Le ferite dello Spirito non guariscono e lasciano vistose cicatrici…
Maria Borio, nata nel 1985, si è laureata in Lettere ed è dottore di ricerca in letteratura italiana. Ha pubblicato le raccolte Vite unite (XII Quaderno italiano di poesia contemporanea, Marcos y Marcos, Milano 2015) e L’altro limite (Lieticolle, Pordenone-Faloppio 2017). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, Pisa 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, Venezia 2018). Cura la sezione poesia di “Nuovi Argomenti”. Trasparenza è il suo primo libro di poesia.
Il Punto di vista di Giorgio Linguaglossa
«Le ferite dello Spirito guariscono senza lasciare cicatrici», lo ha scritto Hegel, sono le parole finali della Fenomenologia dello spirito, che io però interpreto à rebours: Le ferite dello Spirito non guariscono e lasciano vistose cicatrici… E questo libro di Maria Borio lo lascia intendere con molta chiarezza al di là delle intenzioni dell’autrice, è la natura delle contraddizioni stilistiche che qui emerge in modo palese. La
«Trasparenza» di cui si narra nel libro è la invisibilità delle cicatrici che riposano sul corpo martoriato dello Spirito, invisibilità appena impercettibile che alligna sotto il pelo d’acqua di una scrittura nitida e sottile e avvolgente, metà poesia metà prosa breve alla maniera della scrittura poetica materiatasi nel post-novecento di questi ultimi lustri; la «voce» contiene in sé una voce «trasparente», quasi che la trasparenza la si voglia ostendere e nascondere nell’elemento dialogico, nella forma narrante della terza persona, dell’estraneo che ci abita e che sembra governare tutte le cose ma che invece ne è succube, prigioniero dell’esterno e dell’esteriorità e della chiacchiera del «si».
«Trasparenza» della terza persona e delle cose e invisibilità dei «confini» tra le cose e gli umani sono il segnale di qualcosa di impronunciabile che la poesia vorrebbe, ad un tempo, ostendere e nascondere, elidere, implica e allude ad una colpa dell’io per non aver osato oltrepassare quei «confini», per non aver saputo o potuto oltrepassare la «soglia» che ci divide dalle cose e dai loro significati e dagli altri esseri umani. «Trasparenza» è anche questa disumanizzazione cui siamo costretti, questa problematica impossibilità ad inoltrarci nella dimensione attigua, che noi sentiamo prossima, ma che ci è sbarrata, insondabilmente ostile, slontanante e lontana, impercettibilmente aliena, mentre la nostra «voce» è irrimediabilmente reclusa in un circondario di «voci senza suono», in un reclusorio di «volti scavati».
Voci senza suono, volti scavati
passano in fondo al video come i tronchi maceri
di una leggenda: anche le persone con i desideri
infossati come solchi nel catrame possono portare
una leggenda. Le grida sono legni, acqua vecchia
diventano gusci, forse nodi bianchi.
La leggenda che porto ora in questa città
racconta della nascita di certi uccelli
dai gusci dalla schiuma dai legni morti
poi crescono le piume – dice – e volano sul mare
come tutti gli uccelli, tutti gli uccelli anche qui
– credo – qualcosa si sta alzando o si rompe.
La leggenda fa trasparenza, i solchi sul catrame
sono le cicatrici che ogni persona in qualche parte
nasconde. Invecchiando si mimetizzano.
Anche le leggende fanno sfere mimetiche.
Adesso volano a me’’aria, senza misura
lacera o intatta.
*
Anche la voce può dimagrire
ed è sentirlo come il corpo dimagrisce
trasforma i muscoli in altra massa
li fa sbiancare e ascolta i toni che cadono
fra le corde vocali, perdono l’equilibrio.
il corpo dimagrisce come la mente quando sogna:
questo che era noi è noi, passato, futuro
in una voce pura il corpo sottile
fino a quando non restano dentro un’immagine lontana
corpo e voce intrecciati, scie dopo la pioggia.
Chi ci guarda può annullarci, farci dimagrire, portarci via.
Forse l’hanno guardata come li ha guardati
ed è dimagrita entrando negli altri:
la voce cade in uno spazio fra le corde vocali
di tutti, vuota e bianca, fino a stringerci.
Nella sua essenza profonda la poesia resiste come può allo sguardo indagatore
Interpretare una poesia implica disvelarne l’aura.
Ogni poesia ha un’aura, contiene delle parole chiave che consentono l’ingresso in un enigma di significati che resistono ostilmente alla interpretazione. Nella sua essenza profonda la poesia resiste come può allo sguardo indagatore che vorrebbe scandagliarne gli abissi, nella sua essenza profonda la forma poetica è un dispositivo di resistenza ostile alla penetrazione, è una sottrazione, un passo indietro rispetto alla significazione; l’aura è qualcosa che risiede sul limite esterno delle figurazioni, potremmo forse ragguagliarla alla stratosfera che protegge il pianeta dalle radiazioni cosmiche e solari, l’estremo lembo di difesa contro gli agenti nocivi extra solari… ma è vero anche che l’aura si configura come il limite di ciò che delimita la figurazione e le impedisce di palesarsi nella figurazione, di far sortire significati nascosti o dimenticati o rimossi.
La poesia di Maria Borio gira instancabilmente intorno a se stessa, parla preferibilmente in terza persona, adotta la meta poesia per sortire fuori dalla forma-poesia della tradizione italiana di questi ultimi lustri; ci parla della crisi della poesia a diventare poesia, a diventare adulta; ci narra la difficoltà della «voce» a raggiungerci, di farsi scrittura, grafema, segno lessicale, significato, quasi che il supporto della carta non sia più idoneo a recepire la scrittura poetica, «la voce cade in uno spazio fra le corde vocali», scrive l’autrice, «la voce cade» in uno spazio vuoto. È la problematica della poesia a diventare «nuova poesia» attorno a cui ruota tutta la poesia italiana di queste ultime decadi quella che sta a cuore a Maria Borio, quella problematica che la «nuova ontologia estetica» ha affrontato elaborando un nuovo modo di impostare e pensare il discorso poetico. Ma questa è la cronaca dei giorni nostri. Un ultimo appunto: nella scelta delle composizioni ho privilegiato quelle in distici, che rivelano una singolare rassomiglianza con il distico adottato dalla «nuova ontologia estetica». Ma si tratta di due distici lontanissimi nella pensabilità di esso distico come struttura epistemologica nella NOE e come versione rispettabilmente stilistica nel distico della Borio. Si tratta di una de-coincidenza, che forse non è senza significato.
Maria Borio
Dorso duro
I
Le case sull’acqua avranno solidità
ma gli occhi intorno non sono umani.
tra atmosfera e atmosfera tutto si trasforma.
Un suono umano è disumano.
II
Resistono piante d’acqua. Immaginiamo
che ci raggiungano da un nucleo profondo.
Il giardino è in equilibrio senza atmosfera,
si riflette nell’acqua per sintesi di luce
attraverso la città che ha forma di pesce
ma scorre senza natura vegetale o animale.
Allora papadopoli tra atmosfera e atmosfera
fa un’energia invisibile, un equilibrio steso.
Questo giardino non ha natura, non è giardino.
Equilibrio sulle acque è equilibrio?
III
Il male è nascosto nella nebbia del mare.
un uncino lo porta avanti e indietro.
Ci siamo persi di notte su questa riva,
le luci oscillano sopra le spalle.
Non siamo più uomini ma suono
che cuce dorso duro alla giudecca.
I motori scrivevano densamente l’acqua.
Ora un silenzio fitto nel reale portato.
Scrive Carlo Sini: «L’aura sta al limite della figura, segnandone la relazione al profondo, cioè alla sua provenienza, innanzi tutto, ma anche alla sua destinazione futura. L’aura stessa è pertanto un limite: ciò che consente alla figura di continuare a figurarsi e a sfigurarsi e così di trascendesi. Il limite è la soglia del continuo transitare dell’essere in figura delle cose».1
Quando la «trasparenza» si condensa, diventa «nebbia», che si posa sulle cose e impedisce allo sguardo di far luce sul mondo. L’autrice intercetta i segnali di questa cortina di «nebbia» che avvolge le parole e le cose degli umani; infatti scrive la Borio: «Il male è nascosto nella nebbia del mare». La «nebbia» è il sintomo evidente di una pandemia che affligge la nostra civiltà di parole, il segnale semaforico di un «male» che ci abita ed abita tutte le cose. Questa è un’altra parola chiave del libro, la «nebbia» che offusca la «trasparenza» e la converte nel suo contrario, e impedisce agli umani di «vedere». La Borio ha senza dubbio avvistato il male della nostra epoca, resta da fare ancora un altro passo: apprestare un dispositivo estetico, una forma-poesia che permetta di fare luce, di diradare la «nebbia» e restituire le cose alla loro piena visibilità.
Carlo Sini, Il sapere dei segni, Jaca Book 2012, p, 14
*
Silenzio: con quale altra parole vuoi raggiungermi?
Al limite dell’aeroporto l’atmosfera è tutto
chiude i nostri mondi in un’ascissa che scende a terra
senza toccarla, porta il peso di tutto.
Con quale altra parole vuoi toccarmi?
Il sudore è l’unico segno dalla carne al plexiglass
dal plexiglass al vento dell’hangar.
Diventa nodi trasparenti
forme di cristallo tremano sotto le ali.
Con quale altra parola cerchiamo di vivere per sempre?
La stella vecchia mangiava la giovane ma poi è morta
e cadendo è diventata una scia senza colpa.
Appoggiamo la testa al finestrino, perdiamo l’intimità.
Solo schegge fluorescenti dall’orizzonte al cervello.
E allora toccami silenzio, fammi male.
Voce
Una voce ci raccoglie nella mente. Il suo spazio
è un equilibrio fra due mediane: la voce che sembra
conficcata su uno spillo e due mediane che la attraversano.
La terra esiste senza equilibrio come una voce.
Pensiamo le sue parti: il sud e il nord divisi che irradiano
persone, flussi di persone, congiunzioni o schianto.
II
Ci siamo fermati a pensare lo spazio rettangolare
sotto questa casa e le fondamenta conficcate
come su una spina di humus, un sapore bruciato.
Dai muri al prato, dal prato a altri muri
la vita di ognuno a volte assomiglia al perimetro
di un segno solo su una meridiana sola.
IV
Una terra è flussi e scarti, come quelli della voce.
Stringi le mani sulla gola, ascolta le parti interne
alto e basso, il palato e lo stomaco che spingono.
La mano stretta tra sud e nord, come sopra a un mare,
scava nella gola. Anche dentro a una persona sola
lo spazio di una terra a volte è così verosimile…
Dicevi questa storia per trovare l’immagine
di una moltitudine, riporla dentro di te, liberarla.
Trasparenza
II
Sembra di potersi stendere in questa prospettiva:
tra le foglie e i ferri brilla oltre la sbarra curva
con gli argini mangiati e ora lì, un’archeologia
uno specchio delle piante che difendono gli embrioni
dei frutti e puntano i bordi seghettati delle foglie
al metallo come a un mare.
Il ferro incandescente sotto il sole allora è il mare
come un uomo che immagina se stesso il mare e io
lo tocco nell’ombra che si muove, una lama
sopra la pelle. I frutti acerbi e i pensieri si staccano
mentre ci assottigliamo, diventiamo verticali –
i frutti e i pensieri geminano contro l’orizzonte.
Il mare è davanti, la collina senza prima né poi:
in mezzo siamo diventati ore e immagini.
III
In ogni riflesso un’ora, in ogni ora un’immagine:
tra la collina e il mare hai trovato un posto puro
appartiene a te, ma potrebbe esistere in ognuno,
lo spazio regresso dietro le ossa dove tutto
per un momento può esistere verticale. In alcuni
questo spazio è aperto dalle perpendicolari
di case, binari o dal modo in cui in un video il colore
del metallo si lega al cielo: lo spazio dove la pelle dei frutti
che maturano è quello della pelle che invecchia,
la muta di un animale spaventato mentre invecchia.
La planimetria di un quartiere si dirama, una stanza
di voci, gola sola dentro lingue dense…
Questo, come il posto di ognuno che è l’individuo
e trascina dalla riva del secolo il mito che ognuno è solo
individuo. Ti vedo contro il centro della stanza,
la bestia fiuta il cibo o il predatore,
la moltitudine che è cibo o predatore e la sua pelle
suona come una muta, lascia uno strato
un altro e ogni nuovo giorno cammina con una pelle
nuova sopra il posto interiore che invecchia –
Ognuno consuma il suo individuo. Fuori le voci
arrivano sintonizzate agli angoli della stanza
e forse si sente anche il punto in cui il suono sembra
una prospettiva verticale, ma sprofonda in ognuno
che è l’individuo, il mito immobile al centro:
ognuno se stesso solo.
VI
Il mare è davanti. La luce della mattina si sgrana,
ci trasforma nei punti di fuga di una prospettiva rovesciata.
i frutti cadono, ci attraversano i pensieri,
si depositano sopra le ossa e i pensieri si gonfiano
in alto resistenti nell’aria di fine estate, sfere dove
le proiezioni di molti uomini iniziano a scambiarsi
fissandosi dentro la luce mentre mare e terra
raffreddano. Inaspettatamente possiamo diventare
freddi appoggiati su onde e nuvole fredde.
Intorno il posto adesso è trasparente.
Intorno, è il posto interiore della paura e della verità.
in mezzo, le sfere dei pensieri sono libellule:
si accoppiano e i frutti cadono, dicono
cosa siamo, come ci siamo immaginati.
È mattina: è tornare l’uno di fronte all’altro
- essere la prospettiva fragile e forte
per chi ci ha abitato, chi ci abita.