Livio Cinardi, Sulla situazione emotiva quale struttura dell’esserci, Poesie di Carlo Livia, Giuseppe Talìa, Marina Petrillo – Giorgio Linguaglossa, Perché la spazzatura?

Giorgio Linguaglossa
ma perché [parli di] spazzatura e non piuttosto echi celesti, tracce del divino?

 

Carlo Livia 

.ma perché [parli di] spazzatura e non piuttosto echi celesti, tracce del divino? Perché solo Burri e non Chagall? L’inconscio non è una discarica di materiali rifiutati dall’istanza morale, come credeva Freud, ma semplicemente l’infinito che trascende e alimenta l’io, di cui in sogno afferriamo brandelli, echi, lampi, riflessi. Noi non sogniamo ciò che vogliamo, ma ciò che dobbiamo, e quando ripercorriamo coscientemente il labirinto onirico, siamo pervasi da una libertà smisurata, insostenibile, che coincide con la necessità di dare vita e forma all’emozione che sentiamo all’origine del percorso iconico, che alimenta e orienta l’espressione, dandole concretezza e densità icastica.

Recitare nel nascondiglio

Sono nella quinta rassegnazione, con lo sciame in collera e la testa di sonno.

Lei mi guarda col vassoio pieno di secoli. La vergine irreale e l’istante pazzo che si getta dalla scogliera.

La bestia della provvidenza si dondola dalla vetrina in fiamme, ornata di lunghe psicosi.

Quando cadono, c’è un brivido che unisce i risorti all’erba stregata, gonfia di occhi induriti dai farmaci.

Allora fa buio nel miracolo, e chi crede di esistere entra nell’omicidio dell’acqua santa.

La prigione allucinogena fugge dalla madre triste. E’ un esilio in sol minore, biondissimo. Cresce dall’umido della sposa.

Respiro il sax del mostro verde, morto alle fanciulle. Le antiche vaniglie non mi lasciano risorgere.

E’ solo uno specchio, altissimo e confuso – dicono.

 

Giuseppe Talìa

Caro Germanico, lo stato di diritto è morto. Ucciso dall’interesse

Personale. Il vulnus della legge lo trovi in ogni supermercato

 

nelle etichette che minuziosamente riportano frasi, simboli

e consigli per il mesencefalo: nato in… macellato in… confezionato

in…

 

Tu sei, mercato e supermercato. Sei domanda e offerta.

Anche il niente si vende facilmente. Il dolce far niente.

 

E’ il sottovuoto il vero problema. E’ l’involucro il vero esantema.

Mettici pure, caro Germanico, che il rovescio non è necessariamente

 

il contrario di d(i)ritto: rovescio a due mani; rovescio della medaglia;

diritto di nascita e diritto di morte. Anche il nulla ha un suo diritto

 

e un suo rovescio. Il nulla ha un passaporto, una impronta lemmatica

e digitale. Riposa nella biometria del non-ente. Il nulla è parente

 

del niente, perché ciò che è nominato esiste, insiste e persiste.

 

Nell’Arena dell’industria della melodia, gli artisti più taggati

fanno da colonna sonora ai gladiatori che sono degli influencer

di fama.

 

Beethoven è il compositore più punk che si conosca dalla Pannonia

alla Cirenaica; Chopin quello maggiormente pop assieme a Vivaldi;

 

Liszt, invece, è un autore beat, mentre Mozart, ah Mozart,

un pomp rock.

 

Caro Germanico, non esiste ricetta per cucinare il nulla,

ma si può condire.

 

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

 

 

Marina Petrillo

Marina Peo

Si accende in distonia celeste, 

pira di combusta legna arsa in epoca remota. 

 

Indugia ogni terra a varcare la sua soglia se, a seme inverso, oblitera i sensi. 

Siamo forse giunti in estremo limite. 

 

Essere o naufragare.
Traccia di linea assente il buio nel miracolo. 

 

Deve aver lasciato tracce troppo lievi per affondare sulla neve. 

Le sillabe stropicciano al sole e la dimora sussulta il giudizio finale. 

 

Del proprio abito rinviene l’antica forma sino a tacitare l’inascoltato suono. 

Era vento o acqua a giacere tra rovi e rose…


Trascorso in attimo, la luce rifrange l’esilio. 

Devoto fiore sospeso tra nembi dal cui nitore erge capo l’indicibile. 

 

Fummo elementi del Tutto, a lui affini, 

poi in dimenticanza sorse un idioma a cui porgemmo inchino. 

 

Poeta, la cui vacuità declama versi.

“Anima lucente che doni spazi di umide stelle, o luna, in antico candore involta. 

 

Linea di perfezione cosmica, sede di intelletto, 

ove Astolfo sostò per Orlando, pazzo d’amore. 

 

S’io fossi in altro tempo viva, di te, o dea, stupirei i contorni 

di fasi e inclinati assi. 

 

Coglierei erbe mediche e studierei il tuo profilo di madre. 

Poiché questo tu sei.”

 

Scrivo, carissimo Carlo Livia, dall’ultimo sogno mai giunto a destinazione. Dai minuti negati che in silenzio creano una piccola ombra. Scrivo in dolce sintassi mentre il cuore piange un ricordo svanito.
Esilio la parola, Giorgio, ove sostare. Combustione. Etere. La ferita del tempo nel ventoso orizzonte degli eventi ove tutto converge: scorie, lamine d’oro e zolle di terra, lamentazioni agli dei. Umano in assenza di tempo, Virtuoso neologismo dal cui sconfitto fronte, nasce rugiada.

 

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

 

Giorgio Linguaglossa

caro Carlo Livia,

è che noi viviamo in mezzo alla spazzatura ogni istante del nostro giorno: lessico salviniano, parole prossime alla betoniera, parole del museo delle discariche, parole dei cartelloni pubblicitari quali sono Istagram, Twitter e Facebook et similia… come possiamo pensare di avere a che fare con gli «echi celesti»?

Il polittico, nel quale siamo impegnati tutti noi, chi più chi meno, è la frontiera più avanzata di una poesia difficile, sempre più problematica, ma il polittico presuppone una grandissima distanza tra il sé e l’ego, presuppone una Gelassenheit dalle cose e alle cose, un rivolgimento del piano del quotidiano. So che queste mie osservazioni ti sono familiari, anche la tua poesia è protesa verso quest’obiettivo, ma è difficile, oltremodo problematico avanzare lungo queste frontiera, occorrono lunghissimi sforzi, reiterati tentativi. Costruire un polittico non lo si può fare con il semplice ausilio di una tecnica versificatoria come quella che vediamo diffusa oggi tra tutti gli autori della tradizione epigonica, quello è mestiere, nient’altro.

La mia e la nostra poesia si nutre della spazzatura, dei rifiuti urbani, del ciarpame. Ed è un ottimo menù, perché questo è il mondo di oggi, non spetta al poeta abbellirlo, semmai spetta al poeta mostrarlo per quello che è.

 

Livio Cinardi

Sulla situazione emotiva quale struttura dell’esserci

L’esserci è già sempre, afferma Heidegger, situato. Manifestazione del suo “ci” è l’essere-nel-mondo, l’essere situato in esso il donde e il verso dove sono petizioni non concernenti l’ontologia fondamentale. Come fenomeno, vive il proprio esser-situato come gettatezza, e proprio perché è vita e non teoria, ne fa esperienza, l’esserci ne va del proprio essere. Come fa esperienza del proprio “ci”, della propria gettatezza l’esserci è già sempre situato, emotivamente. L’esserci è situazione emotiva, sentirsi situato emotivamente. La Befindlichkeit  è il come, il modo in cui l’esserci si trova aperto nei confronti del puro e semplice fatto di esistere: rispetto al nudo «che esso è»1. Non più solo semplice-presenza, persa nel mondo: l’esserci si scopre, svelato, come semplice-esistenza. L’esserci è ex-sistenza, è essere-oltre ciò che il quotidiano sguardo dell’esserci, errabondo, ha del proprio essere. In quanto ex-sistenza, è pro-getto: esistenza progettante.

La situazione emotiva è struttura dell’esserci, il quale, in quanto situato, gettato, rimesso, è emotivamente intonato. Ogni situazione emotiva, ogni essere-situato dell’esserci è già fenomeno. Nella fenomenologia ontologica, o ontologia fenomenologica heideggeriana (ovvero, fondamentale: fondamento è il fenomeno, la cosa stessa), manifestazione del fenomeno dell’esserci in quanto essere-emotivamente-situato è la tonalità emotiva, ovvero, “lo stato d’animo”. Precisa il filosofo: vi sono tonalità emotive sorgive dall’autenticità dell’esserci, e tonalità emotive sorgive dall’inautenticità dell’esserci. L’esserci percepisce l’autenticità o l’inautenticità dell’essere del proprio esserci già sempre secondo le tonalità emotive che vive: la vita, l’esserci, è già sempre tonalità emotiva. A tal guisa, Heidegger riporta due exempla, dai quali appunto comprendere cosa egli intende per tonalità emotive: la paura e l’angoscia. Molta è la confusione intorno a tali stati d’animo, ragionevole data l’ambiguità caratteristica di entrambi. L’indagine attorno alle tonalità emotive dell’esserci costituirà il corpo centrale del presente elaborato.
Avanzeremo così nella “notte” dell’esserci: non più perso nel mondo ma preso, assalito dall’angoscia, proprio dentro il più familiare dei mondi circostanti, l’esserci non si trova più a casa, neanche nell’ambiente più vicino e fidato. Allora, si scoprirà come possibilità: scoprirà il proprio essere, l’autenticità del proprio essere, come possibilità. Una possibilità massima solo apparentemente contradditoria: l’essere-per-la-morte dis-vela all’esserci il proprio essere, come ni-ente, come non-ente. Per l’appunto, oltre l’ente, ovvero ex-sistenza. In una parola: leben.

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

Ciò che nella domanda è in domanda è l’essere che avverto, ex-per-isco come Stimmung, come tonalità emotiva, come stato d’animo, come vibrazione. Io sono toccato da ciò che cerco, ovvero gettato nel cercare. Per questo lo cerco. La gettatezza è allo stesso tempo pro-getto. È una co-struttura. L’esserci è quell’ente che in quanto è gettato nel mondo, gettato in ciò che è, si lascia toccare da questo getto (che è dell’essere dell’esserci) e in questo getto che lo tocca e lo riguarda, progetta se stesso. Questo pro-gettare se stesso,questo gettare-innanzi se stesso, è trascendenza, è esistenza. Essere già sempre oltre. Non in senso religioso: non è verso dove, ma è oltre, in senso ontologico, costitutivo: fenomenologico. L’esserci ontologicamente non è già, lo ripetiamo, de-finito (non ha una essenza che lo determini). l’esserci è in quanto poter-essere, in quanto possibilità.

Un esempio: l’esserci, gettato nella domanda sul senso dell’essere dell’esserci, progetta se stesso, articolando la domanda. Per tale ragione, la domanda filosofica è un movimento che modifica, determina, l’essere dell’esserci, quest’ultimo è, pertanto, sempre comprensione. L’esserci è sempre in gioco: sempre ne va del proprio essere, costantemente. L’esserci è il suo – ci, è il mondo che è.
L’esserci non è un soggetto, non una coscienza atta a conoscere teoreticamente oggetti, res. La realtà dell’esserci è progetto situato, situazione emotiva comprendente, ovvero comprensione sempre emotivamente situata. Non c’è quindi solamente questo elemento del trovarsi, dell’essere gettato di volta in volta in una particolare situazione, a caratterizzare l’esserci in quanto aperto alla fatticità del proprio esistere.

L’esserci non solamente percepisce una tale situazione, ma anche avverte un tale suo percepire. Ciò è dovuta al fatto che vi è una particolare riflessività nello stesso sentire, tale che esso risulta al tempo stesso un sentire di sentire, il quale tuttavia nulla ha a che vedere con un’autocoscienza di tipo teorico.
Ecco perché l’ambito degli stati d’animo, delle emozioni, delle passioni, degli umori, può essere una delle modalità in cui il mondo è aperto all’esserci. Lungi dall’essere ricacciate nella sfera dell’irrazionale o dell’inconscio, le passioni, in quanto modalità del sentirsi-situato,riacquistano una dignità filosofica, venuta meno dopo Aristotele.
[…]
Così Annalisa Caputo modifica il testo del “primo” Heidegger, I concetti fondamentali della metafisica.

Una tonalità emotiva c’è già da sempre. È una sorte di atmosfera nella quale ci immergiamo e dalla quale veniamo poi pervasi ed intonati (durchstimmt). […] Non è un ente, ma il come fondamentale del nostro essere […] e – ciò implica immediatamente anche – del nostro essere con gli altri. […] maniera d’essere nel senso della melodia: non qualcosa che fluttua al di sopra di un presunto sussistere autentico dell’uomo, ma ciò che gli dà il tono, cioè accorda, dispone e determina (stimmt und bestimmt) il modo del suo essere.

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

 

Le tonalità emotive non nascono dal nulla. Sono un mutamento della nostra accordatura con il mondo. E questa intonazione non è né il soggetto né l’oggetto a causarla, ma c’è già e sempre. È impossibile non essere affettivamente intonati per il fatto stesso di essere uomini, esserci.
[…]
Nell’angoscia, noi diciamo, uno è spaesato, ma dinanzi a che cosa c’è lo spaesamento. E cosa vuol dire quel “uno”, non possiamo dire dinanzi a che cosa uno è spaesato. Perché lo è nell’insieme. Non c’è una cosa che mi angoscia. Tutte le cose e noi stessi, nell’angoscia, sprofondiamo in una sorta di indifferenza (Gleichgültigkeit, ovvero “tutto vale allo stesso modo”. L’ente non ci parla più, non ha più niente da dire). Questo, tuttavia, non nel senso chele cose si dileguino, ma nel senso che proprio nel loro allontanarsi, le cose si rivolgono a noi. È questo allontanarsi dell’ente nella sua totalità che nell’angoscia ci accerchia, ci angustia, non rimane a noi nessun sostegno.25

L’angoscia per la morte non è, dunque, la paura davanti alla morte. Nella paura l’esserci è preso dal tentativo di sfuggire alla morte [deiezione], mentre nell’angoscia davanti alla morte si è all’interno di una strana calma,consapevolezza, la possibilità dell’impossibilità dell’esistenza, dell’esserci in quanto esistenza, in quanto io temporalmente strutturato.

Semplicemente, nell’angoscia per la morte, le cose cessano di imporsi su di noi. Cessa la forza impositiva e deiettiva della pubblicità del mondo.

Nell’angoscia per la morte è come se essa si allontanasse da noi. Quando questo avviene noi guardiamo la nostra vita quotidiana come dall’esterno, in una situazione, appunto, di spaesamento.24

V.COSTA, Heidegger, 66
25 M. HEIDEGGER, Che cos’è metafisica?, 50

In questo sprofondare di tutte le possibilità emerge però la temporalità dell’esserci come temporalità finita, e il futuro finito diventa costitutivo del nostro Esserci in quanto totalità. Il pensiero della morte in quanto possibilità suprema, il cui realizzarsi annullerà tutte le altre possibilità esistenziali, fa emergere, infatti, la possibilità di una decisione autentica attraverso cui l’esserci può ri-petere la domanda sul senso dell’essere del proprio esserci, ovvero ri-appropriarsi della propria esistenza. In rapporto alla morte il mio essere un fondamento inconsistente o nullo (nichtig) è di fronte a me e io sono richiamato a identificarmi con le mie possibilità, a decidermi per esse. E questa autocoscienza è anche il presupposto dell’etica, poiché solo avendo scelto se stesso, cioè chi vuole essere, quale è il suo progetto, l’Esserci può essere responsabile. Infatti, solo un essere che si rapporta alla sua morte è sollecitato a definire chi vuole essere. L’angoscia danti alla morte sorge, pertanto, quando la totalità stessa del nostro mondo, nella deiezione così rassicurante, ci colpisce con il carattere dell’insignificanza, quando emerge che le fondamenta del nostro essere non le abbiamo poste noi. Facendo apparire il mondo come un tutto limitato, allontanandolo da noi, «l’angoscia apre l’Esserci come esser- possibile , e precisamente come tale che solo a partire da se stesso può essere ciò che è: cioè come isolato e nell’isolamento»26.

Allontanandomi dal mio mondo, facendomelo sentire improvvisamente “estraneo”, l’angoscia mi fa comprendere che sono libero, che davanti a me stanno, seppure all’interno di uno spazio di manovra circoscritto e finito, possibilità d’esistenza, «l’angoscia rivela nell’Esserci l’esser-per il più proprio poter-
essere, cioè l’esser-libero-per la libertà di scegliere e possedere se stesso»27. Nell’angoscia sono ricondotto a me stesso perché mi si manifesta la mia esistenza nella sua totalità, la mia esistenza come totalità temporale, temporalmente strutturata, e sono invitato a scegliere di essere quello che sono, a pormi come soggetto responsabile delle mie azioni.28

«Infatti l’angoscia ci isola e ci rende insostituibili, facendo emergere proprio quello che il Si aveva nascosto sotto la struttura del “si fa così”»29. Pertanto:

Questo isolamento va a riprendere l’Esserci dalla sua deiezione e gli rivela l’autenticità e l’inautenticità come possibilità fondamentali del suo essere. σell’angoscia le possibilità fondamentali dell’Esserci, che è sempre mio.

Essere pienamente mortali. Vivere fino in fondo la propria finitezza. Come è possibile questo? Roccia, albero, cavallo, finiscono, ma non vivono la propria morte. Solo l’uomo muoreμ perché solo lui è capace di vivere nel precorrimento, nell’avvertimento, nell’anticipazione che tutto ciò che è, da un momento all’altro, potrebbe anche non essere.

Avviene un ribaltamento:«vanno rivisti i concetti di tutto, di compiutezza, di essere, di temporalità. La morte diventa essere-per-la-morte; la perfezione autenticità, l’essere tensione; la temporalità attimo».

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

 

Sein zum Tode,

essere verso la morte,essere tale da tendere alla morte: è il tentativo di vivere la propria “colpevolezza” (nullità) nel modo più pieno e meno sfuggente possibile. È il riuscire ad av-vertire il tempo non come uno scorrere indifferenziato di istanti, da riempire come capita, ma come il kairòs della mia esistenza.
Essere verso la morte: essere pienamente, consapevolmente, in maniera intensa e grata, mortali. Così la mortalità può essere vissuta e non subita. Trasformando gli istanti della dispersione in temporalità autenticamente umana. La temporalità autentica non è quella del passato-presente-futuro,

ma quella dell’av-venire, presentare, esser-stato. Essere mortali significa vivere il tempo innanzitutto nell’av-venire (Zu-kunft). Non il mero aspettarsi qualcosa di futuro, ma è mantenere aperte di volta in volta lepossibilità che mi pervengono, certamente non infinite, ma pur sempre “qualcosa”, che posso anche perdere (o possono farmi perdere), ma che posso anche tentare di compiere (e di vivere autenticamente). Avvenire significa allo stesso tempo raccogliere ciò-che-è-stato (Ge-wesen). Non il mero passato (un accaduto di fatti), ma ancora un tenere insieme tutti i poter-essere diventati realtà, sempre vivi dentro di me: sono la mia storia.

Ge-wesen come raccolta (Ge-) dell’essenza (Wesen) che mi ha caratterizzato fin qui: storia che posso portare avanti sulla stessa scia o

CONCLUSIONE

posso ricominciare da campo, mai de-finita, sempre da ri-petere , ri-compiere. Un continuo e tensivo ri-appropriarsi della propria mortalità,
della propria temporalità. E, infine, l’avvenire, confrontato continuamente con ciò-che-è-stato, significa vivere il presente come un continuo presentare (Gegenwärtigen): lasciar venir incontro ciò che si presenta nel mondo; accogliere ciò che ancora non è e ripensare ciò che già è in base alla situazione emotiva (intesa come Stimmung: mai scissa dalla fatticità dell’esserci) in cui mi trovo ad essere. Questo fenomeno unitario dell’avvenire che contemporaneamente è stato e che presenta è la temporalità (Zeitlichkeit), ovvero, l’essere dell’esserci e costituisce il senso della cura autentica. Questa è la svolta (kehre) ontologica heideggeriana. Le modalità della temporalità (a; dietro; presso) sono le estasi temporali, gli slanci nei quali l’uomo, in quanto ek-sistente travolto dal divenire, si ritrova allo stesso tempo in sé e fuori di sé. Si ritrova inautenticamente come passato-presente-futuro (la temporalità è colta come susseguirsi di istanti); si ritrova invece autenticamente come anticipazione, ripetizione e attimo (la Zeitlichkeit è colta come kairòs).

Essere verso la morte significa non rendere l’avvenire un mero aspettare indaffarati lo svolgersi del domani, ma pre-correre (Vorlaufen) le situazioni e i loro sviluppi, e lasciar pervenire solo quei modi d’essere che portano all’autentico prendersi cura ed avere cura. Non dimentico ciò che ho fatto, come se non fosse mai stato mio, ma riprendo (ripeto, Wieder-holung) ciò che corrisponde al mio poter essere più vero, lasciando cadere ciò che si è rivelato improprio, aprendomi a ciò che può portare più in là la mia tensione esistenziale. Inoltre, non riduco tutto assolutamente al presente – non soffermandomi su niente veramente e aggrovigliandomi sui miei istinti e bisogni momentanei. Ma soffermo lo sguardo degli occhi (attimo, Augen-blick) in quegli angoli di realtà, volti, che davvero costituiscono il motivo per cui mi alzo la mattina.

«[…] Ed era-passando-la-notte nell’orazione di Dio».30 Passare la notte, vivere l’angoscia attraversandola, non come un cataclisma, una punizione, sebbene un peso, libera l’uomo dall’omologante sguardo del Si e lo pone di fronte a se stesso. In questo porsi davanti a se stesso, in questo situarsi autentico, l’uomo diventa capace di aprirsi (Erschlossenheit) al mondo: di disvelarsi (a-letheia) nel suo autentico essere, di dischiudersi, e quindi di de-liberare, a sua volta già liberato, di de-cidere, di tagliare una chiusura (Entschlossenheit) per liberare, sciogliere, uscire all’aperto.

1 A. CAPUTO, Pensiero ed Affettività, 269
26 M. HEIDEGGER, Essere e Tempo, 229
27 Ibidem, 229
28 A. FABRIS, Essere e Tempo, 122
29 V. COSTA, Heidegger, 68
30 LUCA, Vangelo, cap. 6,12

Giorgio Linguaglossa

Non è un caso che nelle posizioni più intelligenti della nuova ontologia estetica l’attenzione dei poeti si rivolga al Nulla inteso quale possibilità sempre aperta che si da all’esserci, non semplice modalità esistentiva quanto come analitica esistenziale e fenomenologica con cui si dà l’esserci, tra apertura (Erschlossenheit) al mondo e chiusura (Entschlossenheit).

Il problema del Nulla e del Niente, viene analizzato da Heidegger a partire dalla considerazione della problematica fatta nella prolusione Che cos’è metafisica?. In questo breve scritto Heidegger attribuisce al Niente una posizione positiva, non lo considera come un “vuoto d’essere”, una “assenza”. Al contrario, esso si dimostra essere la condizione del darsi degli enti. Dinanzi al Niente, l’Esserci è rimandato all’ente. La manifestazione del Niente toglie quindi l’Esserci dallo stato tranquillizzante della deiezione quotidiana nell’ente intramondano, e gli dà la possibilità di comprendersi come “fondamento infondato”. La “decisione anticipatrice” viene interpretata come “non abbandonare il Niente”, che si mostra nell’esperienza dell’ente, come sua condizione di possibilità, apertura progettante nell’orizzonte degli enti intramondani.