La Presentazione e la Rappresentazione nella poesia della nuova ontologia estetica, Poesie e Commenti di Mario M. Gabriele, Francesco Paolo Intini, Marie Laure Colasson, Paul Muldoon, Paola Renzetti, Tiziana Antonilli, Lucio Mayoor Tosi, Adriano Ardovino, Kikuo Takano, Giorgio Linguaglossa

 

Giorgio Linguaglossa

Mario Gabriele

inedito da Registro di bordo in corso di stampa per Progetto Cultura di Roma

5

 

Il tempo riannodò i fili della memoria.

Uscimmo per andare ai magazzini Spandau.

 

Negli scaffali trovammo mostrine delle Schutzstaffel

e l’ultima edizione del Die Tageszeitung.

 

Un giovane livoriano lasciò i Tamburi nella notte.

Non fu facile tornare a casa.

 

Il triciclo portava fiori a Shiva

per una grazia a Geltrude Bisleri.

 

oh mammy, ora puoi salire sul Machu Picchu

e parlare con le colombe.

 

La ragazza sul treno adescava il Quinto Evangelio.

Al Savoia tornarono i ballerini di Grease.

 

Si sta in attesa di Hamm e Clov.

Beltrand si agita. Chiama un rom.

 

Gli dice di tenere tranquilla la notte.

Un puma fuggì dalla gabbia.

 

- Questa volta non lo prenderemo. Ci sono alberi e querce,

lupi e trappole nel bosco -, dissero i guardiani.

 

La linea della vita

è rimasta nella mano come una cicatrice.

 

Cara Dolin, ricordarti è stato sfogliare un album

con il rottweiler a guardia dei tuoi piercing.

 

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

 

Francesco Paolo Intini

Il gancio di Kikuo Takano

nella libera traduzione di Renato Minore.

Dentro di me si muove
un gancio di ferro
chissà da quando chissà perché
lasciato chissà da chi
appeso così è un gancio proprio pauroso.
e speravo davvero che con la ruggine
mai dovessi provarlo (…)

Io ci aggiungerei una certa difficoltà di fronte all’Impersonale. Con chi prendersela se qualcosa non funziona? La macchina della razionalità affonda i denti nell’individuo in carne e ossa per dialogare con un Io creato dalla macchina stessa e dunque con meccanismi di natura numerica. L’io reale, il gufo che attende il suo turno nell’ufficio postale, lamentando e spazientendo accusa la sua impotenza come un colpo mortale, come si trattasse di aver visto l’efficienza dei campi di sterminio o la potenza dell’atomo nientificare Hiroshima. Un sentimento strano che non si lascia imbrigliare dalla metrica, né dai ritmi o dalle assonanze con cui si fa ancora poesia, semplicemente perché chiede di non piacere ma di annullarsi nel poeta stesso. E dunque l’unico rapporto tra l’Io ed il Mondo si fonda sulla negazione reciproca. Occorrono dei buoni elettroni per fondare un legame, altrimenti dominano quelli cattivi che spingono in basso lo sguardo o contro un cellulare l’orecchio per trascendere il filo che si percorre, secondo R. Minore.

ALGORITMO: L’IO.

Touch-screen e Dio in alto.
L’Everest affacciato alla scrivania.

Inutile rimpiangere la genealogia dell’india.
Ossido di carbonio sorpreso a respirare.

Il Nepal di via Einaudi si collega con la Cina.
Ma bisogna acquisire pratica di sentieri.

Salto di crepaccio
quanto nella lingua.

Parità con la pazienza del proletariato:
In fondo a un libro, incatenato nel Tartaro.

Il numero non era giusto
bisognava ricomporlo.

Avrebbe risposto un impiegato delle poste
Alzando lo sguardo dalla pece dello schermo.

E poi con gli uncini nello stomaco
come si fa a digerire Marx-Engels?

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa

Concetto presentativo dell’arte di contro al concetto corrente di rappresentazione

Pensare l’essere direttamente, in termini assoluti – al modo di Hegel – è un modo analogo di pensare il nulla. Per il nostro concetto rappresentazionale, l’essere può essere pensato come un termine della differenza ontologica, può essere cioè distinto (unterschieden) e indirettamente identificato, con l’altro termine della stessa distinzione (Unterschiedenheit). Ma questa distinzione, in quanto differenza si manifesta nello scarto discorsivo in cui viene registrata la sua aporeticità. La conclusione di questo pensiero di Heidegger è nell’indicare l’essere come il ‘non’ dell’ente, come il ‘niente’ dell’ente. È questa la ragione che ha spinto  Heidegger, nella conferenza sul Principio d’identità, ad ammettere che il nostro linguaggio non possa  procedere in altro modo che nell’ambito del discorso, distinguendo i diversi snodi della articolazione logica, per formulare la tesi aporetica che «molto prima che si pervenga ad un principio (Satz) di identità, parla l’identità stessa».

Un’arte che appartiene tutta intera al pensiero rappresentativo è quella che si è praticata a lungo nel corso del novecento e in questi decenni ultimi. Quello che Marie Laure Colasson dice, che la nuova poesia è attenta ad un concetto di presentazione piuttosto che a quello tradizionale di rappresentazione, lo trovo altamente proficuo di sviluppi.

Leggiamo una poesia di Paul Muldoon 

(premio Pulitzer nordirlandese) pubblicata da “tuttolibri” de “La Stampa” del 22 giugno 2019:

Rovescio

Tamburellare di pioggia
sul tettuccio della mia auto
come acquasanta
sul coperchio di una bara,
acquasanta e fango
che s’abbatte come un tonfo
benché mentre ne ascoltavo
il frastuono
quello s’affievolì nel silenzio
più spietato… L’ammucchiarono
per tutto il giorno
fin quando non m’abbandonai
a una contentezza
non avvertita da anni,
non da quell’inverno
in cui avevo indossato il mondo
sulla pelle nuda,
indossato la pelliccia verso l’interno

(trad di Luca Guerneri)

È ovvio che qui siamo davanti ad un tipo di poesia generata dal pensiero rappresentativo, si vuole rappresentare uno stato d’animo che scaturisce dalla esperienza della pioggia che cade «sul tettuccio della mia auto».
La seconda parte della composizione descrive la «contentezza» dell’io derivante da quella esperienza.

Si tratta di un modo di fare poesia che la nuova ontologia estetica ha abbandonato. Noi partiamo da un concetto presentativo della esperienza, e non più rappresentazionale. La presentazione degli eventi avviene sempre in modo diretto, non in modo indiretto come accade in questo tipo di poesia secondo cui la pioggia è importante per le ripercussioni psicologiche (la «contentezza») che può avere sull’io. La poesia che adotta il concetto presentativo dell’esperienza intende l’esperienza di un evento del mondo non solo per l’importanza che può avere sull’io ma perché l’evento è importante in sé e per sé, non soltanto per i riflessi psicologici che può avere su un «io» posizionato nel mondo che viene a coincidere con l’io dell’autore.

La NOE si limita a prendere atto che certi eventi (ad esempio, la pioggia) accadono e che sono importanti non perché suscitano la «contentezza» di un «io» (che è un modo riduttivo di fare esperienza degli eventi), ma perché sono importanti anche per tutti gli altri «io» che ci sono intorno, e sono importanti in sé e per sé, perché un evento è un evento per tutti. Ne deriva che la sintassi del modo presentazionale degli eventi muta di colpo, totalmente, muta la sintassi, che non sarà più narrazionale ma presentazionale.
Penso sia chiaro ai lettori che un tale approccio alla «narrazione» di un evento sia diametralmente lontano da quello rappresentativo vigente nella ontologia estetica del novecento che pensa l’arte in un modo che si limita a ripercorrere l’impiego delle categorie estetiche della tradizione senza innovarla, e senza neanche pensare di volerla innovare.

Per usare una formula di Giorgio Agamben che la impiega riguardo alla fotografia, penso che sia possibile utilizzarla anche per quanto riguarda la poesia della nuova ontologia estetica, la quale vuole «Dentrificare il Fuori» e, al contempo, direi: Fuorificare il Dentro.

Marie Laure Colasson

Fare una poesia significa trovare il collegamento filiforme nascosto che ci riporta al nostro modo di vita a alla vita che abbiamo vissuto. La ricerca del padre da parte di Renato Minore ne è la prova compulsiva e significativa. È una ricerca ossessiva. Noi possiamo scrivere poesia soltanto se comprendiamo che viviamo all’interno di un sortilegio, quel cerchio magico che è il nostro modo-di-vita. La nostra residenza è la forma-di-vita che condividiamo. A questa forma di vita corrisponde una determinata forma di poesia, e quella del poeta di adozione romana è la sola forma-poesia che oggi possiamo adottare: non più la forma-diario, non più la forma cronologica di elencazione, ma una forma topologica, un luogo che non è un luogo.

Il linguaggio che impiega Minore, a ben guardare, è un linguaggio rifritto, di seconda cottura. Tutta la poesia di oggi è di seconda cottura, ripassata in padella. Così come anche la pittura: i vari strati di pittura, gli strati di colore sovrapposti intendo sui quali il pittore stende la pittura, ehm, definitiva. Volevo dire: ultima, giacché di definitivo nell’arte di oggi non è rimasto un bel niente. La poesia di Renato Minore mi dà la sensazione di una scrittura un po’ improvvisata, come se fosse una scrittura ancora da ultimare. Ma è che non è più possibile pensare di scrivere una scrittura definitiva e definita, oggi non è più pensabile pensare di licenziare una scrittura poetica ultimata. Oggi è forse possibile soltanto una scrittura che porti con sé un quantum di improvvisazione, di oscillazione… Che poi è, mi sembra di capire, quella cosa che sta a cuore alla nuova ontologia estetica. La nuova poesia ha in sé il marchio di fabbrica della propria vulnerabilità e della tendenza alla disparizione oltre che all’ammutinamento. Non saprei come altro dire quello che volevo dire…

Tiziana Antonilli

Vorrei spezzare una lancia in favore del diventare estranei a se stessi. Si tratta di un ‘esercizio’ che, se messo in pratica con moderazione, può avere risvolti positivi. Diventare ogni tanto estranei a se stessi vuol dire spezzare la nostra coazione a ripetere, le nostre tendenze ormai fossilizzate e ritrovarsi vergini, freschi per un nuovo inizio. Se ogni tanto non moriamo a noi stessi non diamo luce agli altri noi stessi in attesa.

Paola Renzetti

Modo presentazionale degli eventi. Questo è il concetto, e questo vediamo accadere in poesie presentate come esempi di questo modo di procedere. che non hanno più l’aspirazione a definirsi tali. Un procedere verso l’annientamento. Se passa che l’unico rapporto tra l’Io e il mondo, avviene attraverso la reciproca negazione, che tipo di arte è possibile? Il superamento della mimesi nell’arte è un fatto assodato (abbiamo capito cos’è), mettiamoci anche quello dell’espressionismo, del lirismo, del simbolismo (tutto superato?!). Rimane la presenza degli eventi, il loro darsi a noi. A noi molteplici, franti, alienati e spaesati. Il poeta è quello che fotografa il nulla che gli sta intorno. Cosa emerge oltre al dolore, al delirio della paura? Lui stesso è un atomo (scisso-mai stato integro) di questo nulla. Che tipo di poesia è possibile? E soprattutto ci piace?

Lucio Mayoor Tosi

Si può dire dell’astrattismo nelle arti visive che esso sia, per molto semplificare, un linguaggio non condiviso. Colori, forme, luci, materiali e, quando c’è, anche del movimento, non sembrano appartenere al mondo.
Mi sono chiesto: ma un astrattista che voglia scrivere poesia astratta, come potrebbe fare? Le parole sono suoni che hanno significato, e il discorso regge se consequenziale e logico… che per un astrattista equivarrebbe a disegnare con realismo qualcosa che non si può vedere.
Bel dilemma! Finché mi sono reso conto che del discorso possiamo benissimo conservare l’impostazione, a patto che lo si svuoti nella sintassi. Per preservarne il suono. Così che ogni discorso sembri tale. Anche se tale non è. Del resto questo è ampiamente dimostrato da Tomas Tranströmer, il quale per allestire versi rinunciò a servirsi di ogni qualsivoglia forma di poetico. E ci riuscì.

Ho qui il testo di Tomas Tranströmer tratto da Poesia dal silenzio (Crocetti, 2011). 

Da “Epilogo”

“Alle 18 arriva il vento
irrompe con fragore nella via del villaggio
al buio, come una schiera a cavallo. Quanto
gioca e perde l’angoscia nera!” […]

Ho scelto dei versi quasi a caso, tra i molti. Non sembra assente la forma poetica ( quella intesa come “allestimento”, convenzione… sì). C’è invece il respiro dell’autenticità (per noi facile a dirsi – è premio Nobel), il senso dell’andata e ritorno da un’immersione nella solitudine del paesaggio (esterno-interno) che lo fa riemergere con uno sguardo più terso e “spoglio”, che però non è mai estraneo o indifferente (si potrebbe azzardare solidale-empatico)

Qui sotto, la situazione è diversa, come si può intuire. Si passa dalle immagini di una esperienza (motel sulla E3) alla camera-corsia di un ospedale (è ragionevole leggerlo come tale)

Nella stanza un tanfo già sentito
tra le collezioni asiatiche di un museo:

maschere tibetane e giapponesi contro una parete chiara.
Ora però non sono maschere, ma volti[…]

Qui c’è un dolore che non chiama sé dolore.

Benvenuto nelle gallerie autentiche!
Benvenuto nelle galere autentiche!
Le autentiche grate! […]

I nostri occhi sotto la benda stanno spalancati…

Poiché i margini alla fine si alzano
oltre le sponde e inondano il testo […]

Qui c’è un’altra specie di viaggio nel paesaggio, che riguarda stazioni-esperienze dolorose della vita – malattie – relazione con gli altri e con sé stessi.
Alla fine appare un uomo (chi sia è da leggersi e scoprire – lui, noi? – diverse possono essere le allusioni o interpretazioni), l’immagine di una montagna e di una chiocciola (l’uomo stesso è quella chiocciola – casa piccola “indistinta”, ma “vincente”, con “molte stanze” (le parole virgolettate sono le sue).
Chiocciola e montagna sembrano confluire l’una nell’altra.


“Egli cresce da essa ed essa da lui.
E’ la sua vita, è il suo labirinto.

C’è uno spegnersi della voce interna,una specie di raffreddamento, ma non è mai assente il sentimento, il legame con il mondo naturale, il desiderio di comunicare, la luce misteriosa di una sua speciale “costellazione”.
Luce è un termine abusato, ma efficacissimo. E’ quella che cerchiamo al mattino appena svegli, e di notte nell’oscurità.

Giorgio Linguaglossa

caro Lucio Mayoor Tosi,

mi fa piacere la tua citazione dei versi di Tranströmer, che convalidano la nostra direzione di ricerca, infatti il poeta svedese ha utilizzato per primo in Europa lo stile nominale e una pratica del discorso poetico che privilegia la presentazione diretta degli eventi. Tutta la nostra impresa denominata nuova ontologia estetica poggia sulle ricerche filosofiche dei pensatori post-heideggeriani, ricerche che ci forniscono una sponda filosofica indispensabile per costituzionalizzare la nostra direzione di ricerca. La regola aurea infatti è questa: il discorso diretto promana direttamente dagli oggetti ed è indipendente dalla presenza o meno del soggetto. Ed è ovvio che il discorso diretto privilegi la presentazione degli oggetti colti nella loro temporalità, nella loro propria attimità e non quella del soggetto. Il soggetto deve essere lasciato fuori-campo o fuori-cornice. Il soggetto [del novecento] è stato de-fondamentalizzato. È questa la chiave di volta della pratica artistica denominata nuova ontologia estetica.

Ecco cosa scrive Adriano Ardovino

nel saggio I sentieri della differenza. Per un’introduzione a Heidegger – A. Ardovino (cur.), Sentieri della differenza. Per un’introduzione a Heidegger, NEU, Roma, pp. 137-149 [ISBN: 978-88-95155-32-6] :

[…] i fenomeni durativo-acustici [si] sottraggono rispetto a quelli visivo-spaziali, all’oggettivazione. Di seguito, trovandosi ad oltrepassare il linguaggio formale in termini ipotecati da metafore, Heidegger parla di «un salto» oltre la rappresentatività, e lo raffigura come «distacco» (Sichabsetzen [da cui Ab-satz]) dal «fondamento» in direzione di un «Abgrund». Ed infine, chiedendosi verso dove ci si lasci andare con un salto spiccato da nessuna sponda, ritorna sull’equivoco temporale interno al suo pensiero di fondo e conclude: «ci lasciamo andare […] verso il luogo in cui ci è già concesso di stare (eingelassen sind): verso l’appartenenza (Gehören) all’essere», che, infatti, anch’esso appartiene a noi, solo a noi potendosi presentare (an-wesen) ed essendo,come noi, nell’evento della differenza «offerto-assegnato» (übereignet).

A tal punto non è dato registrare una scansione tra il senso, l’appello dell’identità, e il significato della formula che lo esprime, che il tempo della raccolta originaria è per Heidegger non un momento, bensì un luogo
prima dello spazio, un tempo – luogo precedente (Vorort), dove già sempre si è, da dove quindi mai veramente ci si è mossi e dove non si perverrà storicamente, visto che ci si circola internamente ed in modo costante.E non è forse un caso che, volendo rintracciare le origini della parola Ereignis, del nome che indica questo inafferrabile e perciò stesso innominabile evento dico appartenenza e di traspropriazione, Heidegger ripassi, proprio in questo testo, dal registro acustico a quello visivo, individuando nel verbo «er-äugnen», «adocchiare», il senso più autentico dell’evento. La cui intraducibile parola, inoltre, per sottrarla alle consuetudini linguistiche, va intesa come singulare tantum, liberandosi così,dalle sue latenti armonie, un senso di «subitaneità» che non risponde alla logica del numero e delle distinzioni, delle diversificanti articolazioni temporali.

Subito dopo però, per alludere all’eventualità del transito attimale ed epocale che conduce al «risanarsi» della «imposizione», cioè alla Verwindung del Ge-stell tecnico, Heidegger, che non distingue tra stagioni del pensiero ma solo accenna alla non storicizzabile differenza tra loro, allarga lo spettro di quello cosmico e spaziale al registro acustico-musicale, e parla del «Ge-stell come costellazione di essere e uomo», vale a dire un «preludio di ciò che Er-eignis significa (heißt)». La costellazione del Ge-stell, il nome non parafrasabile che condensa il destino della tecnica, è un preludio interno a quel più ampio gioco dell’eventualità,«fluttuante costruzione», «dotato di oscillazioni sue proprie», che è il linguaggio, in cui solo può essere deferito, senza mai dirimersi ed essere risolto, l’intreccio di essere ed ente.

E tutto ciò proprio affinché nella stessa impositività del Ge-stell si riesca a sprigionare l’eventualità di un vincolo liberante, come dirà altrove (lo analizzeremo più avanti) Heidegger. A ben vedere non sono necessarie azioni affinché l’autentica provenienza dell’essere si manifesti all’uomo. Lo dimostrano già alcuni passi del seminario dedicato alla Costituzione onto-teo-logica della metafisica. «La differenza si mostra propriamente allo sguardo (Blick)», ciò indicando che alcun decorso o intervallo temporale è dato scorgere nell’istantaneità di questo colpo d’occhio.Semmai è proprio il nostro tentativo di rappresentare la relazione a subire le ipoteche della discorsività, e a ridurre la «differenza» a mera «distinzione (Distinktion), ad artificio del nostro intelletto». Tra i due stadi, nei quali prende corpo l’inevitabile e strutturale oblio della differenza nella distinzione, il suo velamento destinale, non è però possibile articolare e concettualizzare alcun legittimo passaggio.

Tale passaggio, se fosse anche solo scandito, ripresenterebbe al suo interno l’aporetica inversione di rango, per la quale il decorso naturale del tempo finisce per rivelarsi la condizione dello stesso individuarsi, in esso («molto prima»), di un momento, un luogo o una provenienza originaria dell’evento e della differenza. In questo modo la distinzione si rivelerebbe anteriore al suo stesso sfondo di provenienza, vale a dire alla differenza. L’astratta distinzione sarebbe, in grazia di un indedotto rovesciamento (Umkehrung), il criterio di esplicazione della stessa differenza, dell’evento che cioè fa essere la distinzione nel momento in cui sisottrae alla sua presa identificante. Per Heidegger, invece, originaria è la differenza e cooriginario le è per noi, coappartenenti all’essere, l’oblio, il cui accadimento non è temporalizzabile, o è poeticamente distinguibile solo nei termini di una detonazione (Sprengung),metafora stessa dell’evento. Il transito dall’essere all’ente, e dalla differenza alla distinzione, non è un moto reale o storico, essendosi nell’originaria differenza già da sempre compiuto. Heidegger lo denomina una Überkommnis, un «approdo» nel quale l’essere trova «rifugio» (sich birgt) e si «nasconde» o meglio si «vela» (verbirgt) in ciò che ha «svelato» (entborgen).L’«approdo» senza transito della Überkommnis, altrettanto che lo sguardo di poco prima, presenta il tratto essenziale di una continuità non temporalizzabile. Essa può, in senso storico e fenomenologico, tanto essere esteso al lungo corso della tradizione, quanto essere contratto nella cesura infinitesimale dell’istante.

L’istante è imminente e sovrastante, in-stante, «sopravviene» (überkommt), tanto imprevisto quanto lui solo adocchiante e appropriante i termini della relazione. Si tratta di un legame asimmetrico, non di una concreta relazione, transitiva e bilaterale. In essa la Ankunft, l’approdo nella disvelatezza dell’ente, appartiene alla Überkommnis, svelante e celante, ancor prima che questo si riversi e transiti in quella. Nel testo sulla Costituzione onto-teologica della metafisica è proprio in questo punto concernente lo stringente e attimale passaggio dell’essere nell’ente,decifrato in termini di inarticolabile movimento di «approdo» ed «arrivo» (nel quale, paradossalmente, l’arrivo si dà ancor prima dell’approdo), è proprio in questo punto che Heidegger, come già visto, aveva scritto che «essere» ed «ente» si«dispiegano» (wesen) come «differenziati a partire dallo Stesso, dalla di-stinzione (Unter-schied)». E tale «di-stinzione», nella sua equilibrante divaricazione «è lo svelante-velante deferimento di entrambi».