Che cos’è l’essere e che cos’è il linguaggio?
E qual è il legame che unisce l’essere al linguaggio?
La Risposta di Giorgio Linguaglossa
Alla Domanda: Che cosa intendiamo per «nuova ontologia estetica»?
21 marzo 2018 alle 12:35
Donatella Bisutti mi ha posto una Domanda: Che cosa intendiamo per «nuova ontologia estetica»?
Questa è la mia risposta: nella rivista ci saranno almeno due centinaia di post sull’argomento, provo a rispondere brevemente e nei limiti del possibile e dello spazio contingentato. A mio avviso le domande fondamentali sono:
Che cos’è l’essere e che cos’è il linguaggio?
E qual è il legame che unisce l’essere al linguaggio?
Tutte le altre domande sono questioni secondarie, di contorno, e possiamo metterle da parte.
Perché la «nuova ontologia estetica»? Perché ogni nuova poesia è tale se riformula le categorie estetiche pregresse all’interno di una nuova visione.
Parlare di «ontologia estetica» è pensare il nuovo ruolo delle parole e del metro. All’interno del linguaggio poetico le parole si danno sempre nel quadro di un metro, ma è vero anche che ogni nuova poesia rinnova il modo di concettualizzare la «parola» all’interno del «metro».
Il «metro» è una unità di misura di grandezza variabile, dobbiamo uscire fuori da un concetto di «metro» quale unità di misura fissa, statica ed entrare in sintonia con un pensiero che pensa il «metro» come una entità variabile, dinamica, mutagena che varia con il variare delle grandezze (anch’esse variabili) che intervengono al suo «interno».
La «parola» quindi è una entità per sua essenza mutagena che può essere rappresentata come una entità corpuscolare o ondulatoria a frequenza variabile. Per semplificare: non v’è un peso specifico costante di una «parola» ma vi sono tanti pesi della «parola» quanti sono i modi del suo manifestarsi all’interno di un «metro». Il «metro» sarebbe quindi una sorta di «onda pilota», o «onda di Bohm», come si dice nella fisica delle particelle subatomiche, un’onda che convoglia al suo interno le particelle che vagano nell’universo.
Vi possono essere modi molto diversi di intendere questa «onda pilota», in questo concetto ci sta il «tonosimbolismo» della poesia di Roberto Bertoldo, una poesia intersemica e fonosimbolica, ci può stare anche la poesia di Donatella Giancaspero, ci può stare il discorso poetico citazionista di un Mario M. Gabriele, il discorso poetico «caleidoscopico» e «disfanico» di Steven Grieco Rathgeb e il nostro frammentismo post-metafisico; ci può stare la ricerca iconica e simbolica di Letizia Leone di Viola norimberga (2018), le sestine di Giuseppe Talia del libro La Musa Last Minute (Progetto Cultura, 2018), una sorta di elenco telefonico di poesie fatte al telefono, poesie discrasiche più che disfaniche; ci può stare il frammentismo peristaltico dei poeti nuovi come Francesca Dono con il libro Fondamenta per lo specchio (Progetto Cultura, 2017); ci sta la poesia di Anna Ventura fin dal suo primo libro, Brillanti di bottiglia (1978), fino a quest’ultimo, Streghe (2018), Marina Petrillo con materia redenta (2019), Carlo Livia con La prigione celeste (2019), e Mario Gabriele con la quadrilogia: Ritratto di Signora (2015), L’erba di Stonehenge (2016), In viaggio con Godot (2017) e Registro di bordo in corso di stampa. Ciascun poeta porta a questo salvadanaio una piccola monetina, un piccolo mattone. È la consapevolezza del nuovo paradigma della poesia italiana, un modo diverso di fare poesia che albeggia, un modo inaugurato in ambito europeo da Tomas Tranströmer nel 1954 con il suo libro di esordio 17 poesie.
Con questo nuovo paradigma cambia radicalmente la forza gravitazionale della sintassi, il modo di porre l’una di seguito all’altra le «parole», le quali obbediranno ad un diverso metronomo, non più quello fonetico e sonoro dell’endecasillabo che abbiamo conosciuto nella tradizione metrica italiana, ma ad un metronomo sostanzialmente ametrico. Non c’è più un metronomo perché non c’è più una unità metrica. Di qui la importanza degli elementi non fonetici della lingua (i punti, le virgole, i punti esclamativi e interrogativi, gli spazi, le interlinee etc.) ma che influiscono in maniera determinante a modellizzare la «parola» all’interno del nuovo «metro» ametrico. Di qui l’importanza di una sintassi franta. Ecco spiegato il valore fondamentale che svolge il punto in questo nuovo tipo di poesia, spesso in sostituzione della virgola o dei due punti. All’interno di questo nuovo modo di modellizzare le parole all’interno della struttura compositiva del polittico si situa l’importanza fondamentale che rivestono le «immagini»; infatti le parole preferiscono abitare una immagine che non una proposizione articolata, perché nella immagine è immediatamente evidente la funzione simbolica del linguaggio poetico.
Ed ecco la parola chiave: il verbo «abitare». Le parole abitano un luogo che è fatto di spazio-tempo e di memoria, di una «patria originaria linguistica». Le parole abitano la temporalità, la Memoria. Le parole sono entità temporali.
Cito Adorno, Teoria estetica, trad. it. Einaudi, 1970:
«Quando la spinta creativa non trova pronto niente di sicuro né in forma né in contenuti, gli artisti produttivi vengono obiettivamente spinti all’esperimento. Intanto il concetto di questo… è interiormente mutato. All’origine esso significava unicamente che la volontà conscia di se stessa fa la prova di procedimenti ignoti o non sanzionati. C’era alla base la credenza latentemente tradizionalistica che poi si sarebbe visto se i risultati avrebbero retto al confronto con i codici stabiliti e se si sarebbero legittimati. Questa concrezione dell’esperimento artistico è divenuta tanto ovvia quanto problematica per la sua fiducia nella continuità. Il gesto sperimentale (…) indica cioè che il soggetto artistico pratica metodi di cui non può prevedere il risultato oggettivo. anche questa svolta non è completamente nuova. Il concetto di costruzione, che è fra gli elementi basilari dell’arte moderna, ha sempre implicato il primato dei procedimenti costruttivi sull’immaginario».
Quello che oggi non si vuole vedere è che nella poesia italiana degli anni sessanta-settanta si è verificato un «sisma» del diciottesimo grado della scala Mercalli: l’invasione della società di massa, la rivoluzione mediatica e la rivoluzione delle emittenti mediatiche…
Davanti a questa rivoluzione che si è svolta in tre stadi temporali e nella quale siamo oggi immersi fino al collo, la poesia italiana si è rifugiata in discorsi poetici di nicchia, ha scelto di non prendere atto del terribile «sisma» che ha investito la poesia italiana, ha scelto di fare finta che esso «scisma» non sia avvenuto, che tutto era come prima, che la poesia non era cambiata, che si poteva continuare a perorare e a fare poesia di nicchia e di super nicchia, poesia autoreferenziale, poesia della cronaca, del corpo, del quotidiano e chat-poetry.
Lo vorrei dire con estrema chiarezza: tutto ciò non è affatto poesia ma «ciarla», «chiacchiera», battuta di spirito nel migliore dei casi. Qualcuno mi ha chiesto, in modo naif, «Che cosa fare per uscire da questa situazione?». Ho risposto: Occorre un «Grande Progetto».
A chi mi ha chiesto di che cosa si tratta, dico che il «Grande Progetto» non è una cosa che può essere convocata in una formuletta valida per tutti i luoghi e per tutti i tempi, non c’è una valigetta 24 ore che custodisce il «Grande Progetto». Per chi sappia leggere, esso c’è già in nuce nel mio articolo sulla «Grande Crisi della Poesia Italiana del Novecento» che si trova su questa rivista e in altre dozzine di pagine qui rinvenibili.
Il problema della crisi dei linguaggi post-montaliani del tardo Novecento non l’ho inventato io, ma è qui, sotto i nostri occhi, chi non è in grado di vederlo probabilmente non lo vedrà mai, non ci sono occhiali di rinforzo per questo tipo di miopia. Il problema è quindi vasto, storico e ontologico, si diceva una volta di «ontologia estetica», ma io direi di ontologia tout court. Dobbiamo andare avanti. Ma non sono pessimista, ci sono in Italia degli elementi che mi fanno ben sperare, dei poeti che si muovono nel solco post-novecentesco in questa direzione.
Leggiamo un brano della «poesia polittico» di Gino Rago:
I vincitori e i vinti di Troia
Sono a New York con le loro donne.
Ecuba in cucina prepara marmellate,
Cassandra legge i giornali ogni mattina,
Priamo gioca in borsa.
Paride con i dreadlock
Porta il cane al Central Park.
Presso i Greci si diffonde l’Aids,
Un guerriero travestito da Clitemnestra
sgozza il Re nella vasca da bagno.
Ettore lo incontro sui 10 chilometri della Fifth Avenue
Mentre Andromaca fa acquisti da mille e una notte.
Astianatte gioca col pc. E’ sempre solo a casa.
I miti sono l’inganno d’Occidente,
“Fat Man” su Nagasaki ha cambiato il mondo…
Ma per Lei forse i miti sono l’aria.
Chi vivrebbe senz’aria…”
[…]
Lars Gustafsson: «Caro John Taylor,
Come è finita la guerra di Troia…
Nessuno lo sa. Quella guerra non è mai cominciata.
Presto ti spedirò a New York
I diari di un giudice fallimentare del Texas
E la storia di un cane.
È evidentissimo che qui siamo di fronte ad un nuovo concetto di poesia. Il «polittico» non è un espediente tecnico, ma si tratta di un nuovo concetto di forma-poesia; è un gomitolo, una galassia, una entità prospettica, una entità multidimensionale, multi temporale, multi spaziale. Il «polittico» è il prodotto della ontologia positiva. Ci troviamo di fronte ad una vera e propria rivoluzione copernicana. È chiarissimo che per l’ermeneutica di questa forma-poesia occorrano nuove categorie concettuali.
Mario M. Gabriele
inedito da Registro di bordo di prossima pubblicazione con Progetto Cultura
Ci fu chi prese il largo, chi rimase nelle baite
dopo il grande crush.
Bisognerebbe dirlo a Kurtz
di stare lontano dai parapendii.
Fu un enigma la scomparsa di Henry
nel tour nello Shilanga.
Merryl si fermò alla Québec libre
per Gli affari del Signor Giulio Cesare.
Mandami tue notizie. Ho sempre qualcosa da dirti.
Gli Avi cercali nel Connecticut.
A volte si può chiudere un libro
restandoci dentro come un fiordaliso.
Il disclemer si era eclissato
dopo le fake news sul Web.
Ho detto a Kamus di rallentare il tempo
tenendo a bada i cipressi e le radici.
Cuore in spazi chiusi. Aritmia da tamburi.
Al supermarket sono tornati i volontari con gli shoppers.
(…)
Confini ristretti, corpo mutevole
nel tempo e nelle stagioni.
Auguri, Mary, per la cover su Vanity Fair
e il pellicciotto da luna di miele.
All’indietro fumo ed eclissi.
Luce che torna e se ne va.
-I think I love you-, mi ripeti ad ogni compleanno,
rimettendo in circolo leucociti e staminali.
Turisti cercavano Madre Coraggio
passato il check point Charlie.
A Villa Flora si è candidato Gustav Fridmann
come venditore di chimica organica.
Il disegno, a tinta unita, di Juliet
ricorda l’orizzonte del mattino.
Ho sentito California 2.
L’etichetta del CD mi è sembrata normale.
Non incollo più nulla col Vinavil,
neppure i ricordi.
Marx rivuole Engels
e la Gazzetta renana.
Hai fermato di nuovo i capelli
con la lacca Rofra spezial.
Ora posso attaccare i pensieri
rifacendo le treccine.
E’ tutto slow, a tempo determinato,
anche le gazze ladre di Ken Follett.
Retro di Copertina di Registro di bordo di Mario M. Gabriele
Tu scrivi, caro Mario, che il tuo libro tratta di «fonemi, reperti fossili e poliscritture», ed hai già dato la chiave per l’ermeneutica della tua poesia. La tua è poesia-pop: pop-spot, pop-bitcoin, pop-jazz, pop-corn, pop-poesia, poesia da tavolino da bar, poesia da bar dello spot, nuovissima, da gustare con un Campari soda e una quisquilia del TG in mezzo ai rumori di fondo: intermezzi, nanalismi, banalismi, gargarismi, truismi, incipit, explicit, inserti pubblicitari. Sei il Warhol della pop-poesia italiana. Il che non è poco. La pop-poesia che si gusta con le patatine fritte del Mc Donald’s e un caffè al Ginseng la mattina, e la sera, prima di andare a dormire con una bustina di Maalox plus. Registro di bordo è un viaggio, anzi, un viaggio-sosta nella indeterminazione delle parole; quelle parole raffreddate, ibernate, insaponate con cui l’uomo di oggi è costretto a coabitare, e con le quali ci si trova a suo agio, coinquilino forzato del banale. È il nuovo viaggio di Ulisse tra le parole precotte, didascaliche, tra le parole della discarica, parole della fatticità alle quali non può richiedersi alcuna ermeneutica che non sia della mera fatticità: specchi per le allodole, specchi di specchi, frammenti di specchi andati in frantumi, frantumi di frantumi. Poesia ipoveritativa, sub-minimal, poesia-trash, poesia-spam, poesia-crac.
Dinanzi ad un libro del genere ci sarebbe da allarmarsi, se non fossimo già allarmati da par nostro, tutti già soggiogati dal sortilegio del banale. Un libro beneaugurante perché tocca il fondo delle cose, e così conduce la banalità al suo epilogo. Una poesia epilogo, riepilogativa del nulla nel quale siamo immersi.
(Giorgio Linguaglossa)