Marie Laure (Milaure) Colasson nasce a Parigi e vive a Roma. Pittrice, ha esposto in molte gallerie italiane e francesi, sue opere si trovano nei musei di Giappone, Parigi e Argentina, insegna danza classica e pratica la coreografia di spettacoli di danza contemporanea. Scrive poesie nella sua lingua naturale, il francese ma non ha mai pubblicato prima d’ora le sue poesie.
Lettura di Mario Lunetta
I frammenti espropriati di Marie Laure Colasson
Marie Laure Colasson, che ha alle spalle un probantissimo lavoro di costruzione linguistica nell’ambito di un’astrazione geometrica carica di sorprese, continua a mettere lo spettatore con le spalle al muro presentando questa nutrita serie di collages trattati con la mentalità di un pittore di affreschi che abbia imposto al baricentro del discorso una concentrazione repentina. Non c’è in queste opere di affascinante tenuta una stilla di pietà, ma solo un fortissimo entusiasmo ritmico-cromatico strutturato su una volontà di costruzione continuamente smembrata dall’interno, in attesa di un evento che stia per accadere, inevitabile, quasi un racconto noi squadernato per morceaux che fanno insieme puzzle e organismo.
I frammenti del mondo, ricomposti e obbligati a esprimersi in un’altra lingua, sono come ripescati da una qualche profondità misteriosa sorpresa da un vortice. È come se tutto fosse attraversato da una sorta di apocalisse cui si oppone tuttavia una muscolatura di rilevante solidità dinamica, in cui la stessa inquietudine non si sterilizza in sé, per farsi invece profonda passione per la vita.
Vi alitano dentro lo spirito di Kandinskij e la potenza operaia di Léger, rimessi in circolo in questo enigmatico viaggio volumetrico-coloristico da una seria di spinte illocalizzabili. Non c’è niente di contemplativo e di riposante in queste opere di straordinaria vitalità e di ferma intelligenza. C’è, al contrario, la volontà inesausta di misurarsi senza infingimenti con un universo di rapporti violentemente squilibrato, cui non è più plausibile fornire alibi che ne mettano tra parentesi le lacerazioni sanguinose. Sarei tentato, sulla suggestione di un pensiero materialistico che in questa suite mostra la sua energia in un dispiegarsi di assetti formali assolutamente anti-mimetici e anti-narrativi, di richiamare in pista quella categoria di «politicizzazione dell’arte» in termini di puro linguaggio – appunto – della contraddizione e del conflitto, che ha costituito l’asse della riflessione teorico-pratica di Brecht-Benjamin in tempi lontani che sembrano continuamente riaprirsi.
Marie Laure Colasson ama in pari misura i fulgori cromatici più inattesi e il montaggio animoso delle sue tranches. I rossi, i blu, i viola, i bianchi, i cromo lampeggianti, i neri così mal tollerati dagli impressionisti, e che nel Novecento hanno assunto nuova dignità e dimensione significante, sono tuttavia per l’energia del suo sguardo pensante non luoghi di un altrove deresponsabilizzato, ma stazioni di un’indagine nella cui chiarezza si annida comunque un grumo di oscurità irrisolta. È la dannazione dialettica di tutte le forme di un’arte adulta che si assuma l’onere di una rinuncia all’innocenza e ad ogni (colpevole) ingenuità. Ed è, insieme, la sua liberazione, ottenuta – come in questo caso brillantemente avviene – grazie al rapporto paritetico che si stabilisce magicamente tra i possibili scenari-fondale e il groviglio in close-up delle varie fisiologie bloccate in uno spazio sempre a rischio di rottura. Il colore splende. La struttura ne assorbe la fantasmagoria. E il gesto risoluto e lunghissimo di Colasson ne porta magnificamente a sintesi gli spezzoni «realistici» ritagliati dal magma come impeccabile riciclo dei dettagli e degli scarti, i lampi lirici mai evasivi e invece invariabilmente dinamici, realizzati su nove fotografie-work dello scomparso amico e fotografo Alfonso Priori, che omaggiano la danza (dalla stessa artista magistralmente praticata) nella sua fatica e nella sua leggerezza, e le valenze oniriche (non di rado prossime all’incubo) che compongono sulla masonite una sorta di cosmogonia nutrita e potenziata dalla sua stessa splendida crudeltà
(Mario Lunetta, Accademia Platonica, settembre, 2010)
Giorgio Linguaglossa
Le cose non sono più cose
Le cose non sono più cose. Sono state deprivate di essenza in quanto private della possibilità di un loro uso umano.
È questa la « scandalosa manifestatività del vero». Anche nella pittura astratta della Colasson, gli oggetti sono scomparsi. Ciò che resta sono degli spigoli, delle striature, delle semi superfici illuminate malamente che nuotano in un fondotinta lucido, monotonale, uniforme, un fondotinta neutro, quello liofilizzato dalla comunicazione medialmediatica che si presenta come fondo-sfondo, o come sfondo-fondo, come fondale neutro e cieco, dove le cose che un tempo galleggiavano sono disparite e delle quali rimangono dei semi profili, degli spigoli, degli stipiti malamente illuminati da una luce che si profila e si prolunga inutilmente di contro allo sfondo-fondo tonalmente lucidato a dovere, quasi fosse un relitto kantiano quel dovere di lucidare lo sfondo-fondo dove le cose e il senso sono stati inghiottiti.
Una volta Kierkegaard scrisse che «una proposizione è astratta quando è priva del pronome personale».
Ecco. Una poesia si può definire «astratta» quando è priva del pronome personale io, tu, egli, noi, voi, essi.
È un processo storico che lo decide, non lo decidiamo né io, né la nuova ontologia estetica, né Marie Laure Colasson, né nessun altro.
Ecco perché una pittrice come Marie Laure Colasson fa pittura «astratta», perché è venuto meno il collegamento delle immagini e dei colori con l’«io» autoriale.
Quei colori della Colasson hanno qualcosa di intimo e di arbitrario, di espropriato, noi non ci perdiamo in essi come può avvenire davanti ad una tela di Rotcko o di un Kandinsky. Dinanzi ai colori della Colasson invece noi non ci perdiamo, ne siamo allontanati, come di cosa estranea a noi, come di un corpo estraneo, ne siamo espropriati. Si tratta di colori estraniati, che estraniano. Guardavo di frequente quelle tavole con i colori striati e non mi capacitavo di quel che vedevo e di quel che sentivo, avvertivo qualcosa che non mi sapevo spiegare. Adesso ho capito, si tratta di colori che non vengono e non stanno, colori che baluginano un attimo e se ne vanno, il pittore li ritrae nell’attimo del loro ritrarsi, un attimo prima del loro definitivo scomparire inghiottiti dalla notte del nulla.
In questo trovo una particolare specularità tra queste tavole della Colasson e la poesia della nuova ontologia estetica: sia le fraseologie «astratte» della sua poesia che la pittura «astratta» della Colasson sono governate dalla medesima legge del nulla che tutto inghiotte con voracità e opacità.
I colori sono l’Einkleidung, il rivestimento formale, il travestimento travisamento dello Stoff, della messa a nudo della materia. Questa struttura inattingibile può essere messa in scena sotto forma di Einkleidung, poiché quella «stoffa» risulta inattingibile, nasconde e mostra lo Stoff ontico, vale a dire che la verità di ciò che è presente senza velo co-incide la non verità di ciò che si vede senza velo.