la predilezione della Petrillo per la catacresi e l’ellisse, che sono gli strumenti retorici che tendono a spostare il linguaggio verso la soglia dell’indicibile.
La poesia della Petrillo predilige l’espressione figurata, nella quale il letterale e il figurato funzionano come categorie proposizionali della differenza problematologica. Ad esempio nel sintagma «Io diffuso ad Uno», siamo indotti a ricercare altro da ciò che è detto in ciò che è detto attraverso ciò che è detto. Decifrarne il senso implica l’atto di aderire ad un universo concettuale e metaforico dominato dalla contradictio in adiecto e dalla tautologia dove l’enunciato è risposta ad un altro enunciato secretato, risposta alla questione del senso, impossibile a dirsi e a dire se non mediante un atto linguistico figurato. Nella poesia petrilliana la tautologia e l’ossimoro abitano la medesima casa del linguaggio, e il linguaggio ne paga le conseguenze con una situazione di infermità dove il locutore parte da una domanda secretata per andare verso la risposta; e la poesia è nel viaggio, nel percorso che intercorre tra il parlante locutore e il rispondente risponditore. È la ricerca del senso che qui ha luogo, che non può essere soltanto nel disvelarsi del linguaggio senza che vi sia al contempo il presenziarsi del risponditore. È un dialogo muto e intermesso che ha luogo in mezzo alla confusione dei rumori di fondo. È il solo modo in cui può darsi la poesia nella notte dei tempi dello spirituale della nostra epoca digitale.
Per Ezra Pound «una fondamentale accuratezza d’espressione è il solo e unico principio morale della scrittura», e la Petrillo lavora con il bulino del cesellatore per anni intorno ad una catacresi o ad una metafora ardita. È il suo modo di partecipare ad un rito olistico nell’epoca della medietà mediatica. La severità del poeta nei riguardi di se stesso è il miglior lasciapassare per la propria poesia, il lavoro poetico richiede tenacia e auto riflessione e un senso spiccatissimo di autocritica.
Ha scritto Marina Petrillo:
«il Tempo. Spoglio di ogni linearità, abita i fotoni di infinite galassie».
Quando la poetessa romana ha messo su carta questo pensiero non aveva ancora incontrato la pratica poetica della nuova ontologia estetica; tuttavia questo pensiero l’aveva messa sulla strada giusta: che il Tempo non ha alcuna linearità, e che trasporlo nella linearità sintattica e semantica del discorso unidirezionale che procede dal soggetto e passa attraverso il predicato per giungere al complemento oggetto, è un atto di traduzione che falsa sia la realtà delle cose che si presentano nel Tempo sia il racconto che noi diamo delle nostre percezioni e sensazioni. Si tratta di un atto di falsificazione.
Questo è l’assunto base da cui prende le mosse la poesia modernista europea che ha avuto inizio nel 1954, anno di pubblicazione di 17 poesie di Tranströmer. Chi non ha metabolizzato questo fatto, continua e continuerà a fare poesia tolemaica fondata sul presupposto della linearità semantica del tempo. Il concetto, credo, è molto semplice. È questo il pilastro fondamentale della nuova ontologia estetica.
Marina Petrillo stava andando per la sua strada già da molti anni, ancora prima che nascesse la nuova ontologia estetica, pensava in termini di «tempo interiore» e di «spazio interiore», scriveva una poesia della stanza interiore, di un cosmo in miniatura fitto di infinito, dove finito e infinito sono complementari e si legittimano a vicenda.
Per fare poesia nuova, o almeno, diversa, bisogna avere la forza di mettere in discussione quei precetti su cui si fonda il convincimento che confezionare una poesia significa aderirea un discorso che preveda un concetto unilineare del tempo e dello spazio, e la Petrillo ha provato a coniugare la rarefazione sintattica e metrica della poesia di Cristina Campo e di Antonia Pozzi con l’esigenza di una poesia che facesse di quei punti di debolezza, leggi la dismetria e la distassia, un punto di forza e di ripartenza.
Cupo e colmo d’angoscia risuona il lamento di Hölderlin:
«Wozu Dicther in dürftiger Zeit?».
A che scopo? A che pro? Perché i poeti nel tempo della miseria? Che cosa hanno da dirci i poeti nel tempo della povertà?
«L’espressione tedesca [in dürftiger Zeit] – scrive Blanchot – esprime la durezza con cui l’ultimo Hölderlin si difende contro l’aspirazione degli dei che si sono ritirati, mantiene la distinzione tra le due sfere, la sfera superna e quella di quaggiù, mantiene pura, con questa distinzione, la regione del sacro che la doppia infedeltà degli uomini e degli dei lascia vuota, poiché il sacro è questo stesso vuoto che bisogna mantenere puro».
Poco prima dei versi citati, l’elegia recita:
Nur zu Zeiten erträgt göttliche Fülle der Mensch.
Traum von ihnen ist drauf das Leben. Aber das Irrsal
Hilft, wie Schlummer und stark machet die Not und die Nacht.
“Solo per breve tempo l’uomo sopporta la pienezza divina. / Dopo, la vita non è che sogno di loro. Ma l’errore / aiuta, come sonno, la necessità rende forti come la notte”.1
L’errore, l’erranza, la penuria, l’indigenza… aiutano, rafforzano. Perché? Perché in questo tempo di durezza, la parola del poeta non dice più della dipartita degli dei, dell’abbandono, dell’assenza – la pienezza non è più udibile, essa ci dice che la dipartita degli dèi apre uno scenario di povertà nel tempo della durezza dell’essere; che la poesia significa il lutto, parola che oscilla tra memoria ed oblio, tra durezza e povertà dell’essere.
«Entrambi – uomo e dio – sono infedeli», scrive Hölderlin.
Di che cosa parla, infatti, il poeta? Qual è la sua materia? Se ad ogni tentativo di dire qualcosa intorno al proprio oggetto, consegna questo stesso oggetto all’oblio, lo affida alla dimenticanza? Vocazione del poeta è l’esercizio di una perpetua conservazione in perdita. Che ne è allora della parola del poeta, di quella parola che testimonia il sacro, e lo mantiene puro e vuoto?
La poesia della Petrillo alza gli scudi quando la tendenza ad ammutolire diventa insormontabile e soverchiante.
Nel tempo della estrema povertà (in dürftiger Zeit?), ha risposto Marina Petrillo con delle poesie che sembrano provenire dal tempo della mezza luce, della Lichtung, con delle parole sospese nel viale del tramonto, nella «radura» presso la quale l’ospite della terra giunge dopo un lungo silenzioso tragitto. Allora, ecco il segreto di quella frase hölderliniana: «Ciò che resta lo fondano i poeti», non tanto la parola in forza di «ciò che dura», ma anzitutto, la parola per la debolezza di «ciò che resta», perché in esso i poeti fondano il loro regno illusorio fatto di stuzzicadenti e di zolfanelli bagnati di pioggia come l’infrangersi della parola poetica che non è nulla di monumentale, di statuario, di memorabile, quanto un cumulo di detriti linguistici inutilizzati e abbandonati. La parola poetica non è una struttura metafisica stabile ma evento fragile e precario che si iscrive nell’epoca della debolezza e dell’infrangersi della parola poetica sugli scogli dell’essere un tempo stabile ed ora non più.
La parola poetica diventa esperienza della fragilità e della terrestrità, esperienza di un indebolimento di ciò che un tempo lontano era la pienezza del tempio greco o della basilica cristiana ed adesso è un luogo infirmato dal sole e dalla pioggia, dal vento e dagli uomini che abitano la terra e che ad essa ritornano, come erranti, come morti. Il linguaggio della Petrillo si dà come ciò che zerbricht, che si infrange sugli scogli dell’evidenza della terrestrità.
C’è un filo conduttore dall’epoca di Antonia Pozzi, di Cristina Campo, di Maria Rosaria Madonna, di Anna Ventura, di Donatella Giancaspero ad oggi che lega le voci femminili fino a Marina Petrillo, che ci racconta la scomparsa del «sacro». Una così nitida monumentalità non appariva all’orizzonte della poesia italiana da tempo immemore, dove si percepiscono distintamente le scalfitture, e le incisioni del tempo e della terra, le ferite e le abrasioni del tempo, tra il nulla e il presente, dove il tempo è presenza figurale del nostro essere nel mondo, dove la parola è scontro tra mondo e terra nella forma della terrestrità.
È là dove la Petrillo foscoleggia che ottiene l’apice della monumentalità per quell’empito della voce da basso continuo, classicista nutrita di anticlassicismo per quella fedeltà alle regole formali della poesia a partire dal ritmo franto ai raffinati tecnicismi dell’a capo, attraverso cui la poesia modernista del novecento riaffiora in una veste anacronistica e inattuale in un mondo che non sa più che farsene di quella metafisica dell’apparire e del disvelarsi, del venire alla presenza di ciò che non è più presente.
Le parole della Petrillo si presentano omologhe alle parole del corredo funebre con cui si adorna il cadavere di una giovinetta passata anzitempo tra i più…
«Nella tarda modernità l’essere sempre in viaggio, non avere una casa o un porto d’arrivo e non sentire, di conseguenza, la nostalgia per un preciso luogo cui ritornare, può persino trasformarsi in un privilegio. A cosa aspira l’anima moderna, definita da Baudelaire un veliero in cerca della sua terra utopica, un trois-mats cherchant son Icarie? E dove si dirige? Verso l’allontanamento dal noto, Au fond de l’Inconnu pour trouver du nouveau (Le Voyage, VIII, 8), per uscire comunque dal mondo, non importa dove (Anywhere out of the world!, in Spleen de Paris, XLVIII).
Se ormai il mondo non ha né centro né periferia, non si possono più desiderare rientri nelle calme acque di un porto, ma soltanto senza meta».2
(Cosa rivela Poesia al Sacerdote del Sublime Tempio…)
Dell’insidiosa tela che il sovrano Tempo
ha posto a sigillo del Mondo
più non altro che cenere si solleva.
Scuote a fatica il capo
l’ultimo amante insoddisfatto
se i fianchi si invaghiscono dello Spirito.
Solo implora la pietà di un bacio.
Involve alfine lo Spazio in azzurrità
e di sua soave Bellezza l’oro
rivela in pudico segreto.
Se accettiamo l’affermazione heideggeriana dell’opera d’arte come «messa in opera della verità», non possiamo non chiederci quale sia il messaggio di «verità» che traluce da questi versi di Marina Petrillo posti in epigrafe.
È certo che la «verità» di cui ci parla la poesia moderna non ha nulla a che fare con la «verità» della metafisica, quella, per intenderci, della piena luminosità nella quale si staglia il marmo della Nike di Samotracia; la nostra «verità» non può che essere una scalfittura che non splende più nella «luminosità» del cielo e della terra ma che abita le intemperie, la mezza luce, lo sguardo distratto benjaminiano, il cono d’ombra, gli angoli intermessi e riposti… che si dà mediante un mezzo parlare, un parlare sibillino, un parlottio smozzicato, un balbutire; non più il tempo oracolare che oggidì risulta sbreccato e corroso; siamo giunti vicini al post-tempo un tempo postruistico e turistico dal quale non ci si affaccia più dal balcone del nulla a quello dell’essere. È il tempo della nostra temporalità infirmata. È il parlare di una modesta sibilla quello della Petrillo che ci parla della perdita perpetua, un parlare dimezzato, smozzicato e infirmato di una regalità infranta e decapitata; il parlare della bocca della testa decapitata, uno smozzicare di sillabe farneticanti senza più senso alcuno, un plesso di fonemi disarticolati e incomprensibili che si presenta nelle vesti disadorne di un «enigma» sordidamente esposto alla dimenticanza dell’essere e della memoria. Ecco perché l’enigma non deve essere interpretato quanto evocato e ricordato come un monito per ciò che è stato e per ciò che sarà nel futuro. Le parole della Petrillo sembrano aleggiare attorno ad un nucleo che si è dissolto, come un fumo che il vento ha disperso.
«Non è sempre necessario che il vero prenda corpo; è sufficiente che aleggi nei dintorni come spirito, e provochi una sorta di accordo come quando il suono delle campane fluttua amico nell’atmosfera, apportatore di pace».2
Le parole della poesia petrilliana aleggiano incerte attorno ad un nucleo assente perché hanno perso la forza di gravità della sintassi e del sensorio che un tempo le teneva legate, perché quella forza si è indebolita…
(Giorgio Linguaglossa)
1 G. Agamben Creazione e anarchia, 2017 pp. 124, 125
2 M. Heidegger, Die Kunst und der Raum, St. Gallen, Erker Verlag, 1969; trad. it. L’arte e lo spazio, di C. Angelino, Genova, Il melangolo, 1984 p. 23
Poesie di Marina Petrillo, da materia redenta (2019)
All’ombra di un filo d’erba sei cresciuta
come fiocco di neve caduto.
Il cuore è il tuo cielo e nel sempre ad esso ritorni.
Hai trascorso in parole il tempo
ed ora, umile, ad esso rivolgi il canto.
Non parli che di Lui, Signore nell’aurora.
Vivi nell’attesa del Verbo
su te calato a sciame di stelle.
Nel Giardino dell’Eden non regnava solo il silenzio.
Nulla accadeva all’ignaro Spirito dell’uomo
se, come creatura, muoveva il passo.
Un giaciglio lo accoglieva in grembo di madre.
La compassione nutre l’essenza di ogni cosa.
Un piccolo bruco muove i suoi passi.
Una tenera chiocciola in umida scia si allontana.
Dell’eterno giuoco complici
con l’esistere nasciamo a conoscenza divina.
Ma in questo istante
non siamo che una striatura velata di amore
persa tra nubi rosee,
preludio al cielo della sera.
*
(Cosa rivela Poesia al Sacerdote del Sublime Tempio…)
Dell’insidiosa tela che il sovrano Tempo
ha posto a sigillo del Mondo
più non altro che cenere si solleva.
Scuote a fatica il capo
l’ultimo amante insoddisfatto
se i fianchi si invaghiscono dello Spirito.
Solo implora la pietà di un bacio.
Involve alfine lo Spazio in azzurrità
e di sua soave Bellezza l’oro
rivela in pudico segreto.
Siamo qui a scrutare cieli
di infinito capovolti
conchiglie a sciame di nube.
Nulla rivela il mondo
Antigone pietosa la terra
del sospiroso gravido Ribelle
Madre, a sponda di tenerezza.
Ancora le Parche cuciono destini
ma del Canto antico è spenta la memoria
e ognuno afono tace l’Amore perduto.
*
Oltre l’azzurra linea
il vuoto al vertice di un pensoso cielo.
Fragile scende ad acquietare santi
del cui prossimo martirio miracolosa via è il cielo.
Non solito commiato li insegue
ma un destino benevolo da aureola avvolto.
È solo una visione.
Indocile ora fuggita all’arcolaio di una Parca
assorta in sonno opaco.
Onda avversa di un emiciclo lunare
cui Ipazia offrì il suo astrolabio di rigorosa stella.
Lamento di cosmo solitario
cui l’indocile figlia al terrestre genio
in malia fu vinta.
*
Attinge ad antico pudore il muto volto
mentre le mani si incontrano inquiete
nella stretta emozione di uno sguardo assorto.
Il velo non cela altra vita che
non del semplice incanto, sospiro.
Soave nasce così il sorriso
tra tumide labbra di femminea grazia
acerbe
mentre ancora non traccia di suo mistero
canto, l’essere Madre in epifania di luce.
*
Si muovono accorti
dell’irreale transito complici
mai paghi se sia condanna il loro indugio.
Una tana li ha partoriti o abisso,
nero spazio ove tace ferita l’umana larva.
Posti a corolla, in sbiadente animo
del territorio spiano il muto orizzonte.
Sono giunti, mai nati, prossimi alla fine
eppure non volgono lo sguardo oltre la linea
orfani del confine avverso.
Compagni in forzoso gioco
pronti al guado, persi nel dubbioso
diradare di uno spazio
acquietato in rossastra scia.
*
A breve passo muove mistero in suo inciampo.
Equilibrio di leve a ridosso
di incerti sensi mai desti del tutto.
Riduzione in scala dell’Essere
in negletto spazio se l’immanente abita
l’etere e le auree sezioni in segreti frattali.
Eresia di luce sbiancante
nella rivelazione delle Idee
poiché dell’incerto detto non vi sia traslato.
Solo creature degne
poste a sigillo della propria maestria
*
A traccia di vento espira il soffio
un’ultima stazione come transito
di nubi in meridiano estivo.
Scuote il tremolio di un bacio mai dato
del tutto il volgere dell’istante
in ridesto mattino.
Fummo a lungo in noi stessi
a percepire dei passi lieto
l’inciampo, sospesi ad ali tremule
smarrenti alfine la via.
Se fu sogno o altra meraviglia
non ebbe parole tracimate oltre
il confine di un sentire così umano
da poterlo toccare.
Stato di presenza imperfetto al visibile.
Straniamento di ogni piano orfano,
imploso chiarore albescente
in flebile fiamma a neon riflessa.
Una lieve carezza solleva a manto
il respiro e in lui, eterea molecola di elio,
svanisce in cereo tocco l’istante.
Marina Petrillo
Anima gentile del cui segreto
affanno sconosco il battito.
Sei qui a liberare dalla morte
il vanto
ad irrorare il notturno lamento
di stella tradita e poi sconfitta.
Poiché Amore risiede tra i primitivi
bambù e ne esplora in bellezza
lo smeraldo ondeggiare.
Ignora spazi e permane nell’eco
di ogni elemento.
La mano indica la via
ove del labirinto non scorge traccia.
Solo in fuggevole tocco
arride all’inverso canto dell’inverno.
*
Era attesa la notte.
Eppur svelata al segreto non colse
della rivelazione il sigillo.
Dimentica dell’universo pervase pianeti
stelle, sino ad estinzione,
astenia di un sogno riportato ad alba.
Lì mi trafisse inquieto il dubbio
dell’oblio prima del Creato.
Se Lui Fu ed È
tornerà ad unire le dita in gesto benedicente.
Varcherà in sacro movimento
il sentiero degli Esseri senzienti.
*
Fui sposa, in abito fetale.
Nel doppio vissi, da ombra di luce attraversata.
Limen rivelato in distillio di tempo
a calco di ignoto cammino.
Abitai dell’Ade l’obliqua ferita,
imene dei molti inganni.
Ad ombra di me indossai il sudario
abitando la solitudine degli Esseri Primi.
*
Traspare e presto dilegua.
Non permane lascito se non raggio
filtrante chiare nubi.
Rarefatta molecola antesignana
del giorno, diva nascente remota ad indugio .
Chiarore fugato al sommesso mattino
in acquiescente pensiero.
Armonia della soglia custode
a conforto di spazi accecanti in vibrato assenso
il designato monito alla Vita.
*
In sguardo complice tace l’azzurrità
l’Essere nuovo, di evoluta specie,
preludio simbolico impresso a pietra lavica.
Livido si staglia il ricordo
anteposto alla coscienza degli infinitamente mai nati.
Le mani gemellari combaciano
in sorriso armonico.
Oltre l’inconoscibile svetta il poetare
dell’irriso Angelo ché del Verbo abita
la parola in antesignana lingua,
del sovrumano, specchio.